Nel leggere il titolo di questo libro, “Uè Africa”. Diario di un marocchino” di Youssef al-Hirnou, edito da Book Sprint, mi è venuta in mente un’altra espressione, “Uè Napuli”, utilizzata negli anni ‘50 e ‘60 dai piemontesi per indicare tutti i meridionali che emigravano nel Nord Italia, con le loro valigie di cartone chiuse con lo spago. Allora il richiamo del boom economico rappresentato a Torino dalla FIAT (oggi FCA) costituiva il “sogno” di tutti gli uomini e le donne del Meridione che desideravano assicurare ai propri figli prospettive di benessere che il Sud ancora legato a una economia rurale non era in grado di dare loro. Per costoro l’accoglienza non fu esaltante e, ancora oggi, si sentono gli echi di quei cartelli razzisti, rimasti indelebili nella memoria collettiva, del tipo “non si affitta ai meridionali” etc…
Oggi quei “meridionali” sono gli immigrati stranieri, gente che “puzza”, è “diversa” e “che ruba il lavoro”. Questo è quello che emerge dal racconto autobiografico del marocchino al-Hirnou, una storia simile a quella di tanti italiani del Sud Italia in passato e di tanti immigrati stranieri di oggi, narrata attraverso le lenti di un’altra cultura, un’altra lingua un altro sistema di riferimenti. Nel raccontare la sua storia, dall’infanzia all’età adulta, senza tralasciare alcun minimo dettaglio all’improvvisazione, l’autore ci fa vivere i conflitti interiori, le sensazioni, piacevoli e non, scaturiti dalla lotta che lui stesso combatte, tra essere sé stesso o essere come gli altri vogliono che egli sia.
Tra l’“assimilarsi” a una cultura e a una mentalità che non gli appartengono del tutto e a cercare di “integrarsi” valorizzando la sua diversità, l’autore affronta diverse tematiche che vanno dal razzismo alla violenza domestica, dal bullismo alle problematiche legate al tema dell’immigrazione.
Di grande carica emotiva è il racconto del suo rapporto col padre e la madre, che se pur distanti dal loro paese d’origine, mantengono inalterata la divisione dei ruoli e tutto ciò che ne consegue, come se vivessero ancora in Marocco. Tra le pagine si percepisce la sofferenza di Youssef che non riesce a essere sé stesso, a causa di un modo di vivere duplice, una vita “fuori” dove le sue origini vengono camuffate o addirittura cancellate e una vita “dentro”, cioè all’interno del suo spazio familiare in cui la Tradizione non può incontrare la Modernità.
Significativo è questo passaggio: “Per anni e fino a poco tempo fa ho avuto una visione della vita totalmente distorta, una verità tramandata nell’ignoranza e nella disinformazione, nella paura e nella sofferenza celata. Fin da bambino tutto ciò che mi circonda cerca di raccontarmi una storia a cui dovrei credere senza pormi domande, per vent’anni sono stato accecato da una paura tradizionalista, ho messo a tacere le domande della ragione, ma le grida del buonsenso prima o poi riprendono il sopravvento e toccherà a te trovare le risposte che non hanno mai voluto darti”.
Operaio FIAT fin dalle scuole superiori, Youssef ha un grande sogno, quello di diventare scrittore e, se lo diventerà, lo dovrà sicuramente alla sua caparbietà ma anche a quell’Italia, spesso razzista, ma da cui ha tratto una grande lezione: “Ho imparato a 24 anni che la tradizione non si può cambiare, le mentalità non si possono rivoluzionare, ma ciò che assolutamente non si deve commettere è l’errore di arrendere il proprio animo ad esse.”