La tortura funziona, ok ragazzi? Sapete, ci sono questi tipi – “la tortura non funziona”. Credetemi, funziona. E il waterboarding è una forma minore. Alcuni dicono che non è davvero tortura. Ammettiamo che lo sia. Ma mi hanno fatto la domanda: che ne pensa del waterboarding? Assolutamente d’accordo. Ma dovremmo andarci giù molto più pesanti che col waterboarding. La vedo così. Stanno tagliando delle teste. Credetemi, dovremmo andarci giù molto più pesanti, perché il nostro paese è in difficoltà. Siamo in pericolo.
Donald Trump, Bluffton South Carolina, 17 febbraio 2016
1. La cosa che più stupisce di queste dichiarazioni di Trump è che siano possibili. Come è avvenuto che affermazioni del genere potessero essere espresse pubblicamente da un candidato poi eletto alla carica di Presidente degli Stati Uniti?
Rispondere che il successo di Trump si deve proprio alla sua sfida al “politicamente corretto” non aiuta. In senso stretto, il politicamente corretto sarebbe quel codice informale della comunicazione pubblica che impedisce di esprimere giudizi offensivi nei confronti di categorie di persone socialmente svantaggiate e che vale soprattutto per chi ricopre o si candida a ricoprire posizioni di potere e di prestigio. Ma negli usi che sono diventati correnti, il politicamente corretto non si riferisce più solo alla sensibilità verso le discriminazioni razziali, di genere o di altro tipo, e include molti altri valori fondamentali del costituzionalismo liberale e democratico: principi costitutivi della modernità giuridica e politica che sino a pochi anni fa nessuno, liberal o conservatore, avrebbe osato mettere in discussione, come la tutela dei diritti civili, il principio di legalità, il diritto a rivolgersi a un giudice, la laicità dello stato, il diritto di asilo, l’integrità fisica e la libertà morale dei detenuti e dei prigionieri. Se il successo di Trump e di altri leader populisti dipende in parte dalla sfida che muovono ai principi della correttezza politica, resta da capire come sia accaduto che tale sfida sia diventata desiderabile e spesso vincente.
La sfida di Trump al politicamente corretto è l’effetto, non la causa dell’erosione dei principi di correttezza politica.
È da notare che il concetto di politicamente corretto ha quasi sempre una valenza spregiativa. Chi lo usa per formulare giudizi, di solito stigmatizza e respinge i principi sottostanti, li bolla come segnali di riconoscimento per élites intellettuali prive di rispetto per i sentimenti dell’uomo comune, astrazioni per anime belle che non vogliono sporcarsi le mani. Chi non bada al politicamente corretto ama pensarsi come anticonformista e realista. Ma se è così, allora il politicamente corretto non è un impedimento all’espressione pubblica di opinioni lesive di principi fondamentali della convivenza civile – un codice in difesa di valori che sono sottratti al dibattito perché ritenuti intangibili, sacri – quanto il nome della banalizzazione di quei principi, della loro desacralizzazione o esecrazione pubbliche, rese evidenti dal fatto che sono sempre più oggetto di un discorso che li respinge e li ridicolizza: il politicamente corretto non esiste se non all’interno del discorso che tenta di liberarsene.
2. Per quanto riguarda la tortura, il tentativo di liberarsi dalle pastoie del politicamente corretto è riuscito, dopo gli attentati dell’11 settembre, a riaprire un dibattito sulla legittimità di questa pratica che si era concluso nel Settecento con la definitiva vittoria delle tesi abolizioniste dell’Illuminismo. Gli scritti di Thomasius, Beccaria, Filangieri, Pietro Verri, Sonnenfels, Voltaire, Jaucourt e tanti altri avevano espresso un giudizio conclusivo sulla tortura, o almeno così sembrava. Documenti fondativi del costituzionalismo come il Massachusetts Body of Liberties del 1641, il Bill of Rights inglese del 1689 e il Bill of Rights americano del 1791 avevano bandito per sempre le punizioni “crudeli e inusuali”. “Dopo la fine del diciottesimo secolo”, nota lo storico Edward Peters nel suo libro Torture, “la tortura era considerata l’antitesi istituzionale dei diritti umani, la nemica della giurisprudenza umanitaria e del liberalismo, la più grande minaccia al diritto e alla ragione che il secolo diciannovesimo potesse immaginare”. Nel 1840 Manzoni si riferiva alla tortura come a “cosa morta, e passata nella storia” e nel 1907 l’autore di una voce sulla tortura per l’Enciclopedia Britannica poteva scrivere con compiacimento che “l’intera materia ha ora solo un interesse storico per quanto riguarda l’Europa”. La condanna della tortura era infatti diventata unanime e universale. Il divieto di farne uso valeva sia in tempo di pace sia in tempo di guerra: il codice americano Lieber del 1863 e la vecchia convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra del 1929 l’avevano esclusa dal diritto bellico. Persino la Germania nazista aveva evitato di giustificare apertamente la tortura: la Gestapo vi aveva fatto ampio ricorso e l’aveva addirittura disciplinata nel dettaglio con ordini di servizio destinati, appunto, a restare segreti.
La seconda guerra mondiale aveva visto l’uso massiccio della tortura da parte delle SS, dell’esercito di occupazione tedesco e delle milizie fasciste, dimostrando a tutti “quanto possa regredire l’umana civiltà quando taluni cardini di ordine morale siano posti nel nulla” (Paolo Barile). Così, negli anni del dopoguerra si erano moltiplicate le dichiarazioni e le convenzioni internazionali contrarie alla tortura: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la nuova Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra del 1949, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, seguite poi dal Patto sui diritti civili e politici del 1966, dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura del 1987 e da altre ancora. Con questi documenti la gran parte dei paesi del mondo aveva rinnovato il proprio impegno ad abbandonare per sempre quella pratica. Secondo l’opinione prevalente fra i giuristi, il divieto di tortura era così diventato – e tutt’ora è – vincolante per tutti gli stati, anche per quelli che non lo accettino volontariamente, nonché un divieto assoluto, nel senso che non tollera eccezioni nemmeno in caso di guerra o di altro “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” o “circostanza eccezionale”, come recitano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Convenzione contro la tortura. Esplicite prese di posizione favorevoli alla tortura erano del tutto sporadiche seppure significative, come le conclusioni della commissione Landau sulle pratiche di interrogatorio dei servizi di sicurezza israeliani, che nel 1987 avevano giustificato l’uso di un “moderato grado di pressione fisica” sui sospetti di terrorismo – conclusioni recepite da una delibera del governo, ma respinte nel 1999 da una coraggiosa sentenza della Corte suprema israeliana.
Prima dell’11 settembre mancavano, insomma, tentativi di giustificare pubblicamente la tortura, se si escludono isolate eccezioni, quasi tutte provenienti dall’ambito accademico e politicamente inefficaci (come ad esempio un saggio del filosofo giusnaturalista Michael S. Moore). La condanna della tortura era un punto fermo nella nostra cultura giuridica e politica, uno standard irrinunciabile di decenza e correttezza politica. Anzi, l’universale ripudio della tortura rappresentava, assieme al ripudio della guerra, uno dei pochi segnali di quella tendenza dell’umanità al “costante progresso verso il meglio” (Kant) alla quale quasi nessuno poteva ancora credere dopo le tragedie del Novecento. Assieme al divieto di genocidio, omicidio, riduzione in schiavitù, stupro, etc., questo principio cardinale del costituzionalismo e del diritto internazionale esprimeva e dava forma giuridica all’idea per cui deve esserci un limite invalicabile a ciò che il potere pubblico può fare ai suoi soggetti, un nucleo di libertà morale la cui compressione da parte delle autorità implica la loro radicale delegittimazione, la rinuncia a ogni obbligo di obbedienza e di fedeltà: una soglia minima al di sotto della quale è certa la natura dispotica o apertamente dittatoriale del regime.
3. L’11 settembre ha riaperto la questione della legittimità della tortura. Si sono diffusi una serie di neologismi – unlawful enemy combatant, extraordinary rendition, targeted killing, enhanced interrogation technique – che in modo eufemistico indicano, e al tempo stesso nascondono, la violazione del diritto di rivolgersi a un giudice per un giusto processo, gli arresti, la detenzione e l’estradizione illegali, senza contestazione di accuse e garanzie di difesa, la creazione di tribunali speciali e di centri di detenzione off shore, l’assassinio e, naturalmente, il ricorso alla tortura.
Oppure la questione della legittimità della tortura è stata affrontata apertamente. È significativa a questo proposito la profusione di interventi che sulle riviste scientifiche, sulla stampa generalista e al cinema si confrontano con lo scenario della “bomba che ticchetta”: che cosa fareste sapendo che una bomba a orologeria sta per esplodere e che l’unica vostra fonte di informazioni è un terrorista che avete arrestato e che non vuole parlare? Come esperimento mentale, lo scenario della bomba che ticchetta può funzionare da procedura di investigazione filosofica sui presupposti e i limiti dei nostri giudizi morali, ma come base per politiche pubbliche è una ricetta per il disastro, perché basato su ipotesi del tutto irrealistiche o controverse, prima fra tutte che la tortura funzioni e produca informazioni attendibili. Ad ogni modo, lo scenario è stato ripreso e divulgato in ogni luogo come base di editoriali giornalistici, dibattiti nei talk show e drammatizzazioni cinematografiche, sino a raggiungere lo statuto di apologo morale caratteristico dell’età della guerra al terrorismo e di un nuovo senso comune “politicamente scorretto” in formazione.
Rispetto alla tortura è così intervenuto una sorta di terremoto etico, una grande trasformazione testimoniata da decine di film e serie tv che ci presentano di continuo con situazioni del tipo bomba che ticchetta nelle quali il ricorso alla tortura è doveroso, efficace e persino piacevole.
È un genere anticipato dall’Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (1971) in una scena che oggi potrebbe apparire quasi timida e delicata, e che esplode dopo l’11 settembre con serie come Lost, Homeland e soprattutto 24 Hours, film come Hard Candy, Unthinkable, Zero Dark Thirty e molti altri ancora. Senza concedersi giudizi troppo facili e cadere in un moralismo sciocco, è possibile ipotizzare che anche la diffusione di film come La passione di Cristo di Mel Gibson e dei prodotti del cosiddetto torture porn come Saw e Hostel, nonché di videogame che richiedono al giocatore di torturare i prigionieri, sia indice di una trasformazione dell’etica pubblica. Qui il sadismo di massa, la fascinazione estetica e quasi erotica per la riduzione delle persone a corpi liberamente disponibili, anziché confermare la legge che viola parrebbe essere un sintomo della sua evanescenza. Sono “gli Himmler di Hollywood”, secondo Žižek: il problema di prodotti come 24 Hours “non è il contenuto in sé, ma il fatto che ci venga detto apertamente. E questo è un triste segno di un cambiamento profondo nei nostri standard etici e politici”.
Ma la testimonianza più grave della normalizzazione della tortura nel senso comune è offerta dalla sua giustificazione da parte di intellettuali, giornalisti e leader politici: qualcosa di inaudito sino a pochi anni fa, e anzi di letteralmente osceno, perché la giustificazione della tortura non si svolgeva sulla scena pubblica ma, per utilizzare ancora la terminologia di Kant, avveniva solo nell’ambito di un “uso privato” della ragione da parte di politici, poliziotti e militari, autoproclamati salvatori della repubblica e difensori della ragion di stato.
Era impensabile che intellettuali e giuristi come Alan Dershowitz, Richard Posner e Adrian Vermeule proponessero di legalizzare le forme di interrogatorio basate sull’inflizione di sofferenza fisica e di sottoporle a una procedura giudiziaria – “è ok finché si resta entro certi limiti e si chiede una autorizzazione al giudice”. Ed era impensabile che esperti legali come John Yoo e Jay Bybee, in qualità di consiglieri della Casa Bianca, raccomandassero di non applicare le Convenzioni di Ginevra ai prigionieri di Al Qaeda e ai talebani, in base ad argomentazioni del tutto analoghe a quelle offerte dalla Germania nazista con riguardo ai partigiani, ai commando alleati e all’esercito sovietico. O che gli stessi esperti proponessero di interpretare il concetto di tortura in modo da escludere la deliberata produzione di dolore al di sotto della soglia estrema associata con “il danneggiamento di un organo, l’impedimento di una funzione corporea e persino la morte” – una definizione che potrebbe escludere lo stupro e altre brutalità atroci. Secondo questi giuristi, i poteri del Presidente degli Stati Uniti in qualità di Comandante in capo delle forze armate in tempo di guerra non sono limitati da alcuna legge umana, al punto che John Yoo, professore di diritto a Berkeley, è arrivato a sostenere che il Presidente potrebbe ordinare di schiacciare i testicoli del figlio di un prigioniero se lo ritenesse nell’interesse della sicurezza nazionale. Come è noto, le indicazioni di questi consulenti sono state in gran parte accolte dalla Casa Bianca provocando, come era prevedibile, ulteriori ondate di radicalizzazione islamista quando i trattamenti di Guantanamo e Abu Ghraib sono diventati di dominio pubblico.
Firme prestigiose del giornalismo conservatore come Charles Krauthammer si sono espresse a favore della legalizzazione della tortura, subito seguite da editorialisti italiani come Angelo Panebianco e Giuliano Ferrara – peraltro favorevoli non alla legalizzazione ma alla sospensione de facto dello stato di diritto per fronteggiare la minaccia terroristica (oggi, dopo l’attentato al mercatino di Natale a Berlino, Ferrara invoca una “Guantanamo europea”). Prima di Trump uomini politici come Dick Cheney, Donald Rumsfeld e lo stesso George W. Bush hanno giustificato il ricorso al waterboarding, quest’ultimo anche ponendo il veto presidenziale su una legge volta a vietarlo (“visto che rimane il pericolo, dobbiamo assicurare che i nostri agenti dell’intelligence abbiano tutti gli strumenti di cui hanno bisogno per fermare i terroristi”). La tortura è diventata un tema di dibattito pubblico sul quale, com’è inevitabile, le opinioni si dividono in favorevoli e contrari e su cui diventa allora interessante svolgere sondaggi: oggi circa metà degli americani si dice favorevole alla tortura e solo un terzo contrario, contro il 65% dei contrari nel 1999, secondo un sondaggio commissionato dalla Croce Rossa. Insomma, le dichiarazioni di Trump sulla tortura sono diventate non solo possibili, ma probabili e capaci di raccogliere ampio consenso.
4. Perché l’apertura di un dibattito sulla legittimità della tortura è di per sé inquietante? Dopotutto, sappiamo che la validità universale e suprema del divieto di tortura non ha fatto venir meno le violazioni: non è coincisa, cioè, con la sua assoluta e uniforme efficacia. Un libro di Darius Rejali, Torture and Democracy, contiene una rassegna delle pratiche di tortura in epoca contemporanea e una dettagliata distinzione fra stili di tortura – francese “classico” e “moderno”, anglosassone, slavo e mediterraneo “moderni”, sovietico e israeliano – caratterizzati in base alle varie combinazioni di elettroshock, annegamento, asfissia, assideramento, deprivazione del sonno e sensoriale, uso di droghe e agenti irritanti, pestaggi, percosse sui piedi, torture posizionali, abusi sessuali, ecc. Il libro dimostra l’esistenza di “una lunga, ininterrotta eppure largamente dimenticata storia della tortura praticata dalle democrazie a casa propria e all’estero, una storia che risale a circa duecento anni fa e che coinvolge le principali democrazie dei tempi moderni” (ivi, p. 4). Si potrebbe quindi concludere che il principale risultato del divieto di tortura è stato quello di costringere le democrazie a inventare tecniche di tortura “pulite”, che non lasciano segni visibili sul corpo delle vittime, tecniche che nel corso del Novecento hanno raggiunto una diffusione globale. L’Occidente è stato all’avanguardia sia nel vietare la tortura, sia nell’inventare nuovi mezzi di tortura che consentono di aggirare il divieto o di rendere invisibili gli effetti delle sue violazioni. Perché, allora, dovremmo preoccuparci del fatto che la questione della legittimità della tortura sia ritornata in auge, dopo secoli di oblio? Dal momento che la si utilizza di fatto, si può sostenere che sia bene che se ne discuta apertamente.
Il punto è che la prassi della tortura non è stata estirpata ma è rimasta precisamente questo: una prassi, un insieme di comportamenti – certo non accidentali, sporadici e solo “devianti” – non sorretti da una pretesa di legittimità formale. Gli apparati che vi hanno fatto ricorso non l’hanno potuta rivendicare pubblicamente, non hanno aperto un dibattito sulla accettabilità di un trattamento che hanno invece tentato per quanto possibile di mantenere segreto. Perciò la funzione del divieto di tortura non è solo di celarne ipocritamente l’impiego. Vietarla vuol dire costringere i torturatori a nascondersi, ostacolare l’organizzazione della tortura come metodo sistematico, impedire la sua istituzionalizzazione come legittimo strumento investigativo, mezzo di prova o forma di punizione correnti. Vietarla significa rendere possibili certe forme di denuncia e protesta contro la tortura da parte dei mezzi di informazione, associazioni e movimenti sociali, partiti politici e organizzazioni internazionali impegnate nel monitoraggio di questa pratica. Vietarla significa rendere doverose certe forme di risposta istituzionale alla tortura da parte delle autorità pubbliche, della magistratura, della comunità internazionale. Se la tortura è illegale, il fatto che singoli agenti o interi apparati di stato vi facciano ricorso è quantomeno una informazione interessante per l’opinione pubblica, le istituzioni politiche e il sistema giuridico. Ciò, sappiamo bene, non consente di debellarne la pratica, ma impedisce che diventi del tutto irrilevante e consueta.
5. È importante tenere ben presente che il problema della legittimità della tortura non è solo americano, ma anche europeo e italiano, e non riguarda solo la gestione della guerra al terrorismo fuori dai confini nazionali, ma anche il nostro diritto e ordine pubblico interni. Del resto, se in Italia non ci fosse una cultura della tortura, una pratica della tortura accompagnata da giustificazioni persino pubbliche, non si spiegherebbe lo scandalo della mancata introduzione del delitto di tortura, in aperta violazione dell’art. 13, 4° comma Cost. (“È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”) e degli impegni internazionali assunti dal nostro paese già con la ratifica nel 1988 della Convenzione sulla tortura.
Nel diritto italiano, come tutti ormai dovrebbero sapere, la tortura è punita solo in quanto risulti da altri reati (minacce, percosse, lesioni, arresto arbitrario, abuso di autorità contro detenuti, ecc.) che spesso sono procedibili a querela e hanno termini di prescrizione brevi. Quindi in molti casi le vittime di tortura non riescono a essere risarcite, i torturatori restano impuniti e, per i fatti commessi all’estero, non possono essere estradati – come nel caso del prete di Sorbolo, accusato di aver partecipato alla repressione dei dissidenti sotto il regime di Videla in Argentina. Sappiamo, inoltre, che la tortura non è ignota alle nostre forze dell’ordine, come dimostrano i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto durante il G8 di Genova, le morti di Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e Stefano Cucchi, il caso di Giuseppe Gulotta, che ha trascorso ventidue anni in carcere per una confessione falsa estorta con la tortura nel 1976, la vicenda dei cinque brigatisti ai tempi del sequestro Dozier – picchiati e torturati con acqua e sale, la donna stuprata con un manganello, a quanto pare ad opera di un gruppo specializzato della polizia di stato, “i quattro dell’Ave Maria” –, le brutalità seguite alla repressione della rivolta nel carcere di San Sebastiano a Sassari nel 2000, per cui Valentino Saba ha ottenuto un risarcimento dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, i casi di Claudio Renne e Andrea Cirino, ripetutamente torturati nel carcere di Asti nel 2004, e di Dimitri Alberti, la cui denuncia del 2010 fu subito archiviata dalla Procura e dal GIP di Verona e per il quale nel 2014 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea al risarcimento dei danni. E poi ci sono altri casi ancora su cui le autorità non hanno voluto o potuto fare chiarezza e che non sono diventati di dominio pubblico.
Questa situazione ha provocato numerose raccomandazioni internazionali affinché l’Italia si dia strumenti idonei a punire in maniera adeguata i responsabili di tortura: da parte del Comitato dei diritti dell’uomo e del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, da parte del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e infine da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza di condanna dell’Italia per i fatti della scuola Diaz durante il g8 di Genova.
Insomma, c’è un grave vuoto di protezione per le vittime di tortura e un chiaro segnale di impunità, che si rinnova da quasi trent’anni ogni volta che un progetto di legge volto a introdurre il reato di tortura viene lasciato cadere nel nulla: da ultimo, nel luglio 2016, dal governo Renzi e dal ministro Alfano, a seguito dell’attentato terroristico di Nizza e delle proteste dei sindacati di polizia.
I dibattiti sollevati dai tentativi di criminalizzare la tortura rappresentano a volte casi paradigmatici della giustificazione pubblica della tortura. Così Matteo Salvini, ad esempio, ha dichiarato che “ci vuole libertà di azione assoluta per polizia e carabinieri. E se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo per il collo, e se si sbuccia il ginocchio o si rompe una gamba, cazzi suoi, evita di fare il delinquente così non si sbuccia il ginocchio e si rompe una gamba”. Altro che Trump. No, decisamente la questione della legittimità della tortura non riguarda solo gli americani e la lotta al terrorismo internazionale.
6. La pervicace resistenza all’introduzione del crimine di tortura da parte della classe politica è significativa di un senso comune politico e giuridico in dissoluzione. Siamo, d’altra parte, in un’epoca di “populismo penale”, in cui ogni domanda sociale è tradotta dal sistema politico in termini di criminalizzazione di nuove condotte e la repressione penale è usata in chiave di rassicurazione sociale, per raccogliere facile consenso elettorale. La tortura no, è evidente che non preoccupa, e invece preoccupa che si vogliano imporre lacci e lacciuoli alle forze dell’ordine e all’esercito.
Di fronte a questa situazione la filosofia non può continuare a lambiccarsi con esperimenti mentali del tipo bomba che ticchetta. La realtà offre già abbastanza su cui riflettere per chi non è interessato solo alla grammatica del ragionamento morale. L’alternativa rilevante, almeno sul piano pratico, non è fra prese di posizione pragmatiche o ispirate ai principi, fra etiche consequenzialiste o deontologiche, fra utilitarismo o liberalismo, fra realismo politico o costituzionalismo, fra relativismo o assolutismo morali. Ognuna di queste posizioni, presa con un grano di sale, non può che escludere la legittimità della tortura. L’alternativa non è fra essere brutali ma prudenti, oppure buoni ma stupidi: la tortura è sia brutale sia stupida.
Quando è usata come strumento di indagine, la tortura è stupida perché la migliore fonte di informazioni per le autorità, oltre alla sorveglianza, è la cooperazione da parte della popolazione, che la tortura ostacola e interrompe. La tortura e gli omicidi mirati non spengono ma radicalizzano il conflitto, suscitando ondate di indignazione e odio da parte dei popoli brutalizzati. Inoltre, come già sapevano Aristotele (Rhet. I 15, 1376b-1377) e Cicerone (Pro Silla 78), Quintiliano (Inst. III 5.10; V 3 e 4), Ulpiano (Dig. 48.18.1.23) e Agostino d’Ippona (Civ. Dei. XIX 6) e come oggi confermano gli studi di neuroscienze e gli stessi vertici militari e di intelligence americani, la tortura tende a estrarre informazioni false, che possono sviare le indagini. Chi è sottoposto a tortura può essere innocente e quindi privo di informazioni, oppure colpevole ma non sincero, oppure può essere colpevole e sincero ma dare informazioni erronee perché la tortura altera la memoria, produce dimenticanze e falsi ricordi. E i torturatori tendono a trasformarsi in fanatici e in sadici: presto le loro capacità professionali e obiettività di giudizio diventano minime. Insomma, come conclude Rejali in Torture and Democracy, “la tortura organizzata raccoglie informazioni cattive, travolge molti innocenti, degrada le capacità organizzative e distrugge gli interrogatori. I tempi stretti durante una battaglia o una emergenza intensificano tutti questi problemi”.
E poi la tortura è brutale e odiosa. Oltre a provocare sofferenze atroci, nega la comune umanità delle vittime, che riduce a involucri di carne pieni di dolore e privi di volontà e ragione. In modo totalizzante e intimo, occupa il loro mondo e distrugge la loro libertà. La tortura calpesta anche la dignità dei torturatori, di cui corrompe il carattere, compromette il giudizio, offende il senso di umanità e cancella le ragioni, se presenti. La tortura, essendo diretta a spezzare il nemico e a terrorizzare la popolazione, impedisce qualsiasi forma di azione politica pacifica: rende la politica impossibile, se non nella forma di una guerra senza limiti. E per il diritto rappresenta una soglia di non ritorno, che ne perverte lo spirito, ne denuncia l’ipocrisia, disconosce la dignità dei suoi soggetti, annulla la distinzione fra uso legale della forza e scatenamento di una violenza senza regole; superata tale soglia, lo stato di diritto si riduce a una forma vuota, alla mera burocratizzazione della crudeltà.
Queste dovrebbero essere cose ovvie e in effetti nessuno vorrebbe occuparsi di questo tema. Già Montesquieu, nello Spirito delle leggi (VI 17), si rifiuta di parlarne. Dopo aver affermato che forse la tortura potrebbe convenire nei rapporti fra i padroni e gli schiavi in una repubblica non moderata, oppure in un regime dispotico, “in cui tutto quello che ispira la paura entra di più nei metodi del governo”, interrompe la riflessione e lascia la frase a metà perché, scrive, “sento la voce della natura che grida contro di me”. È triste che oggi un senso comune accerchiato, dappertutto sfidato, ridotto a politicamente corretto, sbeffeggiato dagli imprenditori del terrore, costringa chi è chiamato a parlare della tortura allo sforzo di risvegliare, evocandola come uno spettro, quella voce della natura che più non grida contro di noi. Ma della tortura bisogna parlare, sempre, non si deve smettere di parlarne. Bisogna ricordare i fatti, registrare i nomi, richiamare alle responsabilità e tentare di tenere in vita un lume di buon senso in questi tempi preoccupanti.