Roberto Bolaño non ha mai vissuto a Madrid, ma è proprio qui che è atterrato nel 1977, a ventiquattro anni, proveniente dal Messico. C’è una foto che lo ritrae mentre scende la scaletta dell’aereo, con una valigia in mano, i capelli lunghi e lo sguardo smarrito di chi si ritrova per la prima volta in un altro continente. La capitale sarà per Bolaño solo un luogo di passaggio, sceso dall’aereo si dirigerà a Barcellona per raggiungere la madre.
Bolaño non ha scritto quasi nulla sulla capitale spagnola: un numero irrisorio di pagine ne I detective selvaggi e in 2666 e un articolo intitolato «Come arrivare a Madrid», inserito poi in Tra Parentesi. Nell’articolo, oltre a dire che Madrid non esiste o che forse è una città immaginaria, racconta che i suoi alberghi preferiti sono quelli tra la piazza di Santa Ana e Lavapíes, gli alberghi dove andava all’epoca in cui faceva l’autostop e riusciva a resistere diversi giorni senza mangiare né dormire. Ho prenotato un ostello in questa zona perché nonostante sia in pieno centro, adiacente a Puerta del Sol, è molto economica. Avrei dovuto condividere il bagno con gli altri ospiti del piano, ma per una serie di imprevisti, dice la ragazza della reception, mi è toccata una stanza col bagno interno. Per raggiungerla devo andare in un altro edificio e fare a piedi sei rampe di scale. La stanza è minuscola, riesco a malapena a infilare il mio trolley nello spazio tra il letto e la parete. Dalla finestra vedo l’entrata di una discoteca che promette decibel e schiamazzi fino all’alba.
Il futuro della letteratura, scriveva Bolaño, appartiene ad Andrés Neuman e a pochi suoi fratelli di sangue. Se ho deciso di iniziare il mio viaggio in Spagna da Madrid è per seguire un corso di lettura letteraria tenuto da Neuman presso l’Istituto Cervantes.
L’edificio che ospita l’Istituto è soprannominato Palazzo delle Cariatidi, a causa delle quattro colonne a forma di donna situate ai lati dell’entrata principale. Si trova in pieno centro ed è un grande parallelepipedo che congiunge le perpendicolari calle Alcalá e calle del Barquillo. Venne progettato nel 1918 secondi i canoni del classicismo monumentale, su modello di costruzioni presenti in alcune città americane come Washington e Boston: la facciata esterna ha un aspetto imponente, il patio interno è caratterizzato da una colonnata in stile ionico. La stanza in cui si tiene il seminario è una scatola ritagliata su un lato del piano terra, racchiusa da due pareti di vetro e da un cartonato rosso su cui si ripete all’infinito il logo del Cervantes.
Arrivo in anticipo e nella hall incontro una ragazza bionda. Si chiama Paqui, è di Albacete e anche lei seguirà il seminario. Sta scrivendo la sua tesi di laurea su Andrés Neuman.
Siamo pochi in classe, solo sei, di cui tre stranieri: una portoricana, un brasiliano ed io. A noi si aggiungeranno di volta in volta alcuni stagisti del Cervantes.
L’accento di Neuman mi sorprende. Ho visto un paio di interviste che ha fatto per televisioni latinoamericane e la sua cadenza argentina era piuttosto marcata. Adesso invece parla con accento andaluso, un accento che conosco bene perché ho vissuto a Siviglia, e la sua voce è identica a quella del mio professore di spagnolo dell’epoca.
Decidiamo di fare l’intervista subito, alla fine della prima lezione. Andrés mi dice che può concedermi solo mezz’ora, quindi andiamo in un bar là vicino, la Cerveceria Pozo Real. Ci sediamo all’aperto e tra una birra e l’altra passano più di due ore.
Neuman mi racconta della genesi di Bariloche, il suo romanzo d’esordio, che ha pubblicato con Anagrama nel 1999, a ventidue anni: «Provo un certo affetto per Bariloche, anche perché se non l’avessi scritto non avrei conosciuto Bolaño. L’idea è nata mentre tornavo a casa dall’università. Ero in autobus e stavo leggendo un saggio di John Berger. Non mi ricordo il titolo [Leopardi, 1983], ma mi ricordo che parlava dello sfruttamento lavorativo e dell’impossibilità della rivoluzione ad opera del proletariato. Diceva che la fatica fisica della classe operaia impedisce una vera rivoluzione, che il trucco dello sfruttamento è che i soggetti che avrebbero più ragioni per ribellarsi sono quelli che hanno meno forze e capacità di attrazione per farlo. Stavo leggendo la frase È così che sopravvivono gli esausti che poi sarebbe apparsa come epigrafe nel mio romanzo, dove Berger spiega che la felicità del lavoratore sfruttato è mangiare e dormire, che uno sfruttato si trasforma in un animale che ottiene la felicità tramite l’appagamento dei suoi bisogni primari. Stavo leggendo questa frase e ho alzato lo sguardo: ho visto fuori dal finestrino un camion dell’immondizia e un uomo che scendeva dal camion. È stata una piccola rivelazione, ho visualizzato i due protagonisti e avevo già tutto il romanzo in testa.»
Però tu all’epoca vivevi in Spagna, mentre Bariloche è ambientato in Argentina.
Sì, sì, ero a Granada, vivo a Granada fin da ragazzino. Me ne sono andato da Buenos Aires a tredici anni. La mia educazione familiare è argentina, i miei genitori e tutti i miei nonni sono argentini, ma ho vissuto più tempo in Spagna. In realtà, a casa mia era come vivere ancora a Buenos Aires, poi aprivo la porta ed ero in Spagna. Era come ne La porta condannata di Cortázar, c’era un altro mondo al di là della porta, ho sempre vissuto in due Paesi. Ma la tua osservazione è pertinente, perché ho alzato la testa, ho visto uno spazzino e mi sono subito chiesto: di dov’è lo spazzino, spagnolo o argentino? E ho pensato che uno spazzino della provincia spagnola non desse l’idea della grande alienazione urbana.
Tra l’altro gli spazzini in Spagna, fino a un po’ di tempo fa almeno, non se la passavano così male.
Per certi versi è un lavoro ingrato, ma è vero, il capo non ti sta col fiato sul collo, si può chiacchierare e all’epoca qui non si guadagnava male. Gli spazzini mi affascinano, mi sembrano la metafora perfetta della borghesia. Cioè, cosa fa la borghesia con l’immondizia? Paga qualcuno perché se ne occupi. Sono l’incarnazione della nostra morale, gli spazzini. Siamo in macchina e ci dà fastidio trovarci davanti il camion dell’immondizia. Però la spazzatura che stanno caricando è la nostra, quindi non è lo spazzino a darci fastidio, ma la nostra spazzatura. Uno spazzino della grande città funzionava bene come metafora dell’ultracapitalismo. E poi mi sono ricordato che da bambino mi colpivano le tute riflettenti degli spazzini argentini, così ho scelto di ambientare la storia a Buenos Aires.
La recensione che Bolaño dedicò a Bariloche si concludeva così : “Quando incontro questi giovani scrittori mi viene voglia di mettermi a piangere. […] Non so se una notte verranno travolti da un automobilista ubriaco o se all’improvviso smetteranno di scrivere. Se nulla di tutto questo accadrà, la letteratura del XXI secolo apparterrà a Neuman e a pochi suoi fratelli di sangue.” Avevi letto qualcosa di Bolaño prima che lui recensisse il tuo romanzo?
Mi imbarazza profondamente ammetterlo, ma non avevo letto niente di suo. Bisogna dire che all’epoca non era la leggenda che è adesso, anche se aveva già pubblicato I detective selvaggi.
Tra l’altro I detective aveva venduto abbastanza bene, no?
Sí, ma non è questo il punto, ci saranno sempre autori che venderanno più di Bolaño. Dan Brown vende milioni di copie, ma io non leggerò mai un suo libro. Il fatto è che aveva già raggiunto un certo prestigio letterario. I pochi lettori de La letteratura nazista in America lo consideravano un libro significativo. Secondo me è un buon libro, ma è il primo grande libro di Bolaño “copiato” da qualcun altro. O in altre parole, l’ultimo brutto libro di Bolaño o il suo primo grande libro di apprendistato. Non fraintendermi, La letteratura nazista è divertente, ingegnoso, ma è una copia de La sinagoga degli iconoclasti di Rodolfo Wilcock e de Le vite immaginarie di Marcel Schwob. Poi pubblicò Chiamate telefoniche e Stella distante, che sono i suoi due primi capolavori. Alcuni lettori stavano già parlando di questo cileno che viveva in Catalogna e aveva pubblicato due libri per Anagrama che non erano niente male. All’improvviso fece la sua comparsa I detective selvaggi e la gente iniziò a chiedersi “Chi diavolo è questo tizio?”. Inizialmente era una sorta di segreto tra addetti ai lavori, altri scrittori e un ridottissimo numero di lettori: c’era questo cileno, venuto fuori dal nulla, che aveva scritto un romanzo davvero importante. Fu allora che spedii il mio manoscritto a Anagrama e, miracolosamente, finì in mano a Bolaño, che di quando in quando faceva da lettore per la casa editrice.
Faceva parte della giuria del premio Herralde, vero?
Sí, ma io non lo sapevo, non avevo idea di chi fosse Roberto Bolaño. Avevo inviato il romanzo senza aspettative. A dire il vero, non ero stato io a inviarlo, ma un amico, lo scrittore Justo Navarro, a mia insaputa. Quando la casa editrice mi contattò, fu una sorpresa enorme. Ci fu la cerimonia di consegna del premio e il mio romanzo arrivò secondo, dietro París di Marco Girralt Torrente. Bolaño, ovviamente, non c’era. Gli piaceva scomparire, socialmente parlando. Lo faceva per coltivare la sua leggenda.
C’è una famosa gag di un film italiano degli anni ’70 [Ecce bombo, Nanni Moretti, 1978], in cui il protagonista telefona a un amico e, parlando di una festa, gli chiede: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.
Esatto, Bolaño pensava che a volte l’assenza si nota più della presenza. Non era un misantropo, al contrario, era divertente ed estremamente brillante nei contesti mondani, l’opposto di un anacoreta. Ma tra la sue precarie condizioni di salute, il fatto che gli piaceva creare quest’aura di mistero attorno a sé e la distanza tra Blanes e Barcellona, capitava spesso che confermasse la sua partecipazione agli eventi e poi non si presentasse. Insomma, non lo incontrai alla premiazione, ma gli altri membri della giuria mi dissero che era stato lo sponsor principale del mio romanzo. Pensai “Che gentile questo signore cileno” e dopo un po’ me ne dimenticai. Qualche mese più tardi, Bolaño scrisse un articolo su Bariloche e sulle prime poesie che avevo pubblicato. Il pezzo era così entusiasta e generoso che il giorno stesso andai in libreria, comprai tutti i suoi libri e mi ripromisi di non chiamarlo fino a quando non avessi finito di leggerli. Lessi Stella distante, Chiamate telefoniche, I detective selvaggi, tutto quello che riuscii a trovare, anche un libro di poesia, probabilmente Los perros románticos. Rimasi sbalordito.
Ti ricordi quando gli parlasti per la prima volta?
Lo chiamai nell’estate del 2000. Stavo cercando di spiegargli i motivi della mia telefonata, avevo preparato un discorso per scusarmi per il modo in cui avevo ottenuto il suo numero e per aver invaso la sua privacy, ma lui rispose semplicemente: “Ah, sei tu, Neuman” come se ci conoscessimo da una vita. Parlammo per due ore e mezzo, o meglio, lui parlò e io ascoltai. Il suo modo di fare mi spiazzò. Avevo chiamato un estraneo e avevo riagganciato con l’illusione, un’illusione tangibile, che fossimo grandi amici. Da quel momento in poi intrattenemmo una relazione insolita. Per due o tre anni parlammo spesso al telefono e ci scambiammo molte email, ma lo vidi una sola volta.
Un giorno andai in “pellegrinaggio” a Blanes e trascorsi quasi ventiquattro ore con lui, ventiquattro ore sveglio, perché Bolaño praticamente non dormiva. Mangiammo tacos messicani e mi sottopose a un questionario su Beethoven. Era curioso di sapere se, secondo me, una sonata di Beethoven eseguita su Marte sarebbe stata comunque un’opera d’arte. Dato che all’epoca ero un giovane, entusiasta e convinto marxista, gli risposi in maniera marxista: dissi che non sarebbe stata un’opera d’arte perché su Marte non esisteva il consenso sociale che la borghesia identifica come tale, che si sarebbe trattato di semplici onde sonore, e aggiunsi una serie di idiozie incredibilmente appaganti per un ragazzino che vuole mostrarsi il più intransigente possibile riguardo alle proprie convinzioni politiche. Bolaño scosse la testa, rise e mi disse: “Sei un coglione Neuman, certo che sarebbe un’opera d’arte, lo è qui e lo sarebbe su Marte.”
Si prendeva gioco dei miei studi universitari: lui non aveva frequentato l’università e le contrapponeva la sua presunta formazione selvaggia. Dico “presunta” perché era un uomo molto colto e sua madre – un particolare biografico che nessuno sembra ricordare – era professoressa di letteratura. La maggior parte della gente, soprattutto negli Stati Uniti, è innamorata del mito di un Bolaño tossicodipendente e autodidatta, che tra una droga e l’altra, leggeva Baudelaire e Archiloco. In realtà, durante la sua adolescenza aveva letto un’enorme quantità di libri e a vent’anni era già una persona colta, non un contadino o un operaio, tipo Erri De Luca, che a un certo punto della sua vita decide di farsi una cultura. In ogni caso, non aveva una formazione accademica e si divertiva a prendere in giro chi ne aveva una. In seguito giocammo a scacchi, ascoltando Álex Lora e altri gruppi rock messicani. Bolaño vinse e fui sorpreso dalla sua bravura. Io gioco a un livello accettabile e da ragazzino facevo parte di un club. Per queste ragioni pensavo che l’avrei battuto con facilità, ma appena iniziammo mi resi conto che era un buon giocatore e dopo mezz’ora capii che conosceva alla perfezione la teoria degli scacchi. Vinse giocando in maniera estremamente speculativa, difendendo e programmando le mosse a lungo termine. Il modo in cui giocava a scacchi era una metafora di Bolaño: fingeva di essere un selvaggio, ma era un razionalista.
Alla fine della giornata, quando sua moglie e suo figlio andarono a letto, mi recitò delle poesie. All’inizio lesse la sua raccolta ancora inedita che si sarebbe intitolata Trés, me la lesse per intero. È divisa in tre parti, tre lunghi poemi. Dedicò il terzo, Un paseo por la literatura, a me e a Rodrigo Pinto, probabilmente perché si sentiva in colpa per avermi costretto ad ascoltarlo così a lungo. Scherzi a parte, sono molto orgoglioso di quella dedica, anche perché si tratta di un poema magnifico. Poi mi disse che voleva leggermi un poeta migliore di lui e tirò fuori un libro di Archiloco. Erano le quattro di mattina e io ero ubriaco, morto di sonno, perché avevo bevuto whisky tutta la notte, mentre lui aveva bevuto solo camomilla. Mi vide stanco e mi portò nella sua “caverna”, il posto dove lavorava. Viveva in una casa che era – forse questo stupirà e deluderà alcuni dei suoi fan – estremamente ordinata, pulita, una tipica casa borghese. La sua casa era tutto fuorché disordinata. Quello che voglio dire è che molti hanno in mente una caricatura romantica di Bolaño, ma si trattava di un uomo estremamente complesso.
In realtà parlava bene della borghesia. In un’intervista disse che la nostra aspirazione dovrebbe essere che tutti diventino borghesi e possano avere un buon tenore di vita.
Certo, il racconto politico di Bolaño è difatti il racconto dell’abbandono dell’utopia degli anni ’60, del fallimento del sogno rivoluzionario.
Tornando a quella notte, più tardi ci spostammo dalla casa al suo ufficio, dall’altra parte della strada. E lì trovai il Roberto Bolaño che la gente si aspetta. Lo studio era un disastro: umido, con le pareti scrostate, privo di televisione e internet. C’erano solo un computer obsoleto, una scatola con i suoi libri e le traduzioni di quest’ultimi sparpagliate sul pavimento: ricordo ancora come Bolaño, con totale nonchalance, continuava a prenderle a pedate per aprirsi un varco nella stanza.