Sarò onesto con te, “I’m bad news for you”, dice il barbuto Dan all’inizio di “Zero Dark Thirty”, il film di cui tutti parlano, in America. La “bad news” è una lunga scena di un interrogatorio che Frank Bruni, sul New York Times, ha descritto così: “Un detenuto appeso per i polsi, umiliato sessualmente, privato del sonno, indotto a pensare che sta per affogare o per essere spinto in una scatola molto più piccola di una bara” (noi il film non l’abbiamo visto, una fonte informata sui fatti ci ha raccontato quel che poteva, ma tutti i giornali americani non fanno che fornire dettagli, ci sarebbe da dire basta con lo spoiling, il film non è nemmeno uscito nelle sale: arriverà il 19 a New York).
Roba da far accapponare la pelle, perché è vero che questo non è un documentario, come ripetono sempre la regista, Kathryn Bigelow, e il suo sceneggiatore-fidanzato, Mark Boal, ma è anche vero che il film si basa su una ricerca in presa diretta di quel che è accaduto veramente nella caccia a Osama bin Laden. Che il governo americano abbia sostenuto e utilizzato le torture non lo scopriamo oggi, semmai oggi vediamo in un film che è stato nominato ai Golden Globes e respira aria di Oscar – dev’essere il precedente, “The hurt locker”, che dà alla coppia Bigelow-Boal tanta autorevolezza preventiva – che, senza la tortura, Osama bin Laden non sarebbe stato ucciso.
Molti sono scioccati, in America. Questo film sembrava, da quel che si spettegolava e dalla straordinaria trasparenza offerta tutt’a un tratto da Cia e governo allo staff della Bigelow, un grande spot per Barack Obama. S’è detto che il film dovesse essere pronto prima delle elezioni del 6 novembre, giusto per ricordare al mondo – qualora non avesse sentito il presidente ripeterlo cinquantamila volte – che Obama è il presidente che ha catturato Osama. Non i cattivoni prima di lui ossessionati dalla caccia al cattivo fin dalle caverne di Tora Bora, Afghanistan 2011, ma il pacifico Obama.
Naturalmente il merito della cattura è di quest’Amministrazione e “la giustizia” resa alle vittime di al Qaida celebrata dal presidente americano il 1° maggio del 2011, annunciando l’uccisione di Bin Laden in un blitz dei Navy Seal, va nella colonna dei successi della Casa Bianca obamiana. Ma senza gli strumenti di antiterrorismo voluti, studiati e attuati dall’Amministrazione Bush, Obama non sarebbe riuscito a prendere il capo di al Qaida. La Bigelow e Boal ripetono di continuo che non vogliono dare un’interpretazione dei fatti, “we are reporters reporting” quel che è accaduto.
E i fatti veri, riportati dai giornali dopo l’uccisione di Bin Laden, dicono che l’uomo che avrebbe poi portato gli americani ad Abbottabbad è stato arrestato in Iraq, è stato portato in una prigione segreta della Cia in Polonia ed è stato interrogato, probabilmente con “tecniche intensificate di interrogatorio”, l’eufemismo per la tortura; gli altri pezzi del puzzle sono stati messi insieme con il programma segreto di intercettazioni estere della National Security Agency. E’ servito insomma tutto il sistema di controterrorismo messo insieme, tra mille polemiche, dopo l’11 settembre.
Nel film c’è infatti una contestualizzazione importante: si apre con lo schermo nero e in sottofondo le voci note dell’11 settembre del 2001, quelle che abbiamo sentito migliaia di volte e riconosciamo al volo. Per tutto il film, la caccia a Bin Laden da parte della Cia è intervallata dagli attentati di al Qaida, come quelli del 2005 alla metropolitana di Londra. Non si torturava senza motivo, insomma. Il centro di gravità dello choc è il ponte esistente tra la brutalità dei metodi bushiani e quelli obamiani.
David Edelstein, recensendo “il film più bello del 2012” sul magazine New York, dice che come intento morale il film è “borderline fascistic”, perché al fondo sostiene che “la tortura è efficiente, ottiene risultati”. Parafrasando Dick Cheney, ex vicepresidente burattinaio della dottrina delle rendition e del waterboarding, che diceva che “qualche volta bisogna andare nella dark side”, il barbuto Dan “ha fatto il suo viaggio”, scrive Edelstein, quando dice a un detenuto: “Se mi menti, io ti faccio male”, e poi glielo fa. E’ brutto essere torturati, è brutto dover torturare, ma come dice Dan a Maya, la protagonista del film che mette insieme i pezzi di intelligence e arriva al compound di Abbottabad, questi terroristi “devono capire quanto sono impotenti”.
Il “presidente anti tortura”, Barack Obama, compare nel film su uno schermo televisivo mentre parla dell’argomento, come sottofondo a un’altra conversazione, dicendo “l’America non tortura”: nell’interpretazione di Edelstein, Obama è “un impedimento”, un rompicoglioni alla Casa Bianca che vuole il massimo risultato senza però dover utilizzare metodi da rozzi guerrafondai. La realtà non è proprio così, come in effetti tutti gli scioccati d’America sono costretti ad ammettere: Obama non ha creato questo sistema di controterrorismo, ma l’ha utilizzato alla grande.
Perché funziona (Edelstein è talmente scandalizzato dall’accettazione morale della tortura da parte del film che dice, scherzando ma nemmeno troppo, che la migliore teoria che ha sentito è quella che sostiene che Boal si sia innamorato della fonte alla Cia e ne abbia abbracciato completamente la visione). Ieri il New York Times prendeva sul serio la questione delle torture-che-hannoportato- a-Bin-Laden e citava uno studio appena prodotto dalla commissione Intelligence del Senato (seimila pagine che si basano su sei milioni di documenti d’intelligence) che sostiene che le torture brutali non sono state “una componente centrale” per localizzare Bin Laden, come ha spiegato la presidente della commissione, la democratica Dianne Feinstein.
Ma il rapporto, che ieri doveva essere sottoposto al voto della commissione, è classificato e anche piuttosto controverso – i repubblicani sostengono che non siano stati considerati tutti i documenti a disposizione – “e intanto il dibattito sulla tortura resta irrisolto”. In realtà fu l’allora capo della Cia, Leon Panetta, a dire, dopo l’uccisione di Bin Laden, in un’intervista televisiva all’Nbc, che metodi d’interrogatorio intensificati avevano permesso di raccogliere informazioni che hanno portato al blitz ad Abbottabad. Ci sono anche altri risvolti che non hanno a che fare con la tortura ma che sono altrettanto inquietanti: nel film, racconta sempre il New York Times, la svolta arriva quando la Cia ottiene da parte di un’intelligence straniera il nome del corriere che porterà a Bin Laden.
Secondo la ricostruzione del film, il nome era presente da anni nei file della Cia, ed era stato trascurato: un funzionario dell’intelligence mercoledì non ha voluto commentare la questione, che in sé è grave quasi quanto la tortura, visto che la principale accusa fatta alla Cia, anche all’indomani dell’11 settembre, è stata quella di aver ignorato i segnali. La legalità e la moralità di certe pratiche d’interrogatorio sono discutibili e lo resteranno a lungo, ma sulla loro efficacia pochi hanno ormai dubbi.
Quando Bin Laden fu ucciso, i giornali liberal scrissero che Obama avrebbe dovuto ringraziare Bush (cosa che peraltro fece invitandolo a un memoriale, ma Bush declinò l’invito) e ancora oggi, di fronte all’evolversi della strategia del controterrorismo determinata da Obama, con l’uso forsennato dei droni, il giudizio morale deve restare sospeso.
Zero Dark Thirty guai sul set e titolo di lavorazione per il film di Kathryn BigelowZero Dark Thirty guai sul set e titolo di lavorazione per il film di Kathryn Bigelow
Il pubblico invece sembra aver accettato il fatto che per ottenere informazioni rilevanti bisogna fare i duri, al di là del colore politico del presidente in carica. Dev’essere stata la fiction, dicono i sociologi. La serie tv “24” prima e ora “Homeland” (amatissima dallo stesso Obama) non fanno che riproporre la tortura, fisica o psicologica, come prezzo per la vittoria dei buoni. Con la variante, molto femminile e molto televisiva (copyright “Homeland”), che, per ogni uomo barbuto che infila un coltello nella mano dell’interrogato che non collabora, c’è un’agente bionda che entra e dice al detenuto: “Non sarebbe un sollievo smettere di mentire? Io potrei dire: ‘Voglio che lasci tua moglie e i tuoi figli e stai con me’.