Stupore è una parola filosofica per eccellenza. Si ripete sempre che agli inizi della filosofia ci sia lo stupore, la meraviglia. Lo affermano sia Platone sia Aristotele, ed è da loro che lo abbiamo imparato. Il meravigliarsi, l’improvvisa sorpresa, il repentino non più comprendere il proprio essere e quello del mondo stimolano a porsi domande che sfociano nella ricerca di risposte. Questo sentimento o stato d’animo era detto dai greci thaumàzein, dove in quel thàuma stavano sia la gioia della novità sia l’angoscia dell’ignoto.
Secondo un tardo illuminista tedesco seguace di Leibniz, Ernst Platner, autore di due volumi di Aforismi filosofici, lo stupore è un «forte e veloce scuotimento dell’attenzione verso un oggetto nuovo e inatteso, del quale l’anima dapprima non sa se è buono o cattivo, cioè di cui non conosce il comportamento con se stessa nel primo momento del suo apparire». La definizione è poco nota ma molto profonda perché mette in luce, nella prima parte, lo stretto legame dello stupore con l’attenzione. L’attenzione c’è, è lì presente, sembra uno stato preesistente, necessario e sufficiente, sul quale cade l’oggetto «nuovo e inatteso» che la muove energicamente, la scuote e la sollecita generando stupore, meraviglia. Si occuparono di stupore – s’è detto – Platone e Aristotele; il primo quando dichiara, nel dialogo Teeteto (155d), che «è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia: né altro inizio ha il filosofare che questo»; il secondo allorché afferma, nella Metafisica (I, 2, 982b12) che «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia». Importante è anche la ripresa del tema in epoche più recenti da parte di due filosofi tedeschi: Immanuel Kant, quando menziona le due cose che maggiormente suscitano nell’uomo stupore e meraviglia: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me; e Martin Heidegger, che ne tratta in Che cos’è la filosofia, elaborando proprio il motivo platonico-aristotelico dello stupore come principio della filosofia.
Lo stupore è lo stato di chi rimane «attonito» (dal lat. ad-tonare, tuonare), come stordito dal tuono; è la condizione di chi di fronte ad un evento sorprendente resta fermo e immobile, come testimonia il radicale st che ha sempre il senso di stare, essere fermo e saldo, nelle sue molteplici varianti linguistiche che vanno dalla stalla allo stato alle istituzioni e ben oltre. Si sta fermi e immobili, stupiti e attoniti in virtù della sorpresa che ci coglie e ci afferra e ci colpisce, da sor-prendere (lat. super-prehendere), prendere sopra, assalire. La sorpresa per il nuovo e inatteso cattura dall’alto la nostra attenzione in maniera imprevedibile, rendendo inutili previsioni e prevenzioni; la sorpresa infrange l’esperienza, la sorpresa devia dalle nostre aspettative e dal corso normale delle cose, è data dall’imprevisto e dal sensazionale, ovvero dalla sensatio, ciò che coinvolge tutti i sensi, ma anche l’intelletto, se sensatus, sensato, è ciò che è ragionevole in quanto dotato di senso. Se qualcosa ci sorprende poi, è sì perché questo qualcosa è inatteso e nuovo, è diverso dall’aspettativa, non è riconducibile al noto e abituale, non è familiare, ma soprattutto perché emana una forza insolita che ci «prende sopra» col suo messaggio, con quello che ha da dirci. Attenti dunque a predisporre l’attenzione a «cogliere l’attimo» della sorpresa che stupisce e a farsene scuotere, se si vuol cercare di iniziare un processo creativo.
Importante, in ambito filosofico come in altri contesti, è poi mantenere la condizione di stupore, di sorpresa e di meraviglia: questo è il senso dello stupore come principio della filosofia, interpreta Heidegger, e il principio è ciò da cui qualcosa deriva. Ma non nel senso che quel che viene prima dà luogo ad altro e poi se ne va. Non è che una volta spentasi la meraviglia, la filosofia va avanti e lo stupore diventa superfluo.
Lo stupore è, come l’acqua per Talete, principio, in quanto inizio e caratteristica permanente. Importante è allora «tenere in vita lo stupore in quanto tale, non trasformarlo con dimostrazioni e spiegazioni in qualcosa di noto e conosciuto». Anche se lo stupore è suscitato dal non-sapere, non lo si butti via quando la ricerca delle cause e delle ragioni dei fenomeni abbia condotto allo stato di sapere. Si mantenga, nonostante l’affermarsi di scienza e conoscenza, lo stupore per il quotidiano e il casuale, il finito, il non ragionevole e il contraddittorio, l’insignificante e l’insignificato. Si rimanga aperti all’altro e diverso e nuovo, con quella disposizione che Heidegger chiama mirabilmente Gelassenheit (rilassatezza), e Adorno il «lungo e innocente sguardo sull’oggetto», intendendo con ciò l’inclinazione a presentarsi attenti, aperti e rilassati davanti agli incontri con cose, eventi, persone. Attenti ma non tesi, questo è importante, attenti, svegli, ma insieme tranquilli e innocenti, pronti a stupirsi come pure disponibili ad accettare che ciò che è non è soltanto e non è in primo luogo ragionevole, razionale, esprimibile in concetti. Decisivo è mantenere la disposizione «rilassata», gelassen, stupirsi davanti alle cose, agli eventi e alle persone, lasciare che scuotano la nostra attenzione, e far agire la creatività confrontandoci su ciò che essi hanno da dire.
Ma non c’è soltanto lo stupore all’origine della filosofia, c’è anche l’acqua. Fu Talete, il primo filosofo, ad asserire a proposito dell’acqua, in quello che è considerato il primo vagito della filosofia: «L’acqua è il principio di tutte le cose». Il fatto che all’inizio della filosofia ci sia l’acqua non va interpretato, o non va interpretato soltanto, in quanto dato empirico e materiale; piuttosto come espressione simbolico-metaforica il cui senso filosofico va ancora al di là del simbolo e del suo significato. Tale espressione propone un aspetto dominante per il divenire cioè l’immagine del fiume, metafora eminente del tempo e della vita, che ha influenzato per secoli il pensiero filosofico. L’origine del fiume, la fonte, è anche origine del divenire; per Talete, principio di tutte le cose e principio del filosofare e di tutta la filosofia. Non sappiamo come Talete abbia immaginato l’essere di quest’acqua originaria. È molto probabile comunque che egli non pensasse a una materia da cui tutto ha origine, quanto che cercasse di capire il modo dell’originarsi e del permanere. Proprio dell’acqua è il moto che è immediato divenire; è il salto che mette in moto la differenza e che ci fa domandare se senza il postulato dell’acqua di Talete la filosofia avrebbe mai avuto inizio.
Dove Talete diceva arché noi diciamo fonte, meglio origine, usando un termine di derivazione latina che, nella forma aggettivale, ha diversi significati. Originale si dice 1. di ciò che è vicino nel tempo all’origine (originario più precisamente); 2. di persona stravagante, fuori dall’ordinario. Ma originale designa anche 3. ciò che non è copia, imitazione o riproduzione, giacché ciò che ha a che fare con l’origine avanza diritto di autenticità. Alla fonte, dove l’acqua è chiara e limpida, l’informazione è ancora autentica, non falsificata, vera. Come se la fonte, l’origine, possedesse un grado di chiarezza e purezza e trasparenza che si perde nello scorrere successivo. Lo si vede nell’uso dell’argomento etimologico in filosofia, che molti autori adottano per cercare di cogliere la purezza del concetto nel significato dell’origine, come se nella fonte dell’origine si celasse la verità. Torno a richiamare il duplice significato di «principio», principium, arché: arché in quanto inizio, origine, fonte, e arché in quanto elemento costitutivo, ciò che rende conto di una cosa, ciò che ne contiene e ne fa comprendere le proprietà essenziali e caratteristiche. Quindi non un principio che sta lì all’inizio, causa qualcosa e poi se ne va. Ma un principio che segue ogni passo di ciò di cui era all’origine, che è legato al tempo e sta nel tempo, e anche nello spazio, in un certo senso. Principio comune all’acqua e allo stupore.
Lo stupore originario, il thauma non è sempre e soltanto un momento di grazia, un sentimento positivo: possiede una dimensione di orrore e di angoscia che prova chi si trova a contatto con una realtà ignota, sconosciuta, diversa, così altra da provocare turbamento e angoscia. È un sentimento che caratterizza il migrante quando giunge in posti in cui la lingua è ignota, ignoto e pauroso e freddo l’ambiente, ostili sono gli sguardi. Vedo lo stupore angoscioso nei volti dei migranti, insieme allo stupore felice in questo esodo che coinvolge centinaia di migliaia di persone che soffrono di disorientamento, stupite e oppresse dal thauma, e che scorrono sull’acqua e sulla terra come acqua, come fiumi, come ruscelli, altro che radici che li tengono fermi e inchiodati alla propria origine. L’immagine dell’acqua e del suo principium/arché di stupore e meraviglia non renda prigionieri dell’origine ma liberi un flusso di trasformazioni, dando l’idea di una tradizione in perenne mutamento e divenire.