Dag Solstad, Timidezza e dignità
Le prime cinquanta pagine di Timidezza e dignità sono straor¬dinarie. Il seguito del romanzo è anch’esso molto buono, ma l’inizio è fuori dal comune. È la storia di una trasmissione necessaria e impossibile. L’eroe del romanzo, Elias Rikla, si ritrova a tenere un corso sul’Anitra selvatica di Henrik Ibsen, una delle opere fondamentali della letteratura norvegese. La frequente ubriachezza e il cattivo umore del professore sono gli strumenti attraverso cui si liberano la sua sensibilità e la sua intelligenza, consentendogli di pensare e sentire ciò che non ha mai pensato e sentito. Un tempo, Elias Rikla si era divertito a constatare che il suo modo di insegnare annoiava gli alunni, e aveva pensato: “Eh sì, così è la vita, essere professori nelle scuole secondarie di un paese civilizzato significa questo”. Ma d’un tratto, il professore si accorge del carattere “ripugnante” del suo lavoro davanti all’ostilità della sua classe. È come se avesse il permesso di continuare a occupare il suo posto solo in virtù della loro grazia. Timidezza e dignità si presenta come un monologo interiore scritto in terza persona, con uno stile indiretto. Non appena il professore esce dall’edificio scolastico, il romanzo si concentra sulla sua biografia: la posta in gioco è quella di comprendere come è arrivato a fare il lavoro che fa, a partire dagli anni in cui era ancora studente. Il libro si chiude quando, ormai, è tutto finito: “È spaventoso, ma non c’è nessun ritorno indietro possibile”. Le rivolte viste dall’Europa