UN LABIRINTICO SORRENTINO TRA IL PARADOSSO AUTOCOMPIACIUTO E LE CADUTE DI STILE
Che Napoli ha portato in concorso Paolo Sorrentino a Cannes con “Parthenope”? Si potrebbe dire che il film è una nuova tappa nel lungo e contraddittorio viaggio con cui vuole farci «vedere» la sua città (e alla fine del film l’uso del verbo «vedere» si colorerà di significati importanti). Ma si potrebbe anche dire che “Parthenope” è un nuovo muro del labirinto che il regista sta costruendo intorno alla sua idea di Napoli, come per impedirsi di trovare una via d’uscita. Si potrebbe dire che Sorrentino continua a fare i conti con il fantasma di La Capria e di “Ferito a morte”, il libro che voleva trasformare in un film e che torna a far pesare la sua ipoteca dentro il suo cammino d’autore (tutta la prima parte, con Celeste Della Porta nel ruolo di Parthenope, prima a Napoli poi a Capri, sembra una rilettura/riflessione su quel romanzo fondativo).
Ma si potrebbe anche dire che quell’eredità letteraria è qualcosa da cui Sorrentino vuole prendere le distanze, cancellandola nella seconda parte del film, dopo il suicidio del fratello (Daniele Rienzo) di Parthenope e trasferendo il suo bisogno di capire Napoli negli sforzi della protagonista per intraprendere una singolare carriera accademica insieme a un ancor più singolare professore di antropologia (Silvio Orlando). E si potrebbe continuare ad accumulare contraddizioni… Nel voler fare i conti con il mistero della napoletanità, Sorrentino sembra alla ricerca di immagini — meglio: di corpi — più che di una forte forma narrativa.
Pur seguendo la vita di Parthenope dal 1950 al 2023, il film procede per giustapposizioni, per antitesi, per improvvise omissioni e per farlo colleziona facce e personaggi, più o meno debitori di quella visione un po’ délabré e grottesca – Napoli non nasconde anni e rughe – che è una delle immagini di marca del regista (ricordate la laida baronessa Focale di “È stata la mano di Dio”? Qui in potenza ce n’è un intero catalogo, specie nella festa finale). Ma finendo per cedere al fascino carnevalesco, rischiando di ridurre il cinema a un catalogo di corpi e di vestiti.
Sorrentino è un regista che vuole sempre giocare con questa “imagerie d’Épinal” che lui stesso ha costruito e che poi non può trattenersi dal mettere in farsa se non addirittura in sberleffo, come nell’episodio del miracolo col sangue di San Gennaro e poi con la visita che Parthenope fa al tesoro del santo, specie di discesa pseudo felliniana nella falsa coscienza di un cardinale (Peppe Lanzetta) fin troppo legato ai piaceri della carne e alle apparenze della mondanità.
Quasi timoroso di arrivare (o proporre) una qualche sintesi, Sorrentino cerca una via di fuga in una battuta o in una frase, in un incontro che deve accendere meraviglie e stupore (Fanny Ardant in “La grande bellezza”, qui John Cheever interpretato da Gary Oldman, assediato dalle bottiglie svuotate dal suo alcolismo), in un gusto che diventa a volte paradosso autocompiaciuto, rischiando la caduta di stile (la pseudo Loren calva e sguaiata affidata a Luisa Ranieri o l’insegnante di recitazione col viso rovinato dalla chirurgia di Isabella Ferrari che si rimbalzano la passione per il sesso anale: perché?).
E alla fine il film ci chiede di fare i conti con una malinconia che è rimpianto per cose non godute fino in fondo (Celeste non è mai soddisfatta delle sue scelte) ma anche col compiacimento per una vita che nonostante tutto sa andare avanti, senza però cancellare la nostalgia per i personaggi più rotondi di “È stata la mano di Dio” (di cui questo film è una specie di controcanto «oggettivo»).