Per il presidente USA Barack Obama, WikiLeaks aveva compiuto “un’azione irresponsabile e pericolosa”. Per il Segretario di Stato Hilary Clinton, era stato “un attacco alla comunità internazionale”. Per l’allora vicepresidente degli USA Joe Biden – che il giorno prima aveva dichiarato “Non credo che abbia fatto alcun danno sostanziale” – Assange era solo“un terrorista high-tech”. Per il repubblicano Newt Gingrich, avrebbe dovuto “essere trattato come un combattente nemico”. Per Bob Beckel, commentatore del canale televisivo Fox, bisognava “sparare in modo illegale a quel figlio di puttana”, come racconta Stefania Maurizi (Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks, Chiarelettere, 2021, pp. 108-109; il libro verrà presentato nell’ambito di Bookcity in un incontro a cura di Donneinquota, il 21 novembre, ore 15.30 Borsa Italiana; con l’autrice ci saranno Armando Spataro e Alessandro Gilioli).
Con la presidenza Trump, la musica non è cambiata. Per Mike Pompeo, capo della CIA, Assange è solo “un narcisista che non ha mai creato nulla che abbia un valore, vive del lavoro sporco di altri che lo rendono famoso. È un ciarlatano, un codardo che si nasconde dietro lo schermo di un computer” (p 272).
Nel 2010 il “New York Times”, che in collaborazione con altre testate di grande prestigio internazionale stava rilanciando con enorme successo i materiali forniti da WikiLeaks, descriveva Julian Assange come un personaggio ambiguo, che si muoveva per il mondo come un fuggitivo, si tingeva i capelli, dormiva sotto falso nome negli hotel, usava costosi telefoni criptati e rifuggiva le carte di credito pagando in contanti. Con il suo stile imperioso, proseguiva il ritratto, si stava alienando il supporto della sua stessa organizzazione. Era indagato per un caso di stupro e molestie in Svezia, ma soprattutto non si faceva scrupolo di mettere in pericolo vite umane, pubblicando documenti segreti senza preoccuparsi delle conseguenze (p. 98). Grazie a una sistematica opera di disinformazione, per i media internazionali Assange ormai è solo “un hacker eccentrico, un Peter Pan narcisista, (…) un paranoico e misterioso uomo al centro di un intrigo internazionale”.
Per Stefania Maurizi, la giornalista italiana che ha collaborato a lungo con Assange e WikiLeaks, rilanciando diversi scoop prima dalle pagine dell’“Espresso” e della “Repubblica” e ora da quelle del “Fatto Quotidiano”, Assange è al contrario “un giornalista intellettualmente dotato, capace di pensare in modo strategico, uno per cui il denaro non era il motore della sue azioni e, senza dubbio, coraggioso” (p. 155).
“Non credere a niente, finché non arriva la smentita ufficiale”
I nemici di Julian Assange contesterebbero la definizione di “giornalista”, anche se i 251.287 cablo della diplomazia americana “soffiati” da WikiLeaks nel 2011 hanno fatto vincere premi prestigiosi alle testate che li hanno vagliati e pubblicati: oltre al “New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”, “El País” e “Le Monde”.
Le autorità americane lo considerano solo una pericolosa spia, da neutralizzare a ogni costo. Per cercare di portarlo in tribunale, i presidenti Obama e Trump hanno riesumato (come contro le “gole profonde” Chelsea Manning e Edward Snowden) l’Espionage Act. Emanato nel 1917, in tempo di guerra, non tiene conto né dei motivi (etici e politici, e non per denaro) né dei destinatari della diffusione illegale di notizie. In questi casi, le informazioni “segrete” non sono state trasmesse a una potenza nemica ma ai cittadini americani, informati attraverso la stampa mainstream di azioni illegali: la sorveglianza di massa della popolazione da parte della National Security Agency (grazie a Snowden); e i crimini di guerra, raccontati dagli Afghan War Logs, ovvero i 76.910 documenti segreti diffusi nel luglio 2010 (p. 90); e dagli Iraq War Logs,ovvero i 391.832 documenti segreti diffusi nell’ottobre 2010 (p. 334).
Le fake news e la disinformazione non sono opera di WikiLeaks, ma dei governi. “Non credere a niente, finché non arriva la smentita ufficiale” è il paradossale consiglio di Gavin MacFayden, fondatore del Center for Investigative Journalism di Londra (pp. 114-115).
WikiLeaks ha fatto un’operazione semplice ma tecnologicamente ardua. Ha raccolto informazioni riservate, garantendo l’anonimato ai whistleblowers, per diffondere i materiali direttamente o, nei casi più delicati, affidandoli al filtro di prestigiose testate giornalistiche per vagliarne l’autenticità ed eliminare informazioni “sensibili” (per esempio che portassero all’identificazione di informatori), affinché poi venissero diffuse con la massima risonanza.
Istigazione al suicidio
Non sorprende che la “faccia” di WikiLeaks, l’australiano Julian Assange, sia da più di dieci anni oggetto di una persecuzione giudiziaria che gli è costata una lunghissima detenzione, prima nel precario asilo dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra (diversi anni nella stanzetta dove si era rifugiato nel 2012) e dall’11 marzo 2019 nel carcere britannico di Belmarsh.
All’inizio erano le accuse di stupro dalla Svezia. Quando sono svaporate in un nulla di fatto, è sopraggiunta la richiesta di estradizione dagli USA per cospirazione e spionaggio. Con queste imputazioni, Assange rischia 175 anni di reclusione in un carcere di massima sicurezza e forse la pena di morte. Finora le autorità britanniche non hanno concesso l’estradizione a causa della sua salute mentale, precaria dopo anni di isolamento, e del rischio di suicidio, ma lo tengono ugualmente in custodia. Il 26 ottobre 2021 si è aperto a Londra il processo d’appello sull’estradizione, nel disinteresse quasi totale dei media italiani (vedi qui).
Per il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite, Assange andrebbe rilasciato: è stato detenuto arbitrariamente da Svezia e Regno Unito, anche perché gli è “stata negata l’opportunità di fornire la sua versione dei fatti” e “di aver accesso a prove a sua discolpa” (p. 233). Ma le organizzazioni internazionali servono alle grandi potenze solo per intimidire le dittature del Terzo Mondo. Se diventano uno specchio delle loro nefandezze, vengono considerate irrilevanti. Ad accerchiare il “Peter Pan narcisista” e WikiLeaks ha contribuito anche Amazon, un’azienda privata che ha il diritto di espellere dal suo cloud, alla faccia del Primo Emendamento, i clienti sgraditi al governo, salvo poi aggiudicarsi lucrosi contratti con le sue agenzie. Per la Electronic Frontier Foundation, “Amazon aveva un’opportunità di difendere la libertà di espressione dei suoi clienti, e invece se n’è andata via con la coda fra le gambe” (p, 111). Anche PayPal e i signori del credito Visa, Mastercard, Bank of America e Western Union sono stati solerti nel bloccare le donazioni dei sostenitori a WikiLeaks (p. 112).
I whistleblowers, eroi contemporanei?
Al di là del destino processuale di Assange (le accuse che lo riguardano, compresi i sospetti di complicità con la Russia, sono ampiamente discusse nel saggio di Stefania Maurizi), la vicenda ha gravi risvolti politici. L’ipertrofia dei meccanismi di controllo dei dati e dei metadati da parte dei governi e di poche multinazionali sta creando una mostruosa asimmetria informativa, a danno dei cittadini e dei consumatori, nell’ottica del “capitalismo della sorveglianza” ben descritto da Shoshana Zuboff (vedi Oliviero Ponte di Pino, Sorvegliati di tutto il mondo, unitevi!).
Il principale segreto di Stato violato da Snowden e WikiLeaks è che i governi (a cominciare da quello americano) hanno spiato illegalmente i loro cittadini e hanno commesso gravi crimini, uccidendo centinaia di innocenti. Hanno dimostrato che agenzie e aziende ritenute moderne, potenti ed efficaci hanno protocolli di sicurezza inadeguati e ridicoli: questo sputtanamento è certamente uno dei motivi dell’accanimento contro Assange, Snowden e Manning. Ma il vero obiettivo, come sempre con la censura, è intimidire altri possibili whistleblowers, per proteggere i segreti di Stato e proseguire indisturbati i propri traffici.
Negli ultimi anni, travolti da propaganda, bolle e fake news, abbiamo avuto rari momenti di verità. Molti di essi sono merito delle gole profonde che hanno aperto uno squarcio sul lato oscuro del potere. Erano quasi tutti molto giovani: sono i bambini che hanno avuto il coraggio di puntare il dito – o meglio, le chiavette USB – per dire a mondo: “Il re è nudo”. Oltre ai file rilanciati da WikiLeaks e da Snowden (vedi Lorenzo Rossi, Snowden. Il rapporto di minoranza), si possono ricordare altri casi esemplari. Per esempio i conti bancari illegali della HSBC rivelati nel 2008 dall’ex dipendente Hervé Falciani, almeno 13.619 file per un totale di 67 gigabyte, pari al 75% dei conti aperti presso la HSBC Private Bank (Suisse) alla fine del 2006, che ha permesso di recuperare centinaia di milioni di euro di imposte evase. Oppure i Panama Papers, ovvero gli 11,5 milioni di documenti confidenziali su oltre 214.000 società offshore, raccolti dallo studio legale Mossack Fonseca, che a partire dal 2015 hanno fatto capire come leader politici, funzionari pubblici e cittadini benestanti (e i loro familiari) nascondano le loro ricchezze al controllo statale. Anche WikiLeaks era partito nel 2008 con le rivelazioni di Rudolf Elmer sulla filiale della banca svizzera Julius Baer alle Isole Cayman (pp. 38-39).
Più di recente, sono state le informazioni di ex dipendenti o collaboratori a far esplodere lo scandalo Cambridge Analytica (vedi la recensione al libro di Brittany Kaiser La dittatura dei dati. La talpa di Cambridge Analytica). In queste settimane, si discute delle rivelazioni di Frances Haugen, che ha lavorato per il Civic Integrity Team di Facebook. A partire dal dicembre 2020 ha consegnato a un giornalista del “Wall Street Journal” decine di migliaia di documenti interni dell’azienda ed è stata chiamata a testimoniare sia dal Congresso americano sia dal Parlamento britannico (vedi Antonello Guerrera, La pentita di Facebook: “Così il suo algoritmo alimenta odio e violenza, “la Repubblica”, 26 ottobre 2021).
La parabola di Facebook, a partire dal rapporto del suo fondatore Mark Zuckerberg con la politica, viene ricostruita da Sheera Frenkel e Cecilia Kang in Facebook: l’inchiesta finale (Einaudi, 2021): le recenti rivelazioni di Haugen danno ulteriore profondità all’analisi delle due giornaliste del “New York Times”.
Il fallimento della autoregolamentazione
Al di là degli scandali scatenati da queste “gole profonde”, il nodo è il controllo democratico di enti sia privati sia governativi che hanno accumulato e continuano ad accumulare un potere gigantesco al di fuori di ogni regola. Il controllo dei cittadini attraverso i big data, la rete e i social network, la manipolazione dell’informazione, la disuguaglianza crescente, la corruzione dei governi, sono tra i principali ingredienti della “postdemocrazia” di cui parla da tempo Colin Crouch (vedi il recente Combattere la postdemocrazia, Laterza, 2020). Gli attentati dell’11 settembre 2001 e la pandemia del 2020-2021 hanno creato il clima ideale per mettere in atto pratiche biopolitiche di controllo sempre più invasive e invisibili, invocando la “sicurezza” e la “tutela della salute”.
I rischi di questa erosione della privacy sono evidenti, denunciati da anni nel disinteresse quasi generale. In un’epoca in cui si teorizza e si pratica allegramente la deregulation, è stata tentata la strada dell’autoregolamentazione, ma non ha funzionato. Il filosofo Luciano Floridi, dopo aver fatto parte dell’Advisory Council e dell’Advanced Technology External Advisory Council di Google e dello High Level Expert Group on Artificial Intelligence istituito dalla Comunità Europea, non ha potuto far altro che arrendersi sconsolato: “L’invito ad autoregolamentarsi, rivolto dalla società all’industria digitale, è stato ampiamente ignorato. È stata un’opportunità storica enorme, ma mancata, molto costosa socialmente ed economicamente, basti pensare alle conseguenze della disinformazione online” (Luciano Floridi, Big Tech. La grande occasione mancata dell’autoregolamentazione, in “Corriere Innovazione”, 29 ottobre 2010).
Se a questo si aggiunge il rapporto strettissimo di queste aziende con i politici e con l’apparato militar-industriale, a cominciare da agenzie come NSA e CIA, e dunque con le zone d’ombra del segreto di Stato, si capisce perché Julian Assange dia tanto fastidio e vada distrutto, a qualunque costo.
Post scriptum: il ruolo dell’Italia
Dai cablo della diplomazia americana diffusi da WikiLeaks, si deduce che la nostra è “una democrazia dal guinzaglio molto corto, dove i politici subivano grandi pressioni. (…) Gli Stati Uniti intervenivano massicciamente sulle faccende italiane” (p. 119). I War Logs avrebbero dovuto suscitare qualche dibattito, visto il coinvolgimento dei “nostri ragazzi” nelle missioni in Iraq e Afghanistan, ma “il silenzio della politica e l’incapacità o la mancanza di volontà dei media italiani a fare squadra, contribuendo a esercitare pressione sulle istituzioni, furono patetici” (p. 78). Con un paese come il nostro, che vira verso il postdemocratico, la CIA può stare tranquilla.