Le ultime notizie su Ken Russell risalgono al 2002, quando l’irriducibile vecchio discolo diresse una rivisitazione in digital video della “Caduta di casa Usher” di E.A. Poe ambientata nell’Orange County, dove addirittura recitava la parte dello scienziato pazzo, con un accento tedesco che fece pensare i costernati recensori americani a Benny Hill. I suoi film non avevano più successo ma a lavorare si divertiva ancora, e accettava quello che gli capitava.
“Oltre la mente” (1995), finanziato, ma parsimoniosamente, dagli israeliani per rinfocolare il mito del mago Uri Geller, era stato accolto con imbarazzo, e con educato disinteresse, prima ancora, “Prigionieri dell’onore” (1991) sul caso Dreyfus, con l’ultima apparizione di Oliver Reed, antico e glorioso complice storico del Russell dei tempi belli.
Prima ancora (1990) il regista aveva firmato “Whore” con un’altra Russell, Theresa, in non nascosta polemica con la fiaba della passeggiatrice-Biancaneve che aveva appena trionfato con “Pretty Woman”. Qui però il tentativo di essere, per una volta, secco e arido era risultato, appunto, troppo secco e troppo arido per risultare spettacolare.
Questi film però segnano la decadenza di colui che era stato un innovatore e un maestro. E questo per tre lustri filati, ossia dai primissimi Anni 60 fino alla seconda metà degli Anni 70, anche se la sua vera fama internazionale cominciò solo nel 1969.
Ken Russell, che era nato nel 1927, aveva avuto molte e varie esperienze – pilota della Raf, coreografo, ballerino e fotografo prima di approdare alla regia televisiva, dove il suo talento originalissimo esplose con una serie di monografie in bianco e nero di scrittori, pittori, danzatori e soprattutto musicisti, a mezza strada tra il documentario, la ricostruzione romanzata e la reinterpretazione critica.
Tra i capolavori di questa collana, eterogenea ma tutta superbamente recitata ed estrosamente ambientata con soluzioni personali e inventive, furono i ritratti di E. Elgar (1962), Debussy (1965), del Doganiere Rousseau (1965), di Isadora Duncan (1966), di D.G.Rossetti (1967), del compositore F. Delius (1968); altri protagonisti furono Prokoviev, Bartók, R. Strauss.
Motivo comune della maggior parte, l’amore e la competenza del nostro per la musica, e il suo metodo di spiegarla legandola alla personalità del compositore e dello spirito dell’epoca di costui. In questi lavori Ken Russell, artisticamente figlio ma poi anche almeno in parte padre dei liberati anni sessanta, elaborò il suo caratteristico approccio aggressivo, trasgressivo e visivamente eccessivo – barocco è l’aggettivo che in seguito gli sarebbe stato applicato più spesso. Sul grande schermo naturalmente avrebbe dovuto cercare argomenti meno legati all’alta cultura, e ligiamente debuttò con un paio di film di intrattenimento, tuttavia non banali (“Pepe francese”, 1964, e “Il cervello da un milione di dollari”, 1967); ma appena poté permetterselo tornò alle sue letture predilette sui movimenti artistici modernisti, e si impose all’attenzione generale con “Donne in amore” (1969), in cui al consueto Oliver Reed, già protagonista di molti dei suoi film televisivi, affiancò l’intrigante talento di una inedita Glenda Jackson.
L’adattamento del romanzo di D.H. Lawrence scandalizzò più per l’audacia di certi sottintesi (la lotta dei due amici nudi davanti al fuoco acceso) che per una scabrosità dichiarata; ma Ken Russell non aveva certo paura di risultare esplicito, e nell'”Altra faccia dell’amore” (1970) rincarò la dose affrontando il tema dell’omosessualità di Ciaikovsky, parte provocatoriamente affidata al bellone Richard Chamberlain, allora idolo delle massaie come Dottor Kildare.
Ancora più deliberatamente poi sfidò le convenzioni con la violenza e quasi il sadismo, ma ancora più con la polemica antiecclesiastica de “I diavoli” (1971), sul celebre e storico caso delle monache indemoniate di Loudun; oggi sugli schermi passa ben altro, ma allora le censure di mezzo mondo si preoccuparono assai.
Erano gli anni d’oro del regista, che subito dopo con “Il boyfriend” (1972) offrì un incantevole, delicato omaggio ai musical sciocchini degli Anni Venti, con Twiggy e il ballerino Christopher Gable; con “Messia selvaggio” (1972), sulla breve intensa carriera dello scultore Gaudier-Brzeska, rievocò l’atmosfera delle avanguardie artistiche del primo novecento; e dopo un mezzo passo falso, questa volta su Gustav Mahler (“La perdizione”, 1974), diede quello che per alcuni rimane il suo risultato più caratteristico e convincente, lo scatenato, vertiginoso, a tratti persino delirante “Tommy” (1975), dall’opera rock degli Who.
Fu forse con questo film che il regista – autore esaurì la vena delle sue invenzioni, o forse è a partire da questa data che il pubblico cessò di sorprendersi o di indignarsi davanti alle sue provocazioni. “Lizstomania” (1975), sul famoso pianista e compositore, apparve infatti sconnesso e capriccioso ai limiti del grottesco (il giovane Wagner che addenta Lizst alla gola e gli succhia il sangue a mo’ di vampiro); “Valentino” con Nureyev, un ballerino classico per un tanguero, tentò di mascherare con l’eleganza del décor una fondamentale assenza di motivazione.
In seguito, negli Anni Ottanta, delusero ancora di più, nell’ostentata ricerca di stravaganza, “Gothic” (1986) su Byron, Shelley e il mito di Frankenstein, e “L’ultima Salomé” (1988), col testo di Oscar Wilde recitato in un bordello maschile di Parigi alla presenza dell’autore. In quegli anni vari teatri d’opera commissionarono a Russell regie provocatorie, come allora si usava (e si usa ancora), e il regista obbedì, ma senza lasciare veramente un segno. Il meglio lo aveva dato prima, in quel quindicennio che basta comunque a assegnargli un posto di prima fila tra i cineasti della sua generazione. (ANSA)