È veramente difficile fare un necrologio di Umberto Eco. Probabilmente nella glossa di qualche suo saggio, in qualcuno delle migliaia di articoli che ha sparso in più di sessant’anni di pantagruelica attività intellettuale, ci sarà un piccolo breviario su come scrivere un necrologio, un’analisi della retorica che sottostà ai discorsi che componiamo congedandoci dalle persone che ci sono state care.
Essere orfani di Eco vuol dire anche questo: rendersi conto che in un qualche modo siamo stati non solo formati dalla sua intelligenza, ma che siamo stati e siamo ancora parlati da lui. Molte delle categorie che usiamo (vedi: apocalittici e integrati), dei concetti che ci sono familiari (lo stesso termine fenomenologia è stato da lui sdoganato, a partire dal famoso saggio su Mike Bongiorno), e anche delle abitudini che abbiamo nell’approcciarci a un testo come lettori o come scrittori (che poi, grazie a lui, abbiamo capito sono due cose molto simili) sono state definite dalla sua capacità d’investigare quel mondo in cui viviamo, che altro non è che, lo ammetterà ormai chiunque abbia uno smartphone in mano, una foresta di segni.
Come si scrive un buon necrologio? È la tipica domanda che Eco avrebbe insegnato a farci porre. Perché – come diceva Ludwig Wittgenstein – la filosofia non serve a dare risposte ma a chiarire, a riformulare meglio, le domande. Umberto Eco ha fatto questo, e meravigliosamente, per più sessant’anni: ha riformulato, articolato, sezionato migliaia di questioni in ogni disciplina del sapere, in ogni aspetto del dibattito pubblico, e l’ha fatto con una chiarezza paradigmatica.
Cosa accade quando leggiamo? Cosa ci convince e cosa no di un certo messaggio pubblicitario? Cosa ha fatto infatuare gli italiani di personaggi come Mussolini o Berlusconi? A cosa servono gli elenchi? In cosa consiste la traduzione di un testo? Quale è il valore del gioco? Come funziona il meccanismo della comicità? sono il genere di domande abbiamo imparato a rivolgere a noi stessi, provando a fare un po’ nostra la sua prospettiva.
Uno sguardo che non univa semplicemente un’invidiabile intelligenza diagnostica, una determinazione da vero liberale nello schierarsi nel dibattito politico (fino alla recente questione Mondazzoli che toccava le sorti dell’editoria e della sua casa editrice, la Bompiani, di cui era stato condirettore editoriale), un insuperabile nitore argomentativo (rileggete, per esempio, questo articolo del 2013 in cui riassume il proprio percorso filosofico dalla tesi sull’estetica di San Tommaso fino alle recenti polemiche filosofiche, domandandosi di cosa parliamo quando parliamo di realismo) e un’ammirabile inventiva poetica (prendete, oltre i suoi romanzi, la sua versione ad esempio degli Esercizi di stile di Raymond Queneau), ma che costituiva un modello etico di conoscenza: a cavallo di una lunga fase tra novecento e nuovo secolo che ha visto la crisi e la morte delle ideologie e la riviviscenza dei fondamentalismi, la sua radicale laicità ha aspirato sempre a una democrazia che fosse il luogo del conflitto delle interpretazioni e delle identità in trasformazione.
In un articolo di qualche anno fa Stefano Salis provava a farne un ritratto a partire da alcune appellativi: Eco era mandrogno – ossia possedeva quella caratteristica che si attribuisce agli abitanti di Alessandria, sua città natale, per indicare un’astuzia popolare che mischia alla vivacità di ingegno. Ma Eco era anche Dedalus, il soprannome joyciano che si era scelto per firmare i suoi primi interventi politici (qui la sua reazione al famoso articolo di Pier Pasolini sull’aborto) e quelli ludici. E seguendo un libro di Michele Cogo, Fenomenologia di Umberto Eco, Salis trovava in “brillante” un aggettivo che da metà degli anni cinquanta diventò di uso comune per indicare qualcosa di veramente inedito: era “brillante” l’acqua Recoaro nella pubblicità, ma era davvero brillante Umberto Eco nel plasmare un esempio di intellettuale che potesse essere al contempo un modello di didattica e uno scrittore da best-seller planetari.
Si può leggere interamente on line Fenomenologia di Umberto Eco, ed è allora divertente farlo non solo per ricostruire l’evoluzione di quell’infinita mappatura che è stata la sua carriera di studioso, ma anche sua presenza nell’immaginario contemporaneo. Da quando Newsweek gli dedicò una copertina sulla scia del successo del Nome della rosa, battezzandolo “The code breaker” alle storie di Topolino ispirate ai suoi romanzi alle caricature di Tullio Pericoli: i suoi grandi occhiali, la sua barba, la sua pipa, la sua mise giacca cravatta e gilet, la sua aria meditabonda hanno costruito essi stessi un’icona dell’umanità riflessiva, l’immagine di cosa oggi ci aspettiamo dalla figura di un intellettuale.
E se dobbiamo – come ci ha insegnato lui – leggere Eco come un testo, è interessante trovare nel libretto di Cogo le occorrenze degli attributi che già nei primi anni delle sue attività gli erano associati: erudito, enciclopedico, fuori dagli schemi, analitico, spiritoso, frizzante, rigoroso, provocatore, rivoluzionario, apripista, divulgativo. O provare a definire i confini dei suoi interessi a partire dagli argomenti dei convegni ai quali era invitato: architettura, arti visive, storia dell’arte medievale, arte contemporanea, semiotica dell’arte, didattica, bibliofilia, biblioteconomia, cinema, critica letteraria, narratologia, cultura di massa, design, editoria, editoria di settore, estetica medievale, filosofia, fotografia, fumetto, internet, informatica, scuola, univesità, lettetatura, mass-media, politica, psicologia, museologia, religione, studi biblici, storia dei gesuiti, unione europea, mondo islamico, relazioni internazionali, pubblicità, ambiente, etica aziendale, marketing, illuminazione, la donna nella vità pubblica, moda, libertà, musica jazz, paranormale, progettazione del paesaggio, profumi, qualità della vita, storia della medicina, storia di Milano, tossicopendenza, terzo mondo, e anche – per finire – la sua vita privata.
Già, in questa vertigine della lista che è il catalogo degli interessi di Umberto Eco, alla fine manca proprio quel che ora ci servirebbe per compensare la mancanza enorme della sua plenitudo: che cosa vuol dire morire? è la domanda che vorremmo ci ritraducesse, un’altra delle infinite domande che gli si vorrebbe poter continuare a girare.
Nel 2009 Eco scrisse un articolo sulla vicenda di Eluana Englaro. Con la solita limpidezza, enumerava i valori le contraddizioni nelle dichiarazioni di chi con più o meno cautela discettava del destino della ragazza in coma. Ma alla fine compiva un passo laterale, segnando un limite a se stesso, al coraggio davvero instancabile della sua ragione, e scriveva:
Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l’hanno amata più di quanto l’abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all’amore che una morte può incarnare. “Laudato s’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale, – da la quale nullu homo vivente po’ skappare: – guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; – beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, – ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
Oltre che un’infinita ammirazione, che quest’amore non ti manchi.