Abbiamo visto “ Soul Kitchen “ diretto da Fatih Akin.
Fatih Akin è un regista di origine turca nato in Germania, uno di quegli autori che si è fatto conoscere dalla critica e dal pubblico internazionale per quelle tematiche che vertono sull’immigrazione, l’integrazione, l’identità doppia e le difficoltà nel sentirsi di un solo Paese. E’ anche un regista da Festival, di quelli che ricevono premi a ogni film: “Soul Kitchen” è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia, vincendo il Leone d’Argento – Gran premio della giuria; il precedente del 2006, “Ai confini del paradiso”, ha ricevuto a Cannes la Palma d’oro per la sceneggiatura; “La sposa turca” *(2004) ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e European Film Awards come miglior film europeo, e raggiunge la notorietà del pubblico; nel 2002 gira “Solino” una storia di immigrati italiani in Germania; “Kurz Und Schmerzlos” (1998), è il suo primo lungometraggio e vince nello stesso anno il Leopardo di Bronzo al festival di Locarno e il Pierrot come miglior giovane regista al Bayerische Filmpreis di Monaco. Akin ci ha raccontato in tutti i suoi film, con stile asciutto e drammatico, i margini di una società multiculturale in pieno dissidio e che può scoppiare da un momento all’altro, la difficoltà dell’integrazione, la difficoltà del rapporto genitori-figli, lo spaesamento dei giovani nei confronti delle tradizioni e dei costumi della terra d’origine, della ricerca di un equilibrio tra radici e presente e in queste storie c’era sempre il viaggio di andata o a ritroso in Turchia. Una parte delle critica lo ha collocato stilisticamente dalle parti della vecchia New Hollywood, quella degli anni Settanta di Scorsese, Schlesinger e Bob Rafelson.
Adesso nelle sale c’è “Soul Kitchen” un film completamente differente dagli altri, con una discontinuità narrativa e formale che spiazza. Da commedie drammatiche fino al parossismo il regista giunge a una commediola simpatica, leggera, piacevole da vedere, ma superficiale, scivolosa a tal punto che si esce dalla sala e ci si domanda: cosa resta dentro di noi ? Un film sfacciatamente furbo e futile che racconta buoni sentimenti in un contesto da periferia urbana.
Il protagonista si chiama Zinos, un giovane greco rozzo, trasandato che ha un fratello in carcere ma anche la fortuna di essere amato da una giovane tedesca ricca, viziata e in partenza per la Cina. Ha un ristorante scalcagnato e infimo nella periferia di Amburgo chiamato Soul Kitchen, la clientela è composta da sbandati e abitanti della periferia che tracannano pinte di birra e s’ingozzano di piatti preconfezionati o mal cucinati. IL’universo di Zinos è formato, oltre che dalla fidanzata Nadine e dal fratello Illias, dalla cameriera Lucia, aspirante artista che vive in un appartamento occupato abusivamente, da un vecchio greco senza soldi che occupa una parte del ristorante, da un ex compagno di scuola, Neumann, che vuole carpirgli il ristorante per venderne il terreno e da un cuoco matto ma bravo che prepara anche cibi afrodisiaci che spingono i clienti all’orgia (un cuoco esperto di haute cuisine che sostituisce ai fornelli Zinos e che trasforma il ristorante in un locale alla moda capace di offrire buon cibo e musica soul). Nella storia si inserisce l’ernia del protagonista, la sua voglia di raggiungere in Cina la fidanzata ormai persa, il vizio del gioco del fratello che perde a carte il ristorante e il lieto fine che non poteva mancare.
Scrivendo e girando una vera commedia più in stile americano che non italiano, il regista turco-tedesco rinuncia ai suoi temi più cari come il conflitto generazionale e il viaggio e preferisce raccontare l’emancipazione sociale del protagonista senza particolari patemi sociali e antropologici, quasi un tuffo nella leggerezza e nell’edonismo. Akin si sofferma più sul cibo, sul sesso, sulla musica nel nome di un puro principio di leggerezza e piacere come se ritenesse che il nuovo cinema post-globalizzazione sia adrammatico, aideologico e pronto ad essere compreso in tutto il mondo.
Forse lo è stato veramente l’ultimo statista italiano o forse essere gallo sulla spazzatura in Italia fa sentire un po’ statista. Di chi parlo ? ma di chi parlano in questi giorni parenti e amici. E non sono mica operai o studenti o statali, nemmeno disoccupati o sfaccendati. Sono persone di valore, che contano, mica signor nessuno. Ed hanno ragione… E il suo amico fraterno Berlusconi ne dovrà mangiare di pane per raggiungerlo. Ah dimenticavo, quando è morto ( questo ci
dispiace come per chiunque ) aveva due condanne definitive: una per 5 anni e 5 mesi e un’altra per 4 anni e sei mesi. Aveva anche 3 condanne in appello per complessivi 15 anni circa e altri 3 rinvii a giudizio. Cosa aggiungere sullo statista più perseguitato in Italia ?… E va beh…