Uno degli edifici più iconici di Mumbai è la stazione ferroviaria centrale. Crocevia quotidiano di un numero impressionante di persone, crocevia di un numero imprecisato di stili architettonici, pastiche di neo-gotico, indo-veneziano e moresco, trionfo rigogliosamente flamboyant di cupole e guglie, la stazione è stata progettata da Frederick Williams Stevens, architetto inglese in vena di assimilazione stilistica, ed è il risultato estremo di quello stile ibridamente revivalista che è uno dei caratteri architettonici più diffusi della Bombay della seconda metà dell’Ottocento.
La stazione è nota ai più ancora con l’acronimo VT (Victoria Terminus, ovvio retaggio della dominazione inglese), ma il suo nome ufficiale è un altro. Nel 1998 il governo locale l’ha ribattezzata Chhatrapati Shivaji Terminus, mentre l’aeroporto è stato chiamato Chhatrapati Shivaji International Airport, e al museo noto come Prince of Wales è toccato in sorte un altro scioglilingua estremo: Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya.
Sotto il governo locale di Bal Thackeray, questi e altri luoghi dai nomi ancora coloniali, sono stati dedicati a Shivaji Bhonsle (1627-1680), il fondatore del regno medioevale del Maharashtra, lo stato di cui Mumbai è capitale. Negli stessi anni Bombay prese, appunto, il nome marathi di Mumbai.
Thackeray — controversa e carismatica figura di leader politico, agitatore di menti e di folle, dichiarato ammiratore di Adolph Hitler, giovane vignettista e poi fondatore del partito Shiv Sena (1966), difensore della maggioranza induista della regione e molto meno della minoranza mussulmana, separatista del Maharashtra dal governo centrale, agitatore di menti e di mani negli atroci massacri di Mumbai contro i mussulmani nel 1992-93 —, questo populista dalle idee fin troppo chiare vedeva in Shivaji il self-made man, l’uomo del popolo e il protettore delle caste inferiori, l’eroe che ha combattuto contro gli invasori (Portoghesi) e gli infedeli (mussulmani) per la formazione di uno stato induista.
Personalità sicuramente eccezionale anche secondo la storiografia Moghul (il regno mussulmano diffuso in India tra il 1527 e il 1707), portoghese e britannica, la storia di Shivaji è stata letta come parabola esemlare da parte da parte di Thackeray e dai seguaci di Shiv Sena (traduci come: “l’esercito di Shivaji). La santificazione del re marharastriano è un derivato locale dell’ideologia nazionalista che è stata definita “Hindutva” (letteralmente: “la qualità dell’Induismo”) in un libro pubblicato da Vinayak Demodar Savarkar nel 1923, per essere adottata dalla fine degli anni ’80 come pensiero dominante del BJP, il partito attualmente al governo del paese.
Il libro Who was Shvaji?, scritto dal politico comunista Govind Pansare e pubblicato tra il 1988 e il 2010 in diverse edizioni e in diverse lingue regionali, ha provato a fare un po’ di ordine in questa vicenda storica ma dalle ripercussioni ancora attualissime. Definita nell’introduzione come una “decostruzione marxista della narrativa dominante di Shivaji, alla quale la maggioranza degli indiani si sono abituati fin dall’Ottocento”, questo libro smilzo, scritto in modo estremamente accessibile, celebra Shivaji come re “moderno” e dai forti principi morali: come colui che ha sostenuto ed è stato a sua volta sostenuto dalle caste più basse, che ha cambiato la lingua dell’amministrazione dal persiano al marathi, incoraggiato la mobilità sociale, protetto il ruolo della donna e vietato la schiavitù. Pansare sostiene che la vulgata che descrive Shivaji come oppositore dei mussulmani, protettore delle vacche e dei Bramini, insomma re di un regno strettamente induista, non corrisponda alla realtà storica. Molte testimonianze dicono dei suoi rapporti complessi con la casta sacerdotale (i Bramini, appunto), e del suo atteggiamento tollerante verso i mussulmani, molti dei quali ricoprirono ruoli chiave nel suo esercito e nella sua amministrazione. Pansare ritrae, semmai, un re guidato da un atteggiamento secolare, per il quale l’interesse più alto era il regno piuttosto che la religione.
Se il libro di Pansare è dedicato a un affare prettamente regionale (il mito di Shivaji non soprassa i confini di questo stato), d’altra parte ha un valore simbolico più ampio, come uno strumento critico contro le forzature storiche e le distorsioni leggendarie.
Il 16 febbraio del 2015 Govind Pensare è stato raggiunto da alcuni colpi di pistola sparati da due uomini in motocicletta, mentre stava tornando a casa insieme alla moglie. Sopravvissuta quest’ultima, Pansare è morto qualche giorno dopo all’ospedale di Breach Candy, Mumbai, non lontano dalla zona in cui abito e da dove ora sto scrivendo.
La morte di Pansare non è stata la prima ma neanche l’ultima di una serie di uccisioni di intellettuali e scrittori, critici delle superstizioni religiose e delle distorsioni storiche che caratterizzavano il governo locale di Thackeray, quello nazionale del BJP tra il 1999 e il 2004[1] e il clima attuale del paese. Gli assassini degli intellettuali e attivisti Narendra Dabholkar (agosto 2013) e M.M. Kalburgi (agosto 2015) — condotti con modalità e strumenti pressoché identici a quelli di Pansare —, il linciaggio a morte di un uomo di religione mussulmana, accusato di aver mangiato carne di mucca nella periferia di Delhi, la generale intolleranza verso forme di dissenso o critica del pensiero rigorosamente induista, hanno riacceso le polemiche sul settarismo che si sta diffondendo nell’India di oggi. Di queste uccisioni sono stati accusati attivisti di Sanatan Sanstha, un’organizzazione fondata nel 1990 dall’ipno-terapista Jayant Balaji Athavale con lo scopo di presentare la spiritualità in modi scientifici. Non è la prima volta che l’organizzazione, di cui era stata chiesta la soppressione, è sotto accusa per atti di violenza. Nonostante un arresto di uno dei suoi affiliati, al momento in cui scrivo, le indagini su questi casi recenti non hanno ancora portato a risultati concreti.
Un numero crescente di scrittori indiani ha giudicato la risposta del governo a questi episodi troppo debole e certamente insufficiente (un esponente del BJP ha definito il linciaggio come un “piccolo incidente”), ma ha criticato anche la mancanza di una chiara presa di posizione da parte della Sahitya Akademi. La più importante autorità letteraria del paese, l’Accademia è sempre stata considerata un esempio di pluralismo, dal momento che considera e premia opere scritte in tutte e ventitré le lingue indiane riconosciute ufficialmente. A partire dai primi di settembre fino a fine novembre una quarantina di scrittori, alcuni tra i più celebrati della nazione come Udai Prakash, Nayantara Sahgal e Ashok Vajpeyi, hanno restituito l’onorificenza e il premio in denaro che avevano ricevuto dalla Sahitya Akademi. In una lettera pubblicata dal quotidiano “The Hindu” il 10 ottobre 2015, Vajpeyi stesso ha spiegato le motivazioni di una protesta cui si sono aggiunti registi e scrittori di cinema, tra cui Arudhati Roy: “Tutti gli spazi per il pensiero e i valori liberali, tutte le posizioni di dissenso e dialogo, tutti i tentativi di buonsenso e fiducia reciproca sono quotidianamente minacciati. Tutte le forme e i tipi di violenza, siano religiose che pubbliche […] sono in crescita. […] I diritti democratici di espressione, fede, privacy, ecc., sono guardati dall’alto in basso e limitati o interrotti, senza alcuna provocazione o colpa.”
Difficile per me, recente abitante del subincontinente, dire molto di più di un argomento così complesso e che affonda nella storia indiana e nel dibattito sul secolarismo che ha attraversato questo paese, almeno a partire dalla sua indipendenza (1947). Più facile sarebbe affidarsi al noto economista e saggista indiano Amartya Sen, ai testi che, già tra la fine degli anni novanta e i primi duemila, ha dedicato ai temi della laicità, dell’identità religiosa indiana, e alle distorsioni storiche operate dal BJP nel loro precedente governo.[2]
Oppure, più modestamente, si potrebbe ricorrere a un paio di semplici parabole personali. Nel preparare il visto (turistico) per arrivare qui a novembre, ho ceduto alla vanità di scrivere “writer” nella casella dedicata al mestiere (curatore o critico d’arte non erano contemplati). Errore. L’addetta alla mia domanda ha iniziato a chiedermi che cosa scrivessi. Se ero uno scrittore, mi diceva, potevo essere anche un giornalista. A poco è valso dirle, non senza fastidio, che sono un “art writer”, mostrarle la tessera della rivista Frieze, chiedere di digitare il mio nome su google e aprire il mio sito web. In ogni caso, se sono qui, le “ulteriori verifiche” che aveva promesso devono aver dato esito negativo.
La seconda esperienza è di ordine linguistico: semplicemente la sorpresa di leggere la definizione di “razionalista” applicata ai tre intellettuali uccisi, sia sulla loro pagina Wikipedia che su altri testi online. Certo, Dabholkar aveva combattuto per l’approvazione di una legge contro la superstizione e la magia nera in Maharashtra, mentre Kalburgi si era pronunciato contro il carattere idolatrico dell’induismo. Razionalista era stato definito anche Pansare per la sua decostruzione del mito di Shivaji. Tutti e tre avevano criticato lo spazio che le credenze, le superstizioni religiose e le distorsioni storiche, hanno conquistato in questi ultimi anni e sostenuto le ragioni dell’ateismo e del pluralismo. Nonostante questo c’è qualcosa di oggettivamente drammatico nel fatto che la definizione di “razionalista” possa essere usata come caratteristica e categoria, come discrimine per differenziarsi da una maggioranza di altri individui che dovrebbero essere, invece, “irrazionali”.
Però, a pensarci bene, hanno ragione gli indiani. In un mondo di tensioni estreme, dove il buon vecchio potere della ragione viene costantemente eroso da integralismi religiosi e opposte semplificazioni, forse dovremmo iniziare, anche nel nostro illuminato Occidente, a identificare i “razionalisti” come specie protetta.
PS. Hanno ragione loro due volte. Alla fine mi sono trovato a scrivere da giornalista…