Questo articolo è contenuto nella pubblicazione Storie (in) Serie, a cura di Carlotta Susca e Antonietta Rubino, consultabile qui.
Se si riduce True Detective al rango di crime drama si rischia di rimanere delusi. Nell’epilogo delle vicende rimangono molti punti oscuri, il male non viene arginato, non tutti i colpevoli vengono assicurati alla giustizia – l’esecuzione di Reggie Ledoux e l’uccisione di suo cugino DeWall e di Errol Childress di fatto assegnano un punto alla squadra dei criminali: l’unica persona che la polizia riesce ad arrestare è mentalmente instabile e non sarà in grado di aggiungere i tasselli mancanti alle indagini, e la morte, per soggetti tanto abietti, non può che costituire, stoicamente, un sollievo –, l’intreccio non viene sciolto completamente. Il racconto non torna del tutto, i requisiti del poliziesco non vengono soddisfatti. Eppure la serie scritta da Nic Pizzolatto conserva fino alla fine la sua potenza narrativa. E non perché l’interpretazione magistrale di Matthew McConaughey renda lo spettatore più indulgente nei confronti della sceneggiatura. No, la vera ragione è che in True Detective la caccia al serial killer è soltanto un pretesto. Il vero nucleo della storia è la discesa negli inferi dei protagonisti alla ricerca del senso dell’esistenza.
La spirale che segna i corpi delle vittime è l’espressione visiva dell’intero significato della narrazione e della sua struttura, dà una forma concreta alla conclusione che non tutte le tessere vadano a posto e che il cerchio non si chiuda. Se per il detective Cohle è uno degli indizi che fanno sospettare sin dalle prime battute che l’omicidio di Dora Lange non sia isolato e sia da ricondurre a un rituale satanico, ad un livello più profondo il simbolo che dagli albori dell’umanità accompagna i corredi funerari rappresenta il percorso che compiono i due protagonisti: rimanda alla vita dopo la morte, alla rinascita, all’evoluzione da un punto di origine – la morte della figlia di Rust, la distruzione della famiglia a causa del comportamento superficiale di Marty –; è la traduzione grafica della ciclicità della vita. La spirale racchiude la concezione nietzschiana dell’eterno ritorno su cui si regge la serie, ma rappresenta anche la vertigine (anch’essa nietzschiana) che coglie chi guarda nell’abisso.
È chiaro che, mentre seguiamo le indagini, mentre cerchiamo di ricostruire in maniera ordinata e lineare il quadro della storia che Cohle e Hart stanno riportando nell’interrogatorio separato a Papania e Gilbough, mentre si fa strada la sensazione che l’organizzazione criminale sia così tentacolare che non sarà semplice svelare l’identità del Re Giallo, capiamo che le vicende umane dei protagonisti hanno un peso importante nella storia. E ci accorgiamo anche che ci stiamo smarrendo insieme ai personaggi. Noi stiamo tentando di orientarci nel racconto, loro nella vita. Stiamo vagando in un labirinto, e l’analessi, l’andare avanti e indietro nel tempo, i vicoli ciechi, riproducono questo movimento erratico. Il significante, insomma, riflette il significato. E questi meandri complicati si materializzano davanti ai nostri occhi quando finalmente, dopo diciassette anni, i due detective trovano la misteriosa ‘Carcosa’: una successione di stanze e corridoi di rami intrecciati dove sono sepolte le macerie dei sacrifici umani consumati. Lo sviluppo delle vicende ci ha condotto, dunque, all’interno di un archetipo universale: come Teseo a Cnosso, Cohle deve fronteggiare una creatura mostruosa – Childress non è solo malvagio, incarna fisiognomicamente l’orrore: il suo volto è deturpato da profonde cicatrici – per porre fine al tributo di sangue che il Sud della Louisiana paga da oltre vent’anni. E con lui, va da sé, deve affrontare i propri demoni personali.
Topos polisemico, dunque, il labirinto: è la perdita della rotta, e la sua riconquista (una volta superate le prove), rappresenta l’impossibilità di raggiungere la verità assoluta (il guardiano del cimitero è uno degli autori delle violenze, ma là fuori ce ne possono essere tanti altri). Il suo centro, l’antro dove avviene la colluttazione finale, è l’emblema del grembo materno: dall’oscurità dell’utero dopo il travaglio – le estenuanti ricerche che culminano nelle ferite quasi mortali ricevute da Rust e Marty – viene alla luce una nuova vita. La rinascita passa dall’esperienza personale della morte (il coma), grazie alla quale Cohle riesce, finalmente, a elaborare il lutto.
La catarsi dello spettatore coincide con quella dell’eroe tragico: la messa in scena del male assoluto, del dolore e della colpa ci induce a razionalizzarli e a portali al livello della coscienza, e quindi ad esorcizzarli. Nella amletica ricerca dell’identità abbiamo però scoperto che la contrapposizione fra Bene e Male non è più manichea e che gli eroi non hanno più il costume immacolato.
Hart: You ever wonder if you’re a bad man?
Cohle: No, I don’t wonder, Marty. The world needs bad men. We keep other bad men from the door[1].
Se Rust è consapevole dei propri lati oscuri – che esplodono con tutta la loro irruenza durante la rapina al quartiere dove risiede la gang rivale del biker Ginger [Who Goes There, S01E04] – e se ne serve per combattere i veri criminali (quelli moralmente spregevoli, che perseguono il male assoluto), conservando una certa integrità, Marty, invece, non si rende conto di essere tutt’altro che un brav’uomo – tradisce sua moglie Maggie, eccede nell’alcol, si rivela un padre distratto. Per questo Rust è forte, Marty no, e ha bisogno di lui per guardarsi allo specchio e riconoscere la sua vera natura. In altre parole sono cattivi, ma stanno dalla parte giusta. D’altronde, questo genere di personalità controversa è tipica dei personaggi che prendono su di sé il compito gravoso di tenere il male ai margini del mondo: un esempio su tutti è Sherlock Holmes, che con il detective Cohle condivide l’incapacità di integrarsi nella società e le dipendenze. Peccato che Marty Hart non abbia nessuna delle qualità di John Watson.