Lo scrittore protagonista di Dedica ha incontrato il pubblico al Teatro Verdi. Intervistato da Fabio Gambaro, ha parlato dei compiti e del ruolo che uno scrittore ha oggi nella società e ha raccontato quali sono i suoi maestri
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE A PORDENONE – Per celebrare un compleanno importante, la ventesima edizione, il Festival Dedica, promosso dall’associazione culturale Thesis di Pordenone, ha voluto un nome forte, importante, d’impatto anche sul grande pubblico come Tahar Ben Jelloun. Dopo l’incontro con la stampa, si è tenuto anche quello con il pubblico della rassegna al Teatro Verdi di Pordenone, sabato, in compagnia di Fabio Gambaro che ha intervistato l’autore.
LA CONVIVENZA DI DIVERSE MATRICI CULTURALI – Il celebre scrittore franco-marocchino vanta una vastissima produzione letteraria, è tradotto in 24 lingue e autore di best seller quali “Il razzismo spiegato a mia figlia” (per citarne uno fra i più noti). Alla sua storia personale, positivamente segnata dalla compresenza di due diverse matrici culturali, Tahar Ben Jelloun deve la sua idea aperta della cultura. La sua scrittura ne è la prova tangibile: la tradizione culturale e la spiritualità araba di cui egli si è nutrito impregnano la lingua francese in cui ha scelto di esprimersi, dando alla sua opera un ritmo e una profondità del tutto nuovi nel panorama letterario contemporaneo. Ad accogliere Ben Jelloun nel suo primo incontro, oltre al pubblico del festival, sono arrivati anche Ahmed El Khdar, console generale del regno del Marocco a Verona, e molti altri connazionali. Così, con il caldo affetto maghrebino, si è aperto il primo incontro dello scrittore marocchino.
LO SCRITTORE DEVE ASCOLTARE – La conversazione parte dalla riflessione sul mestiere dello scrittore e dalla forte pulsione a scrivere, rimasta ancora intatta e fervida, dopo quarant’anni: “Perché uno scrittore – inizia Ben Jelloun – deve farsi portavoce di ciò che vede e che sente. All’epoca di Proust ci si poteva accontentare, come fece lo scrittore francese, di autoascoltarsi, ma ora, nel mondo contemporaneo, questo non basta più: occorre ascoltare e portare testimonianza a chi non lo può fare”. Nessuna illusione però sul ruolo della letteratura come freno alla barbarie, “perché il libro – e qui lo scrittore marocchino cita Sartre – davanti a un bambino che ha fame non pesa nulla.”
DUE MONDI, DUE CULTURE, UNA SOLA LINGUA – Per descrivere il mondo contemporaneo, Ben Jelloun ha scelto il francese e si dichiara stupito della sorpresa (una sorpresa che dura da quarant’anni) e delle domande sul perché di questa scelta, quando ad altri scrittori del passato (ad esempio Nabokov) nessuno chiedeva perché alternassero francese e russo. “Questo – dice Ben Jelloun – è il destino di uno scrittore maghrebino con alle spalle un passato coloniale, che pesa ancora tantissimo. Ma io sono uno scrittore francese e non siamo alla dogana o alla frontiera”. “La questione è – continua – ben più complessa e di carattere intellettuale: la nazionalità è l’universo in cui ci muoviamo, e perciò non ha senso chiedere la nazionalità di uno scrittore” .
I MAESTRI DI BEN JELLOUN – Avere due mondi e due culture, anche se non si ha la perfetta padronanza di entrambe, è una fonte di ricchezza e la cultura è una materia viva cosi forte da sembrare, quando si interagisce con essa, quasi una relazione amorosa, nel suo caso doppia: il Maghreb, fonte perenne di ispirazione, e la Francia con i maestri che l’anno ispirato. Roland Barthes, suo professore, e Jean Genet, dal quale, oltre la modestia, “ho imparato – confessa lo scrittore marocchino – a dimenticare di scrivere per continuare a scrivere”. Dietro i suoi romanzi, però, c’è anche tanto cinema, soprattutto quello neorealista italiano, con l’attenzione sensibile verso il mondo dei dimenticati.
UNA RIFLESSIONE SULL’ISLAM – Ben Jelloun è particolarmente attento, quando legge la contemporaneità, ai suoi risvolti islamofobi e razzisti. “ L’Islam è una religione come le altre – dice – che però negli ultimi tempi è stata rappresentata in modo distorto. Ha dimostrato, con la Primavera Araba, di non saper governare, ma la storia recente ha anche provato che i popoli del Maghreb non hanno paura e scendono in piazza, sapendo di rischiare la vita”. L’ultima riflessione è dedicata al razzismo: “Ogni società è razzista – conclude Ben Jelloun – non verso il diverso, ma verso il povero.”