Il primo dell’anno ne aveva fatti 89. Faccia da uno che ha preso una granata di pugni ma ne ha dati di più, in quantità, fiero del proprio ribellismo, Piero Sanavio è una leggenda del giornalismo italiano. Classe 1930, a vent’anni va negli Usa a trovare Ezra Pound, trincerato al St. Elizabeths, con l’intento di scrivere una tesi – pionieristica – sulle fonti dei ‘Cantos’. Su Ez firma un libro formidabile, “La gabbia di Pound” (1986; ristampato da Fazi nel 2014), e per tutta la vita racconta gli irrequieti, gli irredenti, da Witold Gombrowicz a Louis-Ferdinand Céline. Era un geniale rompicoglioni, Sanavio. La prima volta l’ho incontrato nell’antro dell’editore Raffaelli, a Rimini. Raffaelli ha pubblicato alcuni grandi libri di Sanavio: “Ezra Pound. Bellum Perenne” (2002), “Louis-Ferdinand Céline. Virtù dell’odio” (2009) e “Ancora su Céline” (2013). Non era felice, Sanavio, abituato a chiacchierare con T. S. Eliot, a telefonare a Ernest Hemingway e a lavorare con Dominique de Roux. Io, invece, ero felicissimo. Lo intervistai, la prima volta, il primo novembre del 2012, su “La Voce di Romagna”, in omaggio a Pound, morto 40 anni prima. Sparai il titolo (“Ode al più grande poeta d’Italia”), Sanavio si mostrò soddisfatto del sottotesto (“Intervista – con retroscena – a Piero Sanavio, l’uomo che ha conosciuto e amato Pound. Gli fu accanto durante la reclusione nel manicomio criminale di Washington”). Cominciammo un dialogo vibrante, fatto di tante interviste, alcune riprodotte in questa pagina in memoria. Contestualmente, iniziò a mandarmi a fottere – era fatto così, accettare o smammare. Se gli parlavo di un libro che mi piaceva – Cormac McCarthy, per dire, mica piccioni qualsiasi – mi bacchettava, “Non è vero che non legge romanzi, legge gli americani del passato. Legge testi con una scrittura divulgativa, industriale, passata per il mangano degli “editors” sicché non si sa cosa e come avesse scritto la persona che figura come autore. Ma ciò che importa, in un libro, è la forma, la coincidenza tra l’idea e la forma – la fabula è soltanto un’offa, un romanzo non è un racconto, è un’ipotesi sul reale. Ce l’ha insegnato Platone”. Secondo lui, per dire, “McCarthy volgarizza Faulkner, quello scadente di The Reevers, The Mansion, e torna indietro”. L’anno scorso, dopo aver letto un articolo – non ricordo quale – che firmai per ‘il Giornale’ mi scrisse, incazzato perché non lo citavo, “la ringrazio di ricordarmi come traduttore-iniziatore in Italia di ‘Walden’: Thoreau, nel dopoguerra, quando nessuno lo voleva, l’ho inventato io… non pretendo certo che legga le mie molteplici introduzioni a Thoreau. Esistono ottime storie della letteratura americana. Sarebbe il caso che ci desse un’occhiata”. Io – con il massimo rispetto che si deve a un maestro – gli rispondevo per le rime. Lui ghignava e godeva. Questa lettera privata, però – era il 27 maggio del 2016 – tra le tante che ci siamo scambiati è quella che mi pare rispecchi meglio Sanavio, sia onore a lui. (d.b.)
“Caro Brullo –
mi farebbe piacere spedirle il mio ultimo romanzo. non è per una recensione: al Giornale mi detestano per le mie idee politiche, al Corriere, morto Gramigna, mi snobbano, a Repubblica sono persona non grata; e al Manifesto si sono seccati perché ho toccato chi non dovevo toccare, Celati, naturalmente, e le grandi case editrici non mi voglio perché, dicono, sono ‘difficile’ sicché ripiego di pseudo editori, stampatori, in realtà. dicono che non hanno soldi ma allora perché stampano, e neppure fanno il contratto. per autolesionismo? per vanità? mi si può chiedere perché stampi comunque con loro e la risposta è che ciò che è stampato resti; una servitù, uno sfruttamento accettato perché l’opera resti. è da E.P., quel grande poeta e idiota politico che l’ho imparato. la cosa che importa, se si riesce, è scrivere. e sopravvivere. sono molto vecchio, molto oltre gli 80, il libro è il vecchio messaggio nella bottiglia. il resto importa poco – importano poco, ormai, anche le molte tesine universitarie e le due tesi di dottorato sulla mia narrativa – l’ultima il luglio scorso. son troppo vecchio per tutte queste cose ma non ho rimpianti, una specie d’orgoglio, semmai, perché appartiene al gioco e sono sempre stato, la mia famiglia lo è sempre stata, fuori dai giochi. per orgoglio, arroganza? forse. se ciò che scrivo ha un valore, un giorno salterà fuori. Piero Sanavio”.
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“La letteratura italiana? Puro narcisismo. Per questo ho rincorso Pound”
Come dei cospiratori. Lui ha il viso di un Cesare, il naso imponente, la mascella ardita, gli occhi che lampeggiano. L’altro è il “gancio”: alto, dinoccolato, limpida e luciferina barba. Io sono quello sul divano, che coglie, tempra e raffina le parole. In tre evochiamo lo spirito di Ezra Pound, che ha abbandonato la terra 40 anni fa, rotondi. Nella casa editrice di Valter Raffaelli (“l’altro”), l’antro in Vicolo Gioia, a Rimini, c’è “lui”, Piero Sanavio, una vita da professore di antropologia e letteratura, spesso fuori dall’Italia, inviato del “Mondo” e del “Giorno”, firma del “New York Herald”, romanziere, vigoroso, virulento saggista. Per Raffaelli ha firmato, nel 2009, un libro su Louis-Ferdinand Céline, “Virtù dell’odio”; lo intercetto mentre, insieme all’editore, pagina per pagina, sta correggendo le bozze di “Ancora Céline”, una specie di “seconda parte” del libro precedente. «Nasce dalla mia irritazione nei confronti di quelli che vogliono riabilitare Céline dalle accuse di antisemitismo. Céline era antisemita fin nelle viscere, stop. Era un uomo orrendo, un figlio di pu***na. Ciò non toglie che sia stato uno scrittore formidabile». La storia di Sanavio si spalma per sketch formidabili, nel dialogo, improvvise, scaturiscono perle, come questa: «mia moglie ha imparato a pescare alla mosca a 13 anni, istruita da Ernest Hemingway, il quale si faceva crescere la barba perché gli si squamava la pelle del viso». Sanavio documenta le vicende liriche e biografiche di Ungaretti e Montale, quella di Witold Gombrowicz. «Per la Rai, insieme a una troupe che mi fu affidata lì per lì, andai a Vence per edificare un servizio sulla sua morte». Céline, Pound, Gombrowicz: «sì, sono stato uno “fuori”, un non allineato. A me interessa la letteratura, questo è il punto, le operazioni sulle strutture narrative. Non sono un fan di Gadda, ho l’impressione che in Italia lo scrittore più importante (e più misconosciuto) sia stato Vittorio G. Rossi. Il resto è un ripiegamento narcisistico. Anche l’impeto civile di Alberto Arbasino non è che una opzione narcisistica. Pensa all’importanza di “Laborintus” di Edoardo Sanguineti: beh, non è che un plagio da Pound». La parola a Zio Ez. Già, Ezra Pound. Sanavio si ferma, guarda il soffitto, sgorga un sorriso, rincorso dagli occhi lucidi come perle. «Ezra Pound è stato il poeta italiano più grande di sempre. Sfortunatamente scriveva in inglese, ma ha usato tutto l’immaginario italiano, gli eroi, i simboli, la storia, come nessun poeta italiano ha mai fatto». Il fascismo: «certamente Pound era fascista, allora lo erano tutti, anche se era un fascista atipico, che usava come fondamenti teorici Confucio, Jefferson e Sigismondo Malatesta. Diciamo che di politica non capiva nulla. Purtroppo, ora Pound è strumentalizzato dalla destra, da chi non ha compiuto una lettura approfondita della sua opera». L’antisemitismo: «Pound non ce l’aveva con gli ebrei, ma con i banchieri. Nei “Cantos” cita il Levitico, descrive il rito ebraico nell’episodio della sinagoga di Gibilterra (Cantos XXII), che diventa familiare, un segno di amicizia con lo straniero. D’altra parte lo ha scritto anche lui, “l’antisemitismo è una falsa pista”».
Piero Sanavio si laurea a Venezia, con una tesi sulle fonti rinascimentali italiane nell’opera di Pound, discussa con Carlo Izzo, «di fede comunista, fu il primo grande traduttore di Ezra». Dopodiché si trasferisce per continuare gli studi ad Harvard: «ero fellow della Rockefeller Foundation, perciò riuscii a ottenere i permessi per visitare Pound al manicomio criminale Saint Elizabeths di Washington», dove Ezra, lo ricordo per verità storica, rimane recluso dal 1945 al 1958. «Era vigoroso e sopra le righe, rideva, passava da fosche depressioni a momenti di grande euforia». Il primo incontro fu squassante: «egli mi chiese come stava “Valeri”. Pensai si riferisse all’amico Diego Valeri e gli risposi che insegnava francese a Venezia. Invece, intendeva Walter Audisio, il “colonnello Valerio”, il partigiano che aveva ucciso Mussolini. Alla mia risposta replicò, “testa romana, domani senza maschera”. Credeva che fossi inviato dall’Italia a vedere come stava, era sospettoso, nonostante ci legasse una corrispondenza, vedeva nemici ovunque». A questo seguiranno un altro paio d’incontri, «rimasi impressionato dalla devozione di Dorothy Shakespear nei confronti del marito, mi innamorai della sua fedeltà a Pound. Poverissima, con un abito liso, abitava in uno scantinato e tutti i giorni andava da Ezra». Sanavio («ho fatto di tutto per non appartenere alla cerchia degli amici di Pound, a me è sempre interessata soltanto la sua opera») incontra Pound in altre occasioni, a Parigi. Nel 1965, «l’anno in cui morì Eliot», Sanavio allestì per i Cahier de L’Herne una pubblicazione su Pound, «non figuro come curatore, mentre spiccano Dominique De Roux e Michel Beaujour: allora lavoravo all’Unesco, mi consigliarono di non espormi, Pound dava fastidio». Bisognava presentare pubblicamente il lavoro: «Pound era terrorizzato, ma riuscii a vincerlo. Mi ricordo un’aula piena di poeti, giornalisti e devoti venuti a stringerli la mano. Lui mi teneva il braccio, sembrava stritolarlo, e mi sussurrò, tra i denti, “quanta gente, tutti con la testa vuota”». Al di là di altri episodi occasionali, «ho incontrato Pound l’ultima volta a Spoleto. Era seduto vicino a una chiesa, “Hello Grandpa!”, gli dissi, e lui mi fece un cenno con la mano». Sanavio mira i ricordi, il volto vibra come una fiamma. «La mia tragedia è stata tornare in Italia. Ho lavorato con Claude Lévi-Strauss, con De Santillana: qui i giornalisti si sbagliano nel pronunciare “Vermeer” e fanno di François Hollande uno yankee». I ricordi si portano con fierezza, sono medaglie, pesi. Davide Brullo
*Intervista pubblicata su “La Voce di Romagna” il primo novembre 2012
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“Céline era antisemita, certo. Ma è dalla merda e dal sangue che nasce la grande letteratura”
Padovano, classe 1930, fronte ampia, volto volitivo, un po’ Popeye un po’ Marlon Brando, Piero Sanavio si è laureato a Venezia sulle fonti italiane dei “Cantos”, su Ez ha pubblicato un mucchio di libri. Di Sanavio mi piace l’indomita indole alla trasgressione, al vagabondaggio (ha insegnato negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna), un cipiglio fuori tempo e fuori norma che ha pagato duro: nel catalogo dei maggiori editori italiani, da Neri Pozza a Rizzoli e Bompiani, oggi è marginalizzato, lo pubblica Raffaelli, a Rimini. La prima volta che l’ho visto Sanavio lavorava a un libro su Louis-Ferdinand Céline, il seguito di “Virtù dell’odio”, del 2009, stampato proprio da Raffaelli. S’intitola “Ancora su Céline”, è in libreria dal mese prossimo, «è nato in parte dall’indignazione per la superficialità o malafede (la scelta è sua) di molta critica italiana che ha minimizzato o addirittura negato l’antisemitismo di Céline – come ne ha minimizzato l’anticomunismo facendo passare Céline persino per un simpatizzante comunista», mi dice, carattere duro, sguardo superbo, voce ferrea. Tendenzialmente introvabile, lo raggiungo per un dialogo via mail. «In questo secondo libro mi sono limitato a suggerire la rilettura di certe pagine, oltre che a indicare molte falsificazioni (sue, dei critici), molte menzogne. Anche il celebratissimo “Semmelweis”, come ce lo presenta Céline, perlomeno, è una menzogna». Quanto incide l’antisemitismo di Céline nell’opera dello scrittore Céline? «L’antisemitismo è inseparabile dall’opera e non ci sono alibi. Non ci sarebbe Céline senza l’antisemitismo. Né serve dire, a giustificazione, che gran parte della Francia tra le due guerre era antisemita. L’antisemitismo di Céline è cialtronesco, viscerale, peggiore persino di quello che fu chiamato il socialismo degli imbecilli. In Céline anche l’insistenza sull’irrazionale, il “rêve eveillé”, i famosi puntini sospensivi, la guerra contro la Grammaire Raisonnée nascono dal suo antisemitismo. È la bestialità irrazionale contro la ragione». Da qui al nazismo il passo è breve. «Con tutto questo, è eccessivo definire Céline nazista, era piuttosto un cialtrone imbevuto dello spirito revanscista che avrebbe prodotto Vichy – vile, ignobile, servile, criminale persino, come coloro che ammassarono gli ebrei al Vel’ d’Hiv’ per mandarli ai lager. Però fu anche un grande scrittore. Parafrasando ciò che qualcuno disse della politica, è anche “dalla merda e il sangue” che nasce la letteratura. Era l’invidia a muoverlo, invidia per tutto ciò che egli non poteva essere. Detestava gli ebrei che identificava con la grande borghesia perché sapeva che per quanti soldi potesse guadagnare e quanto celebre potesse diventare, ciò non bastava a far di lui un borghese, un grand bourgeois alla Proust, alla Gide: occorreva assai di più e quel di più gli mancava». Già, come la mettiamo con Proust. «Con tutto il suo antisemitismo, Céline cedeva al fascino di Proust, imitandolo, per quanto tentasse di nasconderne le tracce e affermasse che lo detestava. Anche questo c’è nel mio libro. Non vi si parla soltanto di antisemitismo, o di quando Céline faceva il finto povero, nascondendo la consistenza dei suoi guadagni – si parla soprattutto, ancora, sempre, di letteratura». In sintesi: il ruolo di Céline nella letteratura moderna. «Ripeto: fu un grande scrittore. Soprattutto all’interno della letteratura francese dove, rompendo le regole della grammatica, poteva illudersi di minare le strutture sociali del Paese e stravolgerne la storia. Intrasportabile, fuori di Francia, il suo stile, come certi vini e certi formaggi, senza senso al di fuori della lingua francese e di quella letteratura». Gombrowicz, Thoreau, Pound, Céline: lei è attratto dai disobbedienti. La grande letteratura è sempre “trasgressiva”? «Shakespeare, probabile “recusant” e prudente fino a sfiorare la viltà, restava formalmente nell’ortodossia non soltanto perché era il Potere che gli permetteva di vivere, proteggendo la sua compagnia teatrale – operava nell’entusiasmo di un boom economico che pareva inarrestabile e lo restò fino alla morte di Elisabetta. Aveva anche, davanti a sé, il terribile ricordo della fine di Marlowe, il grande trasgressore. Con la menzogna del progresso inarrestabile e razionalizzando lo sfruttamento dei subalterni la cultura borghese ha occupato ogni spazio dell’esistente sicché l’arte nel suo ambito non può esprimersi che per negazioni e la scrittura non può che essere antagonista». Lo stato della letteratura italiana. «Bisognerebbe cominciare a chiedersi perché Casanova e Goldoni scrivessero le loro memorie in francese e Barretti scrivesse in inglese. Era il Settecento. Quanto al celebratissimo “Gruppo 63”, ho l’impressione che si sia trattato di un’operazione editoriale più che culturale e di una tardiva imitazione degli stranieri. Non bastava plagiare i “Cantos” per diventare moderni, o pensare che la “housewife from Dubuke, Iowa”, (per la quale Harold Ross aveva fondato il “New Yorker”) fosse sorella di latte della “casalinga di Voghera”, la signora dell’Iowa parlava inglese e aveva la traduzione della Bibbia di re Giacomo, insieme alle chiavi di casa, nella borsa per la spesa. Vale a dire: conosceva il linguaggio di Shakespeare, non fosse altro perché andava a messa, e da brava calvinista credeva nell’importanza radicale del patto – tra l’uomo e dio e tra uomo e uomo, quindi tra lo Stato e il cittadino. Sapeva anche che, se si stancava del marito, poteva sempre divorziare. Se poi si interessava all’arte, alla letteratura, la sua città, come qualsiasi altra della Repubblica, era provvista di ottime biblioteche». Socchiudo la porta della mail con un «grazie per i molti insegnamenti». Segue risposta lapidaria, «non mi prenda troppo sul serio». Davide Brullo
*intervista pubblicata su “La Voce di Romagna” il 9 maggio 2013
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“Pound era un genio, fu politicamente un cretino, un provinciale”
Intanto, mi piglio la mia dose di doverosi insulti. Perfino gratuiti. “Lei legge gli americani del passato. Legge testi con una scrittura divulgativa, industriale”. Cordialmente, incasso. Perché ne vale la pena e comunque avevo soppesato i rischi. Piero Sanavio, classe 1930, viso duro, da pugile, di genia “inderogabilmente antifascista”, è il più importante studioso di Ezra Pound. Intanto, lo ha studiato per davvero, discutendo una tesi a Venezia, per Carlo Izzo, sui primi Cantos. Poi, è andato a trovarlo. “Incontrai Pound a più riprese, a Washington e a Parigi principalmente, pure se non ho mai appartenuto, per scelta, alle coteries che come funghi, negli Stati Uniti e in Europa, crescevano attorno alla sua persona”. Il legame con Pound, sancito da un epistolario durato dal 1955 e il 1965, in parte inedito, custodito alla Biblioteca dell’Università di Padova, frutta a Sanavio due libri mirabili, La gabbia di Pound (1986; 2005, edizione ampliata) e Ezra Pound: Bellum Perenne (2002) e un radiodramma, Il caso Pound, trasmesso sul terzo della Rai nel 1987. Sanavio, giornalista – per Il Mondo di Mario Pannunzio e per Il Globo di Antonio Ghirelli – scrittore, autore di una vita ‘esagerata’ – ha fatto il tassista a Boston, ha insegnato all’Università di Puerto Rico, a Yale e a Harvard, ha lavorato a Parigi, è stato inviato in Africa per l’Unesco e ha creato un centro studi internazionali a Bucarest – dalle amicizie superiori – chiacchierò con T. S. Eliot, fu amico di Witold Gombrowicz e di Lawrence Durrell, ma gli abboccamenti con Jorge Luis Borges si rivelarono “del tutto sterili” – è l’esegeta degli estremisti. Memorabili i libri su Céline – almeno, Virtù dell’odio, 2009 – le traduzioni di Henry David Thoreau, di Knut Hamsun, di Joseph Conrad. “Gli studi su Ezra Pound sono diventati ormai una delle tante industrie del mondo accademico e il suo nome e reputazione si sono estesi anche a campi del tutto estranei alla letteratura, dalla sottopolitica alla sottocultura. Nessun male, tutti hanno diritto alla parola”, dice lui. Per questo, l’ho cercato. Per capire, a 45 anni dalla morte, perché il poeta americano sepolto a Venezia e sventolato come una bandierina a destra e a manca, era affascinato da un italiano nato 600 anni fa.
“Restò un provinciale. Ma ciò non gli impedì di essere grande”
A Rimini, Pound torna, dopo le scorribande dell’anno prima, nel marzo del 1923, pochi mesi dopo la Marcia su Roma. Nella città del Malatesta entra in contatto con il fascismo, che lo affascina. “Il fascismo di Pound, l’abbaglio su Mussolini, nasce ignorando la storia italiana e la meccanica dell’Unità con l’arroganza del maestro di scuola che dalla provincia arriva in città e suppone di aver tutto capito. Se i professori che si occupano di Pound studiassero la letteratura e la storia inglese e americana, scriverebbero meno stupidaggini”. Addirittura… “Culturalmente, e con tutta la sua curiosità e genialità, Pound restò un provinciale. Ho sempre trovato illeggibile quell’esercizio in narcisismo che è l’Autobiography of AT della Stein (nazista, malgrado fosse ebrea, sosteneva che Hitler meritava il Nobel per la pace perché aveva pacificato la Germania eliminando gli elementi di disturbo – cioè gli ebrei), la cui attendibilità, peraltro, fu negata da un opuscolo del 1939 che mai appare nelle storie letterarie, Testimony against G Stein, a firma di Jolas, Matisse, Braque, Salmon, Tsara, tra gli altri, ma su un punto aveva ragione: Pound era ‘un maestro di scuola di paese’. Ciò non gli impedì di diventare un grande poeta”. Mentre oggi il Comune di Rimini non sa come trattare quel sacro estinto pieno di aculei che è Pound, nel 1925 la rivista Testa di Ponte gorgheggiava: “Ezra Pound è un Poeta Inglese il quale venendo in Italia, e precisamente in Rimini due anni or sono si è sentito tanto tenacemente conquistato dal fascino dei nostri monumenti, segni mortali di una storia immortale, da trovarsi avvolto nel manto dell’ispirazione. Così, Ezra Pound ritornando in patria s’è accinto a fissare sulle pagine di un superbo libro, tuttociò che turbinava nella sua mente di Poeta”.
“Era un coglione. Deve dire grazie a Frost, che interpellò JFK”
L’accusa di tradimento è la pagina più oscura della vita di Pound. Arrestato nel 1945, sarà liberato nel 1958. Una vergogna. “Si chiede perché Pound è stato accusato di tradimento? Perché era un coglione e da Radio Roma faceva propaganda contro gli USA e in favore dell’Italia durante la guerra, sostenendo che la Costituzione Americana gli garantiva libertà d’opinione”. Insieme ad Andrea Colombo, per l’editore ravennate il Girasole, lei ha curato una edizione dei Radiodiscorsi di Pound (1998). “Era letteralmente fuori di testa. Deve ringraziare, se scapolò l’impiccagione: 1. Il suo avvocato, che invocò l’insanità mentale. 2. Il fatto che quando aveva chiesto alla sua ambasciata, a Roma, il passaporto per ritornare negli Usa, dopo Pearl Harbor, un funzionario illegalmente glielo rifiutò – illegalità che pesò nella decisione di farlo uscire da St Elizabeths – perché (disse) era ‘un pessimo americano’. Già nella sua ultima visita in Usa (a bordo del Rex, in prima classe, strano per uno senza soldi) certe dichiarazioni erano parse perlomeno ambigue, facendo sospettare (e lui lo lasciò credere) che fosse in ufficiosa rappresentanza del Partito Nazionale Fascista. Vero? Falso? Possibile – ma era abbastanza fuori di testa da pensare di avere ruoli più importanti di quelli che effettivamente aveva. 3. L’intervento di Robert Frost presso JFK, quando diventò presidente, e l’autorità di T. S. Eliot. Tutte le petizioni di intellettuali per la sua liberazione, come correttamente diceva Hemingway, non avevano fatto che irritare l’amministrazione pre JFK”.
“Bisogna rileggere e reinterpretare i Cantos”
Altra spina nel cuore dei poundiani. La traduzione Mondadori dei Cantos, fatta dalla figlia Mary, “insieme a Pound, che non conosceva l’italiano”. Com’è? “Illeggibile”. E allora, ora? “Li sta ri-traducendo il solito Massimo Bacigalupo”. Esito: “la sua versione perlomeno sarà in italiano corrente, ma certamente non eccelsa. A meno che san Gennaro non gli faccia il miracolo”. Quindi, qui si pone un problema. “I Cantos sono da rileggere, e reinterpretare. La critica americana sta da anni facendo le note alle virgole nella migliore tradizione tedesca del XIX secolo. Io, non solo io, certo, qualche indicazione l’ho data, ho fatto la mia parte e mi son fottuto la cattedra – meglio così. Un’ultima cosa”. Dica. “I due canti in italiano, dove se la prende con gli americani per i danni al tempio dell’Alberti, fatti durante un bombardamento, come se fosse stata una scelta deliberata…”. Son quelli che ho citato all’inizio. “Beh, anch’essi sono un indizio che Pound era fuori di testa”. Perché? “C’erano depositi militari, caserme o cosa, nelle vicinanze. A Padova, quando le bombe distrussero un paio di inestimabili affreschi di Mantegna, agli Eremitani, la chiesa si trovava a pochi metri da un’importante installazione tedesca. Perché non ha mai protestato contro le depredazioni dell’arte italiana che facevano i tedeschi? Pound era un grandissimo poeta, ma politicamente, economicamente, un idiota. ‘Ma scrisse contro, l’usura!’, dicono. Anche sant’Anselmo. Anche sant’Ambrogio. Anche Vittorino da Feltre. Anche il Levitico”. Poi Sanavio mi molla. Non ne può più di chi fa domande idiote. “Sto terminando la correzione delle bozze di Americana, un tomo di circa 500 pagine di miei saggi sulla letteratura di laggiù. Non si illuda di recensirmi”. Chi la pubblica? “Una casa editrice di donne”. Detto tutto. Saluto. Sanavio, eremita del Novecento, scompare, come un uomo stilizzato da Joseph Conrad, accucciato tra i versi di un tonante poema. Davide Brullo