Va bene, il dibattito no. Ma nemmeno crocifissioni in sala mensa per aver denudato cagate pazzesche o re che rilucevano di loro maestà. La grande bellezza ha vinto il Golden Globe ed è stato candidato all’Oscar. Bene.
Dice: ora non è più criticabile, bisogna applaudire. Perché? Paura che ci ripensino e si riprendano la statuetta? Superstizione? Strascichi di localismo autarchico? Bisogna dismettere ogni titubanza personale e vestire l’orgoglio del marchio-Italia, come per le fusioni d’alta finanza. Le atmosfere bipolari del film come i giri d’affari della Fiat, salutati con petali d’amor patrio, inchino e ossequi al Michelangelo della pellicola, al Leonardo del bullone.
Foto di scena del film La Grande Bellezza
Chi dissente o fa una domanda che non sia da cinegiornale è ‘nu cretino, come dice fuori dallo schermo l’attore feticcio Servillo intervistato da una giornalista poi indirizzata affanculo dallo stesso, rientrato nei panni di Jep Gambardella. E così un film apprezzato all’estero, e persino un film come La grande bellezza che critica a ogni frame l’italiano come categoria morale ed estetica, deve essere circondato da quell’aura di encomio, di tono ufficiale e commemorativo da frecce tricolori, da Capri, Hollywood, da Cinematografo di Marzullo, da inaugurazione del Museo della Pizza con la benedizione di un monsignore e il taglio del nastro.
Come se il film non competesse con le Muse, ma con chi casomai storce la bocca. Su testate on line e Twitter schiere di crociati hanno difeso Servillo dall’offesa di essere stato offensivo (!), ribadendo che il nostro cinema è migliore dei nostri costumi e della nostra vita pubblica e privata, anche quando ne è allegoria e mimesi geniale.
Ci risiamo: usare la cultura come testa d’ariete dell’italian flavour nel mondo, strategia di sfondamento che per funzionare ha bisogno del silenzio d’intorno, di servi diligenti e collaborativi, di cavalli infreddoliti in un’alba decorosa. Se è piaciuto agli americani vuol dire che il film è bello, e i matti siete voi. Salvo poi sputare sugli americani se tante volte il film non dovessero premiarlo nella più alta sede, restando con quel saporetto in bocca di capirci di più non solo rispetto al popolino ma pure rispetto a gente che in fondo, diciamolo, mette lo zucchero sui maccheroni.
Nessuno negli Stati Uniti si sognerebbe di azzerare la critica attorno a un film perché è candidato a Cannes. Vale la legge di Woody Allen: “Sono più apprezzato in Francia che a casa. I sottotitoli devono essere incredibilmente buoni”.
Qui vale: vi meritate Alberto Sordi e non capite niente, almeno non rovinateci la festa, che certo non è festa in stile grandebellezza, movimenti sconquassati in una torbida salsa amorale, ma senz’altro festa impegnata, con gli intellettuali veri a degradare apposta il discorso dallo specifico filmico alla smagliatura-metafora sul seno della Ferilli quando si gira sul letto (che poi è l’Italia-bella-donna-attempata-che-muore).
“Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace ‘o presepio”, scrisse Edmondo Ber-selli in merito a quell’indiscutibile bellezza che coram populo era La vita è bella, con cui “Robberto” ci (a noi!) fece vincere l’Oscar. Se lì il sottinteso sbattuto in faccia ai perplessi era: “Non è che non ti è piaciuto il film, è che a te non piacciono gli ebrei”, qui il messaggio della sordina è: non è che voi sappiate di movimenti di macchina e piani-sequenza, è che a voi non piace l’Italia, il successo altrui vi dà il sangue agli occhi, siete invidiosi della felicità in generale. Forse non vi piacciono i napoletani che vanno a abitare a Roma. Insomma, a te pareva che il film avesse delle pecche, e invece devi superare la fase anale nel rapporto col tuo Paese. I fenicotteri rosa stanno bene al Colosseo, sono quelli nella tua testa che fanno danni.
WOODY ALLEN PER WALL STREET JOURNAL MAGAZINE FOTO BY TERRY RICHARDSON WOODY ALLEN FOTO BY TERRY RICHARDSON
Il nostro provincialismo invece risiede proprio in questa polemica, che umilia il principio dell’autonomia assoluta dell’opera d’arte col “noi non siamo abituati a mangiare” di Miseria e nobiltà. Siamo sempre in competizione con gli altri, come in un eterno Mondiale, coi sorteggi che ci fanno incontrare Brasile e Argentina di fila. E gli spettatori snobbati perché assenti alla proiezione mattutina dell’Azzurro Scipioni sono chiamati a comportarsi come tifosi che quando gioca la nazionale mettono il silenziatore a tutte le idiosincrasie di curva.
In fondo restiamo, noi italiani, turisti del mediascape internazionale, sempre in bilico tra il complesso di superiorità di avere avuto Rossellini e Fellini, di aver fatto recitare le pezze al culo e i lucidi da scarpe, e la paranoia di dover restare incompresi, di non poter più rifulgere a causa dei tagli che ci rendono non competitivi con Avatar e delle zavorre del popolo bue. Paese strano e bellissimo, ha detto Sorrentino ritirando il premio, in cui i grandi artisti sono ambasciatori della nostra bellezza nel mondo, e a noi mediocri non resta che caracollare al suolo, proprio come il giapponese del film di fronte alla grande romezza di Roma.