Capita, a volte, che un regista giovane e di talento, conosciuto e apprezzato nel mondo dei festival, sia in realtà quasi completamente tagliato fuori dalla distribuzione italiana e quindi in buona parte ignorato dal pubblico non specializzato o cinefilo. È il caso di Sebastián Silva, regista cileno con sei film alle spalle (uno solo dei quali, La nana, uscito in Italia, con il titolo Affetti e dispetti) e autore di un cinema originale e inafferrabile. Ne parliamo questa settimana su Odeon, inaugurando una serie si ritratti di figure importanti del cinema contemporaneo che meritano attenzione e analisi.
Rielaborare generi cinematografici è una pratica diffusa. Quasi sempre significa scimmiottare un certo genere, farne la parodia o ricontestualizzarlo in un’epoca storica aliena alla sua tradizionale messinscena. Molto più raro è vedere due generi combinati tra loro, con motivazioni che non si limitano all’esercizio di stile ma intervengono anche sulla materia narrativa. È difficile che il risultato sia convincente e organico. Ancora più difficile è combinare due generi diametralmente opposti — la tragedia e la commedia — in un prodotto unico e equilibrato, rispettando il canone di ciascuno mentre si stravolgono le aspettative dello spettatore.
Questo è il tipo di strada che ha intrapreso Sebastián Silva fin dall’inizio della sua carriera, una carriera che probabilmente si fa comprendere meglio attraverso la ricerca formale piuttosto che le ricorrenze tematiche (che pure ci sono). Occasione importante per conoscere il suo lavoro è stata l’ultima edizione del Torino Film Festival, dove il regista ha presentato al pubblico italiano il suo ultimo film, Nasty Baby (2015). Già passato da Sundance e Berlino, dove ha vinto il Teddy Award, Nasty Baby porta a compimento il progetto autoriale cominciato con i primi lavori e affina alla perfezione l’abilità di impiegare due generi opposti a strettissimo contatto narrativo.
Il cinema di Silva è un cinema che dà molta soddisfazione: i suoi film sono pieni, rotondi ma non superficiali, ricchi di aspetti secondari proposti con grande sensibilità anche quando solo abbozzati. Originario del Cile e con all’attivo già sei film scritti e diretti in meno di dieci anni, Silva (1979) è probabilmente conosciuto per Crystal Fairy and the magical cactus, un film che per anni ho evitato, immaginandolo come l’ennesimo prodotto “indipendente” fabbricato per pubblici “di nicchia” sotto la neve del Sundance. E invece è un’utile introduzione al suo lavoro, fin dagli esordi interessato a coinvolgere elementi autobiografici e attori di fiducia. La sua filmografia si è gradualmente spostata da realizzazioni cilene a coproduzioni statunitensi, coinvolgendo celebrità internazionali. Ciononostante, il legame di Silva con il proprio paese è rimasto presente. Non solo i suoi film sono spesso bilingui, ma più volte hanno goduto della collaborazione con importanti figure nazionali, come il giornalista e sceneggiatore Pedro Peirano, e soprattutto Pedro Larraìn. Larraìn collabora come produttore dal 2013, con Crystal Fairy, il primo film “americano” di Silva. Questa simil-commedia segue tre fratelli (i tre veri fratelli Silva, Sebastián escluso) e un expat americano lungo un viaggio nel Cile rurale; obbiettivo è trovare un particolare cactus allucinogeno e consumarlo in riva al mare. L’expat è un odioso Michael Cera, ottimo nella parte dello straniero eccitatissimo dall’esotico ma anche viziato, petulante. Durante il road-trip, l’elemento di rottura è fornito da Gabi Hoffman, un’hippie materna ma schizzata, allergica al rasoio e alle “cattive vibrazioni”. Per due terzi del film — dallo script serratissimo, dialogato quasi senza interruzioni — l’unica tensione è quella crescente tra i due americani, agli antipodi per carattere e visione della vita. Quando finalmente il gruppo consuma il cactus cercato così smaniosamente, avviene sì una catarsi ma anche un improvviso eccesso di dramma. È un episodio tragico che scioglie la tensione (che pensavamo già risolta) e sebbene venga annunciato ai più sensibili da certe anticipazioni tonali, è un evento che interrompe bruscamente il flusso narrativo e sorprende le nostre attese di trama e atmosfera.
L’unione di catarsi e dramma rivelatore, spesso condensati un’unica sequenza, è lo strumento diegetico e cinematografico preferito da Silva. Allo stesso tempo però, il regista è un professionista curioso, e con molta esperienza umana. E infatti mescola abilmente questa strategia con un genuino amore per le tecniche narrative, piccole ossessioni autobiografiche e idiosincrasie psicologiche da smascherare nei personaggi. Proprio in La Nana (2009, uscito in Italia come Affetti e dispetti ) questo meccanismo è concretizzato in modo già estremamente maturo. Protagonista è la governante Raquel (Catalina Saavedra, un’attrice sopraffina, che Silva usa sempre in coppia con Claudia Seledòn), particolarmente malmostosa e un po’ squilibrata, al ventesimo anno di servizio in una benestante famiglia cilena. Quando la gigantesca casa (dove Silva è cresciuto: la vicenda è ispirata a fatti reali) diventa troppo impegnativa per lei sola, vengono assunte una serie di domestiche che però Raquel vede come minaccia e, molto energicamente, cerca di annientare. La Nana è per lo più uno studio psicologico nella forma di una commedia. Eppure anche qui non sono assenti momenti estremamente cupi e, di nuovo, è all’apice del dramma — quando capiamo che Raquel è disturbata — che avviene la catarsi. Lo scioglimento emotivo di Raquel sembra portare conseguenze prima devastanti, poi solo temporanee. Forse perché il dominante clima comico mitiga gli eccessi melodrammatici. Alla fine vediamo che Raquel ha tratto giovamento dalla tragedia. Soprattutto, si è riappropriata del suo spirito consueto, quello ironico e disimpegnato proprio anche alla commedia.
Una tensione simile fornisce il terreno formale del lavoro successivo di Silva, Gatos Viejos (2010), un capolavoro che nelle prime scene ricorda Amour di Haneke (per chi l’ha visto: lo scorrere dell’acqua come annuncio della malattia). I gatti vecchi del titolo sono sia due felini meravigliosi, obesi, ma anche i loro padroni, una coppia di anziani signori. Ecco Belgica Castro e Alejandro Sieveking, già impiegati da Silva nel film d’esordio (La vida me mata, 2007). I due sono noti attori di teatro (e soap opera) e sono sposati anche nella realtà. Il set di Gatos Viejos è proprio il loro meraviglioso appartamento di Santiago. Sono entrambi attori superbi, ma è a Castro, qui protagonista, che viene data maggiore possibilità espressiva. La sua è un’interpretazione sopraffina, comica quanto drammatica, realistica e allo stesso tempo capace di incarnare reazioni inaspettate. Giocato su parti contrapposte come in La Nana, Gatos Viejos apre su Castro che si prepara per fare alcune commissioni ma rimane bloccata a casa per l’ascensore guasto. Il preludio alla tragedia —Gatos Viejos è un film propriamente drammatico — è il borbottare scorbutico di una coppia ancora innamorata ma che la sa troppo lunga per perdersi in moine sentimentali. Quando la demenza di Castro si fa lampante, i due sono consapevoli e spaventati, ma pratici e veloci a riprendere le loro occupazioni abituali. Il vero dramma del film non è la vecchiaia di Castro, quanto la malvagità della figlia, una cocainomane che irrompe nella tranquillità domestica con il malcelato intento di sottrarre l’immobile alla madre.
Gatos Viejos abbozza ulteriori aspetti della regia di Silva, come particolari trucchi di montaggio nella manipolazione della percezione, soprattutto se si tratta di rappresentare personaggi psicologicamente fragili. Infatti il suo interesse per il “disturbo” umano vede ulteriore sviluppo in Magic Magic (2013), la sua seconda coproduzione americana. In un’intervista (http://www.indiewire.com/article/sebastian-silva-on-why-toronto-rejected-nasty-baby-and-how-quirk-is-bad-20150218) Silva ha raccontato gli orrori della post-produzione affidata ad una major come Sony, che ha distribuito il film direttamente in home video, con trailer fuorvianti, poster genere “sexy horror anni ’90” e inserendo scene di repertorio. Purtroppo lo zampino di Sony si vede, perché sebbene si intuisca il nucleo valido e originale, il film è irritante oltre il voluto, con personaggi piatti e interpretazioni ripetitive (e non con Juno Temple ai livelli di Catherine Deneuve in Repulsion, come è stato detto). Qui la catarsi è letteralmente un rito di purificazione indigena, ma non ha sviluppi o pregressi interessanti come negli altri Silva.
Un elemento interessante c’è però in Magic magic, e cioè le tempistiche di sviluppo narrativo. Il film racconta l’esaurimento nervoso di Juno Temple e le reazioni dei compagni di vacanza in una remota località cilena. Qui il processo di disgregazione psicologica e sociale è graduale come in ogni horror-thriller psicologico che si rispetti. Anche se magari contemplata alla lontana — sia da noi spettatori che dai personaggi — la conclusione è drastica e completamente inaspettata. In termine di sperimentazioni narrative e [SPOILER!] elaborazione sul tema della morte, Magic magic costituisce il collegamento tra i film di ambientazione cilena e la prima produzione americana anche “in loco”, Nasty Baby.
Dopo la prima alla sezione Panorama della Berlinale ricordo averlo considerato come tra i migliori dell’edizione 2015. Il livello di stratificazioni tematiche, la sofisticazione con cui sono trattate questioni LGBT e di genere, e soprattutto, l’insieme di tragedia e commedia, motivano ancora adesso quest’opinione. Sembra che alla prima del Sundance (Nasty Baby è stato rifiutato a Toronto) diverse persone lasciavano la sala: proprio nel momento in cui, immagino, io ho iniziato a divertirmi davvero, a provare sincera soddisfazione nel consumare il film. Allo stesso tempo però i film di Silva non sono prodotti “usa e getta”: conoscere la fine non rovina la visione, e soprattutto, non esaurisce il significato della sua opera.
Coinvolgendo ancora più del solito i suoi interessi autobiografici, in Nasty Baby Silva impiega se stesso come protagonista e attinge molto al suo mondo personale: il suo luminoso appartamento a Fort Greene, Brooklyn, diventa il set; il passato come artista fornisce il contesto; il fratello Augustìn è attore secondario. A questo scenario si aggiunge Kristen Wiig, una donna single che vuole concepire un figlio con il migliore amico Freddy (Silva). Freddy fa l’artista e convive con un gatto e il fidanzato Mo (Tunde Adebimpe, cantante dei TV on the Radio). La vita dei tre è quella della giovane classe creativa di NY, quella che ha praticamente imposto l’utilizzo del termine “gentrificazione” al posto di “sviluppo urbano”, mista, progressista e privilegiata. Influenzato dal desiderio di maternità di Wiig, Freddy sta anche lavorando a uno show da proporre a un odioso curatore. Intitolato proprio “Nasty Baby”, il progetto è una performance incentrata sul concetto di imbarazzo e vulnerabilità e consiste in Freddy travestito da neonato, che imita un lattante urlante. La mise-en-scene del mondo dell’arte — omosessuale, narcisista, falso — è caricaturale ma anche molto realistica. Conoscendo poi meglio il cinema di Silva ho intuito che, pur essendo un professionista dell’umorismo, si prende molto sul serio. Nasty Baby può in effetti anche essere interpretato come una critica ai giovani creativi delle metropoli occidentali, consapevoli e progressisti. Se da una parte lo spettatore di Silva ci si identifica perfettamente, dall’altra è anche capace di smascherare gli egoismi e i difetti, e l’ipocrisia, a volte, del proprio progressismo. D’altro canto, questo è solamente uno dei molti temi, e sono più i fatti, piuttosto che le nostre interpretazioni etiche, che interessano a Silva. E i fatti raccontano che Wiig vuole un figlio da una coppia di amici omosessuale e multietnica. Quando Freddy viene scartato come padre in vitro perché ha lo sperma pigro, Mo è chiamato come sostituto. Questo provoca attriti sia nella coppia che nel trio — ma sono gli attriti naturali dei rapporti interpersonali. Sia la maternità artificiale di Wiig che l’omosessualità di Freddy (e di Silva, che inscena la tematica per la seconda volta dopo le due lesbiche truffaldine in Gatos Viejos) sono trattati con una naturalezza ancora troppo rara nel cinema odierno, ma assolutamente obbligatoria. Finalmente, davvero finalmente, un film in cui le questioni di genere e orientamento sessuale magari definiscono un tratto della trama ma non sono il motore dell’azione.
Anche in questo colorito e positivo affresco, l’elemento perturbatore esiste. E insiste fin dalle prime scene. The Bishop — così si fa chiamare — è un condensato di tutte le figure “disturbate” create da Silva. Con un’unica, cruciale differenza rispetto alle precedenti: è un personaggio esterno, slegato dal nucleo domestico dei protagonisti e che agisce, apparentemente, solo in nome del suo disturbo. The Bishop è un gigantesco uomo di colore che vive nel seminterrato di una tipica brownstone di Brooklyn, due edifici più avanti l’appartamento di Freddy. Rumorosissimo la mattina presto, parcheggiatore abusivo, molestatore di donne, disoccupato e forse senza tetto, aggressivo e violento — un emarginato con ragione di disturbare i nuovi abitanti del quartiere o solo un pazzo pericolosissimo? In fin dei conti non importa, perché appunto, è lontano, è fuori, non ci appartiene e non ci tocca… finché non disturba la nostra privatissima quiete. Forse Nasty Baby si presta anche a letture socio-culturali, perché qui il “male” esula dalla cerchia familiare, è irrazionale e non suscita empatia: può diventare simbolo di una condizione generale, un efficacissimo capro espiatorio.
Come già scritto, conoscere il finale dei film di Silva non preclude una visione di alto gradimento. Riduce però il fattore sorpresa, soprattutto per quanto riguarda l’accostamento brusco ma organico di commedia e thriller. Non voglio quindi svelare cosa succede negli ultimi venti minuti di Nasty Baby, ma assicuro che è un’esperienza di grande qualità cinematografica. La conversione tonale avviene nel giro di pochi minuti ed è supportata in modo estremamente credibile dal cast. E sebbene Silva ami gli eccessi, la verosimiglianza rimane un perno cruciale della regia, che ci fornisce così un ventaglio di sensazioni forti e realistiche, tra la paura, lo sbigottimento, l’immedesimazione e la condanna. Viene da aggiungere che nella combinazione di commedia e tragedia non è difficile intravedere la telenovela, che ricorre spesso anche nei curricula di vari interpreti cari al regista. Se consideriamo le soap opera come la versione popolare del melodramma, allora il cinema di Silva potrebbe essere descritto come una telenovela estremamente sofisticata. Che questa sia una generalizzazione calzante o meno, importa poco, alla fine dei conti: parlando del film, Silva ha raccontato che la vita è semplice, e può cambiare in uno schiocco di dita. L’essenzialità della sua visione, come narratore, è ulteriore indizio della sua bravura. Proprio per questo è in grado di affiancare così efficacemente generi tanto opposti, quasi facendo due film in uno… due film che però non sono slegati, ma anzi, complementari l’uno all’altro. Quasi a superare, si direbbe, la finitezza delle sue storie e del mezzo cinematografico.