Nel grande circo del cinismo sociale anche quest’anno abbiamo assistito al numero del “barbone morto di freddo”, come sempre ben eseguito: tutti a constatare che i barboni esistono, e che tuttavia nessuno sa trovare il modo di superare la loro misera sorte, inchieste e speciali, contriti dibattiti (molto efficace il reportage di “Internazionale”, qui). Ma lui, il barbone, è ancora lì sulla strada, anche dopo la discussione, dopo la trasmissione “partecipata” e l’emozione narrata dallo scrittore. Tranquilli, l’inverno prossimo ce ne saranno altri a morire di freddo, e ci sarà altro rammarico e altra costernazione. Loro, i barboni, saranno comunque lì a presidiare il mondo con il loro grido assoluto di estraneità.
Quegli uomini del nulla che si instaurano come degli ingombri nella nostra vita di tutti i giorni vengono recepiti per lo più come degli esseri “venuti male”, uomini sì, ma non del tutto, e pertanto le loro vite pregresse non sono nemmeno degne di considerazione: in fondo tanti uomini dopo una separazione hanno saputo ritrovare l’equilibrio e la voglia di andare avanti, molti espulsi dal lavoro si sono umilmente rassegnati a cercarne un altro, per mantenere i figli, una casa. Ma questi “esseri” no, non lo hanno fatto, per scelta, per follia, per colpa della società incapace; insomma, comunque la metti, la storia del clochard (usiamo pure questa parola elegante) rimane un enigma. Che scatena la ferocia di coloro che si spingono oltre ogni etica, magari ragazzini annoiati che danno fuoco a un senzatetto così, per il gusto di vedere un uomo che soffre e muore orribilmente. La cronaca quotidiana è spaventosa, e riflette una inquietante “voglia di sangue” che si esercita sui clochard, su quelli che non contano nulla, che fuggono dagli altri.
Quanto sporca sia la coscienza di noi tutti su questo versante è una questione infinita che si chiuderà forse solo nel momento in cui quello che Andrea Zanzotto definiva il nostro “progresso scorsoio” terminerà (per approfondire vedi Elogio dello straccio e dei reietti di Enrico Manera).
E non è un caso che il clochard, proprio per il suo abitare il limite, molto spesso sia divenuto “oggetto” artistico, al confine, appunto, tra il reale e il surreale. Certamente “esiste uno ‘charme du clochard’, poiché in ognuno di noi si annida un pensiero remoto che attira e respinge. Non possedere nulla con la speranza così di avere tutto. Una ‘filosofia’ che si ritrova nella straordinaria storia di un uomo che per predicare la povertà sinonimo di ricchezza finì su una croce da Re e da ‘clochard’”, diceva la presentazione della mostra PARIS CLOCHARD. I clochards e i bassifondi di Parigi fra ‘800 e 900 che vent’anni fa portava in Italia la grande riflessione artistica francese sul tema (dipinti e illustrazioni di Steinlen, Cheret, Poulbot, Draner, Willette, Toulouse-Lautrec, Delannoy, Dupuis, Vogel, Mirande, con sullo sfondo la letteratura di Balzac, Hugo e Zola). Ma questo è un argomento a sé stante, che andrebbe ripreso e rivisto, magari sviluppato con lo sguardo di Banksy.
I motivi che portano una persona a dormire sotto un ponte o su un marciapiede possono essere infiniti, e tutti vengono da una sorta di rottura della propria esistenza, o è la stessa psiche che si spezza. La vista di un clochard rimane senz’altro un’esperienza di perturbamento, poiché in quella persona lì davanti ai nostri occhi si incarnano tutte le angosce materiali di caduta dal nostro cielo quotidiano. Davanti a quell’angelo caduto sulla via, ogni nostro sforzo di lanciare la vita ancora un po’ più in là verso un qualche ulteriore miglioramento, viene messo alla prova. Le mani che il clochard tende, la sua ala che ci sfiora, sono dei test incessanti e urticanti, c’è chi li supera “pagando”, chi passa oltre appellandosi tra sé all’infamia sociale del capitalismo, chi conta sulla sua consumata atrofia emotiva, ma il perturbante colpisce sempre, perfora i diaframmi e ti inginocchia.
È proprio questo il tema, in tempi durissimi di violenze e brutture governative contro i nuovi migranti (con i quali il problema antico dei senzatetto, pur affine, non va identificato), il clochard rimane come sospeso sulla superficie della sensibilità collettiva. Mai sentito parlare di vere politiche specifiche per il recupero effettivo dei barboni. In Italia (ISTAT) sono circa 51.000, il 40% si trova tra Milano e Roma,
l’85% sono uomini di poco più di 40 anni (va da sé che del rimanente 15% di donne andrebbe messo a fuoco il diverso punto di vista), il 58% sono stranieri, e tutto continua a rimanere nelle mani della buona volontà, della carità più o meno cristiana.
L’esistenza di una persona si riduce al minimo nel momento in cui i sistemi sociali pensati per difenderla vengono meno, è il fenomeno della “desocializzazione” descritto a suo tempo da Alexandre Vexliard nel suo basilare Le clochard (Paris, Desclée de Brouwer, 1998). E questo accade quando le risorse di intelligenza organizzativa della collettività si contraggono in favore di un sistema di difesa, anche fisica, dell’interesse di una sua parte prevalente. Il clochard non è che la rappresentazione assoluta della perdita di senso della ragione sociale. Come ha detto una volta Franco Arminio: “Non regge la forma umana del nostro sentire gli altri, del nostro amarli, del nostro tradirli.” (La forma umana non regge più, “Le parole e le cose”, 12.12.2012)
Sarà perché non c’è più una comunità, cioè l’entità che afferma e protegge i diritti dell’individuo, come sempre più spesso si dice? Se è così, se homo homini lupus torna ad essere la cifra della vita collettiva, se “armiamoci per stare più in sicurezza contro le invasioni” è addirittura un refrain governativo, allora la condizione del clochard diventa una formidabile sintesi. L’individuo “desocializzato” si trasforma in una sorta di laboratorio nel quale si riproducono, su scala ridotta, le dinamiche di crisi soggettive e oggettive, è un uomo singolo che si pone in conflitto con l’intero sistema relazionale in cui è o è stato inserito. In questo senso il clochard riunisce i significati di crisi e di critica, come anticamente avveniva: egli è un punto di rottura, di crisi della società e nello stesso tempo, con il suo esserci, esprime su di essa un giudizio, una critica. Crisi e critica hanno un’origine comune (la radice greca krino) e il clochard sembra simboleggiarle appieno.
La questione è capire in che misura il respingimento del clochard sia un atteggiamento, diciamo, apotropaico, di rifiuto di un’immagine di miseria umana, e quanto sia frutto dei tempi. È evidente che questi nostri tempi estremizzano la realtà. Il trionfo della stupidità, dice Armand Farrachi, che “si esprime senza ritegno tra la popolazione, risale fino alla rappresentanza politica, si diffonde nell’apparato di Stato e torna a irrigare l’intera società” (intervista sul suo ultimo libro Il trionfo della stupidità, Fandango 2019, in “Repubblica” 19.02.2019), e l’assuefazione all’ignoranza stanno fortemente indebolendo la capacità di esercizio critico sulla realtà. E le capacità socializzanti cominciano ad assomigliare a quelle delle società animali che sono determinate dalle nude necessità di sopravvivenza e di perpetuazione della specie. Tutto è giocato sul registro della difesa, non della progettualità positiva: ci si deve difendere da un mercato aggressivo, non costruirne uno nuovo alternativo; meglio difendere il vecchio modello di società che pensarne uno nuovo.
Lo psicanalista americano Christopher Bollas osserva che all’inizio del XXI secolo “buona parte degli americani e degli europei risultava aver preso le distanze dalla vita introspettiva.” In un decennio si sono abituati aiutandosi con i farmaci “a ignorare il significato di ansia e depressione […]. La ricerca di un’esistenza quotidiana più sicura […] aveva spinto le persone a prendere le distanze dalla soggettività, ad abbandonare la propria mente.” È l’apparire del normopatico, “un altro tipo di personalità” che con il suo disinteresse per la vita interiore “cerca riparo dalla vita mentale immergendo il Sé nel confort materiale e in una vita di svaghi” (L’età dello smarrimento, Raffaello Cortina 2018, p.96). Se i contenuti delle relazioni sono solo sull’oggettività, sull’immediato benessere, sulle cose, anche i rapporti diventano inautentici. In un simile contesto è estremamente facile ritrovarsi “desocializzati”, senza più rapporti profondi con gli altri; così si cade facilmente nella solitudine. La scarsa attitudine all’introspezione rende tutti più fragili, più esposti, diventiamo “un punto di rottura” e “una critica del sistema”, crisi e critica, come il clochard.
Da qui il crescente isolamento interiore di tantissima gente? Da qui il nuovo uomo-lupo-per-l’uomo? “Stupidità”, “ignoranza”, “assenza di interiorità”, ma solo e soprattutto “confort materiale” e “una vita di svaghi”: ecco la versione attuale della solitudine. E se la vera dimensione del clochard è la solitudine questa è una società di clochard? Di sicuro egli è una sintesi modernissima a cui guardare, per capire e reagire.