Tra le lingue che Barbara Delfino traduce non c’è lo svedese, ma all’annuncio dell’Accademia di Svezia ha distinto limpidamente il nome di Olga Tokarczuk. In Italia, pochi conoscono come Delfino il percorso e la scrittura del nuovo Premio Nobel per la letteratura.
La traduttrice in italiano del sesto romanzo, I vagabondi (Bompiani), che con la vittoria del Man Booker Prize International aveva consacrato Tokarczuk a livello internazionale, frequentava il terzo anno nella sezione di polonistica dell’Università di Torino, quando ha lavorato per la prima volta a un suo testo.
«All’università, durante alcune esercitazioni di traduzione, la professoressa ci diede un racconto breve di Tokarczuk. Mi colpì subito e cominciai a raccogliere informazioni sull’autrice. Nel Duemila non aveva ancora scritto molto, ma mi appassionò tanto da lavorarci per la tesi di laurea», racconta Delfino.
Ricorda il titolo della tesi?
«Lei era una novità, una scrittrice ancora giovane e l’idea era far conoscere qualcosa della letteratura contemporanea polacca in Italia. Il titolo è La dimensione onirica nei romanzi di Olga Tokarczuk e lo studio riguardava i primi quattro libri».
Immagino non sia stato semplice far passare, almeno all’inizio, l’opera di Tokarczuk.
«Ogni volta che scriveva qualcosa, mi facevo spedire i testi dalla Polonia. Ho presentato spesso i suoi lavori ad alcuni editori italiani, ma non è facile aprire un varco alla letteratura polacca».
Anche I vagabondi ha avuto un percorso tortuoso.
«Sì, la prima edizione risale al 2007 ed è stato tradotto un decennio più tardi, per poi giungere alla ribalta internazionale. All’epoca della pubblicazione in Polonia, l’avevo proposto in Italia senza esiti. Probabilmente le sensibilità non erano ancora mature. Ed è anche cambiato il panorama letterario europeo».
I vagabondi, e la stessa motivazione con cui le è stato assegnato il Nobel, suscitano una questione: qual è il senso del confine per Tokarczuk?
«Ne abbiamo parlato recentemente, incontrandoci a Firenze. Lei disconosce davvero i confini siano essi nazionali o tra le persone. Tokarczuk ridefinisce con la sua vita e nei libri il rapporto tra la scrittura, il viaggio e l’io. Nei romanzi, che toccano diversi generi, si nota sempre la formazione da psicologa. Non manca mai un’analisi approfondita dei personaggi e delle situazioni con una scrittura ricca ma non particolarmente complessa».
Prima del 1989, Tokarczuk non aveva mai lasciato la Polonia. Qual è stato l’impatto della caduta del Muro?
«Fortissimo. Lei ripete spesso che il 1989 è stato un anno fondamentale, perché ha avuto la possibilità di andare all’estero. La sua biografia si scorge nelle opere letterarie. Tokarczuk appartiene a una generazione particolare e difficile da catalogare. In Polonia infatti veniva chiamata la generazione degli scrittori nati dopo gli anni Sessanta. Era l’unico fattore che li accomunava, non lo stile o gli argomenti molto diversificati. Hanno respirato una libertà inedita, dovendo imparare a gestirla. L’avevano conquistata e ognuno ha scelto le proprie strade».
Nella Polonia odierna lei rappresenta l’anima di chi ha mantenuto l’apertura del 1989?
«Il sentimento nei suoi confronti è ambivalente. Il potere la contesta per il suo rifiuto del nazionalismo, sempre più forte in Polonia, che considera anacronistico e incapace di tenere insieme le molte identità del paese. E c’è chi l’ammira proprio per la capacità di varcare invece i confini. La letteratura non significa per lei fare politica, ma ha le sue sensibilità: è un’ambientalista della prima ora».
Anche The books of Jacob costituisce un attraversamento ed è interessante, nonché coraggiosa la ricerca di Tokarczuk sulla memoria.
«Il lavoro di documentazione di Tokarczuk è maniacale. In questo caso riprende la storia della Polonia dal Seicento e la ricerca è durata circa nove anni. La storia a volte è scomoda e dà fastidio, ma lei non ha mai avuto esitazioni nel raccontare anche gli angoli bui delle vicende storiche polacche. Non si fa influenzare, lei scrive».
Qual è il vostro rapporto personale?
«La prima volta ci siamo incontrate a Udine nel 2001, quando scrivevo la tesi. Quel giorno mi ha guardata, per poi domandare: “Che cosa avrai mai da scrivere su di me?”. Si è sempre dimostrata attenta al lavoro di traduzione e disponibile al confronto. La sentirò tra qualche giorno».
Sembra limitativo definire Tokarczuk polacca: sarebbe più corretto europea?
«Sì, soprattutto ne I vagabondi t’immerge e ti fa sentire il battito del nostro continente».