Il tempo in cui i festival cinematografici e letterari e i loro affini e collaterali avevano un significato attivo e propositivo è finito da tempo, ed essi, o si trasformano in luoghi di confronto e discussione reali – sul modello, perché no?, dei seminari universitari, dei convegni di esperti cui il pubblico può accedere, riacquistando una dimensione attiva e attivizzante – o è bene che accentuino senza mezzi termini, allontanando in tal modo il pubblico pensante ed esigente, questa loro natura di fiera nel senso precipuo del mercato e dello spettacolo. Delle passerelle di nomi noti (ed essere noti, lo sappiamo, quasi mai equivale a essere bravi o a essere utili) presentatati dai nomi di noti giornalisti dei soliti giornali, quando non sono loro i noti giornalisti, si è stanchi perché verifichiamo da anni che non cambiano nulla nella testa delle persone. Se diventano più intelligenti esse lo diventano oggi più che mai per strade diverse e imprevedibili, legate soprattutto a esperienze e incontri personali e a letture scovate per vie diverse da quelle della pubblicità e del divismo. Eppure si insiste, e ogni paesino, ogni quartiere di grande o media città, rivendica il suo festival, la sua sagra “culturale” da aggiungere a quelle mangerecce e vacanziere.
I festival sono da sempre delle vetrine per la produzione letteraria, cinematografica, teatrale, hanno svolto una loro funzione facendo incontrare lettori e scrittori, spettatori e registi, ma questa funzione, man mano che la società dello spettacolo li investiva e cooptava, l’hanno abbandonata pressoché del tutto scegliendo la grancassa e il mercato, la supinità alle mode, l’intreccio tra la produzione più recente e il turismo. E sempre di più il modello dominante è quello più estremo, Mantova o Cannes. Gli editori hanno bisogno dei festival come ne hanno bisogno i cinematografari, e c’è ancora una massa di persone che non sanno che fare del loro tempo libero (della loro vita) e frequentano i festival per sentirsi anche loro intelligenti e al passo coi tempi (con le proposte più recenti del mercato), c’è ancora (quando si tratta di cinema) una corporazione che deve stare al passo con le novità, vendere e comprare, e che si trascina appresso una massa di piccoli intermediari o semplici parassiti (gli uffici stampa, i giornalisti dei contorni, i critici e sedicenti tali – una categoria che ha perso ogni funzione critica e ogni intelligenza critica –, gli studenti dei Dams, i fanzinari, i blogghisti, gli animatori di altri festival e sagre…).
(Un discorso a parte andrebbe fatto per le giurie, qualora si tratti di opere che concorrono a qualche premio che è importante pubblicitariamente per il successo nazionale o internazionale di un’opera o di un autore. Scomparsi i critici autorevoli, di cui il sistema mediatico ha mostrato di non avere più alcun bisogno, oggi o squillanti giornalisti o noiosi prof., restano i membri delle corporazioni, che ragionano in funzione di alleanze e simpatie e di modelli consolidati.)
C’è ancora una massa di persone che crede di avere idee proprie consumando le altrui, o più semplicemente applaudendo i “nomi” sponsorizzati da “la Repubblica”, “il Corriere”, Fazio e gazzette minori. Questi luna-park (e Venezia non è l’ultimo, nel suo affannoso sforzo di inseguire i modelli vincenti, che sono poi i più spregiudicati, spesso i più corrotti) c’entrano ben poco con la cultura, come produzione di idee nuove e importanti che non siano quelle accettate dal sistema economico-mediatico che detta la sua legge al mondo. Della cultura come scelta, in rapporto diretto con la nostra vita e con le nostre convinzioni, e soprattutto con i nostri comportamenti, con le nostre responsabili azioni.
D’altra parte, nel pieno dell’immane mutazione che il mondo sta vivendo, si ha pur bisogno di luoghi di incontro e di scambio, di formazione attraverso una informazione mirata e il confronto con chi ne sa più di noi ma condivide le nostre stesse preoccupazioni. Non c’è da aspettarsi che a questo bisogno – eminentemente minoritario e d’avanguardia – possa rispondere il mercato dei festival, tanto meno quelli apparentemente più ambiziosi, che chiamano in campo la mente e la scienza, i valori e la fede. Nel momento in cui questo modello sta implodendo, bisogna dunque cominciare col mettere in discussione quel che ci sta dietro, questi modelli e queste pratiche della comunicazione vecchi e compromessi, che hanno finito per produrre quasi soltanto degli ebeti consumatori (per es. i chiacchierini di Radio3) e produrne di nuovi. In tutto questo, internet e affini non possono e non devono avere un peso altro che genericamente consultivo: perché non si tratta di compiacere i consumatori che credono di pensare con la loro testa mentre accade esattamente il contrario (quelli del “io penso che”, che pensano con la testa di chi gli si impone) ma di stimolare il confronto diretto (ovviamente il faccia a faccia tra i pochi e motivati, tra lettori e scrittori e saggisti, tra spettatori e registi, tra ascoltatori e musicanti). Un lavoro minoritario, certamente, e bisogna insistere su questo a costo di apparire anti-democratici in quanto nemici della democrazia del consumo e della manipolazione mediatica delle idee.
Si veda in questo numero di “Lo straniero” l’intervista fatta da un giovane regista algerino amico con Tahar Chikhaoui, che dirige a Marsiglia dal 2013 degli “incontri dei cinema arabi” che cercano di dare visibilità a quel che non l’ha e parla di una generazione di giovani registi che vivono e agiscono con i loro mezzi in mezzo ai migranti, sulle frontiere, che filmano tra fiction e documentario essendo essi stessi parte di questi cambiamenti epocali. Parte, e non testimoni che ci campano su vendendo buonismo. Nasce una cultura nuova, perfino in Italia, e più tra registi che tra saggisti e narratori e teatranti eccetera, ma i festival si attardano sull’ipocrisia della denuncia e del sentimento, dei piccoli guai e degli effetti speciali. Di un’autorialità vera o presunta purché, alla base, redditizia e meglio se milionaria.
Quelli letterari trasformano in saltimbanchi anche autori e pensatori considerevoli. In prima fila restano i profeti delle grandi proposte risolutorie, mentre gli apocalittici della denuncia hanno finito per godere di uno spazio minore. Tra i primi e tra i secondi ci sono anche studiosi seri che dovrebbero però smetterla di accettare, se davvero sono seri, il gioco narcisistico e venale del successo e della fiera. C’è una cultura, più soffocata in Italia che altrove, che è da difendere e da promuovere. Si è stanchi di pubblicità e di superficialità e occorre tornare a esigere cose di sostanza, al passo con le necessità della sopravvivenza dell’uomo e del pianeta e di una convivenza liberata dai pesi e dai ricatti del potere, dei poteri. Per capire e di conseguenza per fare. Se si vuole incidere su qualcosa, e aiutare gli altri aiutando se stessi, anche in questo campo, i mezzi e i fini devono tornare a coincidere.