Abbiamo visto “ Timbuktu “ diretto da Abderrehmane Sissako.
Probabilmente tutti abbiamo avuto voglia di fare un viaggio nella mitica Timbuctù, tra il fiume Niger e il deserto sahariano. Immaginato di prendere una carovana per raggiungere il Sudan in un viaggio misterioso e avventuroso. Purtroppo oggi nella città di origini Tuareg è praticamente impossibile arrivarci, un’altra piccola ferita che non solo noi occidentali riceviamo dall’insensatezza del fanatismo islamico. Timbuctù è stata una città dolce e tollerante, accogliente con tutti i tipi di viaggiatori, avventurieri e turisti vari, oramai è nelle mani di gruppi di feroci estremisti religiosi che rapiscono stranieri e puniscono con la morte concittadini che desiderano soltanto suonare con la chitarra una canzone o vorrebbero fumare una sigaretta o tirare un calcio a un pallone.
Delle sofferenze ulteriori e intollerabili che subisce un popolo in questi ultimi anni ci narra con la maestria di un grande autore, d’ispirazione neorealista, Adberrahmane Sissako. Di nascita mauritana ( e non maliana ), di formazione russa ( ha vissuto a Mosca per frequentare la prestigiosa scuola di cinema VGIK ) e poi adottato dalla Francia che lo ha accolto, permesso di realizzare film ( La vie sur terre, Aspettando la felicità e Bamako ) e rappresentato ripetutamente al festival di Cannes. Adesso decide di raccontare con austerità rosselliniana, semplicità ed efficacia, un mondo alla fine del mondo; di persone semplici e in fondo virtuose che devono subire restrizioni assurde e intollerabili da gruppi di estremisti che governano con leggi ferree, che fanno della proibizione un modo di vivere e impongono un rigido codice che ogni giorno cambia in peggio e che non nasce da un’interpretazione restrittiva e autoritaria del Corano ma sembra quasi partorita da un’ottusità del vivere. E allora Sissako ci mostra questa orrida banalità del quotidiano, dove ragazzini giocano a palla senza palla con il rischio di essere uccisi ( L’esatto opposto del finale di Blow Up di Antonioni ), dove una donna viene frustata in piazza perché ha ascoltato musica, un uomo viene condannato a morte perché in una rissa ha ucciso un uomo e la madre non vuole perdonarlo, dove una coppia viene lapidata perché parla senza essere sposata, dove una madre si lamenta del rapimento della figlia da parte di un uomo che l’ha poi obbligata a sposarsi di nascosto e non può ottenere un minimo di giustizia perché un tribunale islamico stabilisce che l’uomo è un buon mussulmano.
Sissako parte da una storia effettivamente successa per raccontare tante piccole storie e persone che vivono nel deserto a poca distanza da Timbuctù. Con un tocco di realismo semplice e rigoroso ci racconta di una dolce e bella famiglia che vive tranquilla tra le dune del deserto, sotto un’ampia tenda. Sono Kidane, Satima e la loro figlia Toya, si vogliono un gran bene e non c’è tra loro alcuna prevaricazione o sopruso. Sono a modo loro dei benestanti hanno sette mucche che vengono accudite e portate al fiume dal dodicenne Issan, ragazzino senza padre e diventato quasi un altro figlio. Un giorno al fiume, Issan si lascia sfuggire la mucca migliore che involontariamente rompe una rete del pescatore Amadou, allora l’uomo arrabbiato uccide la mucca. Il buon Kidane non può accettare il sopruso e va a lamentarsi col pescatore, ne scaturisce subito una rissa e accidentalmente lo uccide. Viene subito arrestato dalla polizia islamica che stabilisce come pena la consegna di 40 mucche alla famiglia del morto, naturalmente Kidane non può pagare, allora convocano la madre del pescatore e le chiedono se può perdonare l’uomo, la donna dice semplicemente che è ancora troppo presto per perdonarlo e allora Kidame viene condannato a morte. Ma il suo unico cruccio non è nemmeno quello di morire bensì il fatto che non potrà vedere la sua amata figlia un’ultima volta.
Sissako con Timbuctù riesce a coniugare vari livelli narrativi, ad un simbolismo africano, aggiunge un lirismo dolente, in alcuni tratti un umorismo malinconico intrinseco con un realismo sconvolgente. Cerca e ci riesce, attraverso una narrazione filmica semplice, di raccontare non tanto un fatto di cronaca nera ai tempi del fanatismo islamico, non vuole essere così candido da imporre una tesi sull’ideologismo-religioso, cerca una chiave di lettura in cui si analizza il paradosso del potere attraverso l’insensatezza del regime fanatico. Dove in fondo non ci sono reali cattivi, ma dove degli esseri umani decidono di indossare una corazza più per un bisogno di identità che non per reale malvagità. Questi islamici nel loro modo crudele e banale di muoversi ricordano quei quadri intermedi dei partiti totalitari del Novecento.