Abbiamo visto Un giorno questo dolore ti sarà utile regia di Roberto Faenza.
Prendete un buon romanzo dello scrittore gay Peter Cameron (vincitore di due prestigiosi premi letterari già a soli 26 anni, il suo primo libro, In un modo o nell’altro – One Way or Another, è del 1987, mentre Quella sera dorata è del 2006 e Ivory ne ha tratto un bel film nel 2009), tenete presente il classico romanzo di formazione: disagio adolescenziale, insicurezza identitaria, bisogno di autorità genitoriale, senza tuttavia pensare al Giovane Holden con cui divide soltanto l’ambiente alto borghese metropolitano e il fatto che in un momento di angoscia il ragazzo si permette un albergo da settecento dollari a soli 17 anni, a questo aggiungete un regista fuori dagli schemi classici italiani (Copkiller, Mio caro dottore Grasler, Prendimi l’anima ma anche Il delitto di via Poma), con una curiosità e un talento in controtendenza ma senza tocchi autorali alti ed ecco un film come Un giorno questo dolore ti sarà utile. Con un buon cast ma non eccelso, una bella fotografia ma non da Oscar, una sceneggiatura corretta che ha seguito di pari passo il libro senza tuttavia approfondire i due ‘ temi ‘ forti del film, e il risultato è un film fondamentalmente televisivo, senza particolari segnali da lasciare allo spettatore.
Nel libro si intuisce garbatamente che l’insofferenza verso il mondo, del giovane James, nasce dall’ancora irrisolto e volutamente inconfessato desiderio omosessuale, ma c’è anche il suo attaccamento ai buoni valori morali e affettivi che purtroppo nella sua famiglia sono seriamente a rischio, come lo sono nel mondo che lo circonda, mentre – sullo sfondo – c’è anche la ferita che quel Paese ha ricevuto l’11 settembre del 2001. Beh, di tutto questo c’è ben poco e la sua famiglia sembra più il ritratto parallelo di un film di Muccino, con uno spruzzo di Sorpasso qualche decennio dopo. Insomma un buon film televisivo, elegante nella fattura, un po’ cool, senza falsi moralismi, ma un po’ piatto e prevedibile. Peccato, perché l’operazione poteva essere coraggiosa anche tenendo presente le difficoltà produttive che hanno oggi i registi italiani anche quando sono “all’estero”.
James è un diciottenne che forse sogna il suicidio come gesto di liberazione da tanti conformismi. Ha finito la scuola da un po’ e non vuole andare all’università, ha fatto un tentativo ma è scappato via annichilito dalla superficialità e la leggerezza dei suoi coetanei. Vive in una bella casa su tre piani a New York, con la mamma, un’antiquaria che si è appena sposata per la terza volta e il cui matrimonio è durato un paio di giorni, il suo nuovo marito è un giocatore di poker compulsivo che si è fregato, la prima sera di nozze, la carta di credito di lei per andare a giocare e a vedere una lapdance. E con una sorella poco più che ventenne che ha una relazione con un cinquantenne, professore di teoria del linguaggio, colto, sposato, piuttosto indifferente e un po’ paterno. Il padre distante invece lotta contro le rughe, gira in Porsche e rimorchia ventenni stratosferiche; un classico Peter Pan, tanto simpatico quanto cazzaro.
James non sa bene cosa fare della sua vita priva di amici, con una famiglia sconclusionata e senza punti di riferimento; fatta eccezione per la nonna materna, Nanette, che lo asseconda e lo sprona a rischiare nella vita. Fa finta di lavorare nella galleria d’arte della madre, dove non entra quasi nessun cliente: difficile vendere opere di tendenza di questi tempi, come le pattumiere fumose e sonore dell’artista giapponese che vuole restare Senza Nome. I suoi genitori, anche se non si vedono mai e vivono in modo completamente differente, hanno un solo pensiero in comune mandare il loro figliolo in una università d’elite ma James rinvia ostinatamente, allora corrono ai ripari e gli fissano un incontro con una life coach (una psicologa, praticamente) che gli possa indicare la via per il successo sociale.
Naturalmente il ragazzo accetta una sola volta di vederla e solo perché è ben educato, poi spinto dalla nonna, prende coraggio su un suo sogno, va a cercarsi una casa nella natura per poter vivere da solo, leggere libri e lavorare il legno, ma per sua fortuna le due agenti immobiliari gli mostrano una casa fatiscente e ridicola e lui scappa via.
Un giorno James scopre che John, il direttore della galleria e suo complice di assenze sul lavoro, chatta con cuori solitari gay e, un po’ per solitudine e un po’ per scherzo, gli si presenta subito sotto falso nome, si inventa di essere un gallerista importante gay, e accetta un invito ad una festa proposto da John. Ma il gallerista quando lo vede si arrabbia ferocemente per lo scherzo e si licenzia anche dal lavoro. Intanto la madre fa yoga, ripete la parola amore e respira incenso, il padre pensa che suo figlio sia gay anche perché non mangia le bistecche, sua sorella pensa di scrivere una autobiografia ed è piantata dal fidanzato e alla porta si presenta il terzo marito della madre pentito e disperato. In tutto questo ballo mascherato dell’esistenza, dove tutto è corretto e niente è vero, James riprende a frequentare la life coach e grazie a lei e a un dramma vero che capita in famiglia non ha più le sue inquietudini.
Il bel titolo del film? E’ una frase della nonna che dice al nipote per togliergli il malessere del vivere.