Abbiamo visto Un gelido inverno (Winter’s Bone) diretto da Debra Granik.
Tratto dal bel libro di Daniel Woodrell (pubblicato in Italia da Fanucci) questo film indipendente ci regala uno spaccato della provincia più impenetrabile degli Stati Uniti. Un luogo quasi metafisico dell’anima, dove la durezza del vivere e la povertà estrema sono la norma e dove il sogno americano non giunge nemmeno come eco durante una bufera. Un ritratto degli Stati Uniti che può sembrare impossibile e dove anche il tempo sembra aver abbandonato questi figli, ma che ci fa capire un po’ di più da dove proviene quell’insensata violenza che poi esonda nelle guerre coloniali che questo Paese fa. E non c’è nessuna via di scampo, se non forse il tentativo di fuggire via; anche l’apparente baluardo della famiglia è presentato come un carcere a cielo aperto, che schiaccia ogni sentimento e ogni tentativo. L’autore del romanzo (poco conosciuto anche da noi) si può ascrivere a quel tipo di letteratura detta Mainstream, cioè narrativa non di genere ma comunque a volte di tendenza. L’autore più conosciuto del genere è stato il compianto Charles Bukowski, ma bisogna segnalare autori come Breece Dexter John Pancake (morto suicida a soli 27 anni – autore del solo racconto Trilobiti) e Donald Ray Pollock (da ricordare Knockemstiff). La regista Granic riprende il romanzo, senza rischiare di cadere in quel Cinema intellettuale alla Von Trier (Dogville) o alla Herzog e alla Wendes, lo assesta su un immaginario tipico americano della provincia più profonda, in cui ci sono case che sono baracche, cibo scarso e scadente che ricorda la Grande Depressione, uomini soli, selvaggi e anche criminali, donne che sembrano aver perso qualsiasi femminilità, tutti bevono, si drogano e ascoltano musica country.
Siamo in una zona montuosa del Missouri, Ree Dolly è una diciassettenne, cresciuta troppo in fretta e senza speranze, che si sforza di mandare avanti la famiglia composta da una madre malata e silente e due fratellini piccoli e teneri, mentre il padre è in carcere per fabbricazione e spaccio di metanfetamine (una delle droghe peggiori e disgraziate). Riceve un po’ di cibo dai vicini appena un po’ meno poveri, è costretta a cedere il cavallo, a riscaldarsi con la legna che lei stessa taglia: ha un solo piccolo sogno, se entra nell’esercito avrà soldi sufficienti per mantenere la famiglia. Un giorno, lo sceriffo si presenta a casa: il padre è uscito di prigione garantendo la proprietà come cauzione e se non si presenterà al processo la casa verrà confiscata entro pochi giorni. Ree non si scoraggia e si mette alla ricerca del padre iniziando un viaggio tra la desolazione di luoghi montani immersi nella nebbia, luoghi al temine del mondo, bar e un universo di marginali e ottusi esseri umani che non la vogliono aiutare ma anzi cercano di non far emergere la verità. Anche i parenti le impediscono di scoprire la verità, la trattano male e per poco non decidono di farla fuori. Ma Ree andando di casa in casa, di losco figuro in donne arse dalla violenza e di minaccia in minaccia, riesce a scoprire il mistero, d’altronde non può rinunciare alla casa perché se la perdesse i fratellini verrebbero portati via in qualche orfanotrofio e per lei, i piccoli, sono tutto il suo mondo e la sua forza.
Un film durissimo e potente, dallo stile cupo e dal linguaggio asciutto, con un cast d’attori d’eccellenza. E’ stato candidato a ben 4 Oscar: Miglior Film, Miglior Attrice Protagonista (Jennifer Lawrence), Miglior Attore non Protagonista (John Hawkes) e Miglior Sceneggiatura non Originale (Debra Granik, Anne Rosellini), ma non ha ottenuto nessun riconoscimento anche perché quest’anno i premi sono stati una melassa imbarazzante, il trionfo dell’inconcludenza e della modestia. Comunque ha ottenuto il premio come miglior film e miglior sceneggiatura al Sundance Festival.