Una cosa è certa: il cinema non tradisce. Puntuale, a settembre, arriva la ripresa. Eccovela qui. E mentre a Venezia è iniziato il Festival (e fate bene attenzione: sulla nostra pagina Facebook diamo in tempo reale tutte le notizie e le recensioni che ci arrivano dalla Laguna), intanto finalmente anche nelle sale si torna a respirare cinema vero. Ci sono pellicole sicuramente attese: quella del sudafricano Blomkamp che con il suo primo film fece colpo, quella di Danny Boyle, quella di Cantet. Ma anche pellicole che pur non essendo attese possono riservare sorprese: quando le uscite sono così numerose è difficile non trovare qualcosa che ci soddisfi. Se siete tornati dalle vacanze e certamente anche se non siete mai andati via, almeno sappiate che al cinema, da questo giovedì, c’è di nuovo qualcosa che vi aspetta.
IN SALA
USA 2013, Fantascienza, durata 109′] Regia di Neill Blomkamp.
Con Matt Damon, Jodie Foster, Sharlto Copley, Alice Braga, Diego Luna, Wagner Moura.
Nell’anno 2154 la popolazione umana è divisa in due grandi categorie: da un lato le persone molto ricche, che vivono in una stazione spaziale incontaminata chiamata Elysium, e dall’altro il resto della gente, costretta a vivere in un pianeta Terra sovrappopolato e in rovina. Delacourt (Jodie Foster), una rigida funzionaria governativa, non si ferma davanti a nulla nel far rispettare le severe leggi anti-immigrazione atte a preservare il lussuoso stile di vita degli abitanti di Elysium. I terrestri, però, tentano di emigrare con ogni mezzo possibile e lo sfortunato Max (Matt Damon), messo alle strette, si impegna a portare a termine una difficile missione, che in caso di successo cambierebbe molte vite e porterebbe la parità tra i due mondi.
Se il futuro è già scritto, Blomkamp l’aveva descritto meglio. La metafora sociale di “Elysium” pesa come l’esoscheletro applicato chirurgicamente al protagonista: l’azione è potente, la tensione vertiginosa, eppure permane la fastidiosa sensazione di un impianto. Sci-fi distopica efficiente come i suoi personaggi (oltre al sofferente redentore Damon, una rodata Jodie Foster in deficit di compassione), sorvola il cuore della lotta di classe e accelera i proiettili, amplifica le esplosioni e contiene le provocazioni (il vigilantes aziendale computerizzato). Affidando a Sharlto Copley, sporco manovale dell’alta società, il termometro di un’umanità frustrata e mercificata: la vera scheggia impazzita di un film più spettacolare che politico.
ELYSIUM: UN’ALLEGORIA FANTASCIENTIFICA SULL’IMMIGRAZIONE
Nel 2009 il regista Neill Blomkamp si presenta sulla scena cinematografica con il suo primo lungometraggio (District 9) convincendo critica e pubblico con il suo mix di originalità e innovazione nel trattare il tema dell’invasione aliena corredato da un pungente commento sulla società. Con Elysium, la sua seconda opera, Blompkamp continua sulla scia della fantascienza mista a forti connotazioni sociopolitiche e presenta due mondi distinti e separati: la Terra sovrappopolata e in rovina, e Elysium, una stazione spaziale di origine umana abitata da persone estremamente ricche. Mentre nel 2013 sei astronauti vivono e lavorano sulla stazione spaziale internazionale in orbita a circa 250 miglia dalla Terra, 150 anni dopo quella stessa stazione è diventata un “centro di accoglienza” dotato di tutti i confort per gente miliardaria e, in taluni casi, priva di scrupoli.
Gli abitanti di Elysium usano i soldi e i materiali a loro disposizione per costruire un ambiente separato e quasi ermetico fuori dalla Terra e, in un certo senso, ciò porta Elysium a essere l’esatto opposto di District 9 dal momento che gli umani, anziché combattere per proteggere il loro pianeta di origine, lo fanno per andare nello spazio. Proprio come District 9 esplora temi connessi alla giustizia sociale, la separazione di classe e le relazioni razziali, Elysium pone domande sull’umanità e sul contesto in cui essa vive e sulla direzione che prenderà in futuro. La netta suddivisione dettata dalla ricchezza e i due mondi separati di Elysium possono anche essere pensati come un’allegoria sul tema dell’immigrazione e su come i flussi vengano controllati e veicolati da chi gestisce il denaro o da chi ne possiede in gran quantità. Osservare la prosperità di Elysium e la Terra in rovina, inoltre, è un po’ come essere testimoni della doppia faccia di alcune grandi megalopoli come Città del Messico o Rio de Janeiro, contraddistinte da una doppia faccia: l’estrema ricchezza (gestita da comunità chiuse) da un lato e la disarmante povertà dall’altro, senza soluzione di continuità.
Foxfire – Ragazze cattive (2012)
( confessions d’un gang de filles, Francia 2012, Drammatico, dur. 143′] Regia di Laurent Cantet
Con Rave Adamson, Katie Coseni, Madeleine Bisson, Claire Mazerolle, Rachael Nyhuus.
Nel 1955, in un degradato quartiere operaio della piccola cittadina di Upstate New York, un gruppo di ragazze adolescenti fanno tra di loro un patto di sangue, suggellato dalla fiamma che si tatuano sulle spalle, e formano una gang femminile: le Foxfire. Stanche di essere continuamente umiliate e discriminate sia per essere donne sia per essere povere, Legs, Maddy, Lana, Rita e Goldie sognano un mondo in cui a governare siano le loro leggi e per porre fine al violento strapotere degli uomini si avviano verso un percorso di vendetta dall’alto costo. Anche se a tratti pecca di lungaggini e pedanteria (il vecchio comunista, l’industriale bigotto), Cantet dà il meglio in uno stile diretto e non mediato dalla ricostruzione d’epoca, facendo degli anni 50 un periodo non ancora pronto a diventare Storia ma solcato da tensioni inafferrabili. In questo quadro privo di coordinate, le Foxfire sono vittime di una rivolta cieca, di un’impotenza che si coglie soprattutto nei corpi delle attrici esordienti, acerbe e incerte come i loro personaggi. In particolare, Cantet trova in Raven Adamson (Legs, la leader del gruppo) il segreto del suo film: due occhi spalancati e vendicativi dentro i quali è nascosto un desiderio di rivolta che da sempre l’Occidente porta con sé e solo a tratti riesce a sopire, mai a cancellare. Adattamento dell’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates.
FOXFIRE – RAGAZZE CATTIVE: DAL ROMANZO DI OATES AL FILM
Rispetto al romanzo Ragazze cattive di Joyce Carol Oates da cui è tratto, Foxfire – Ragazze cattive è più strettamente cronologico e meno frammentario. Mentre Oates fa procedere la storia basandosi sui ricordi di Maddy, una delle protagoniste, il regista Laurent Cantet e lo sceneggiatore Robin Campillo hanno optato per un copione che ricostruisce dettagliatamente le sorti di una banda di cinque ragazze, dalla sua fondazione sino alla dissoluzione. Tuttavia, in vari passaggi hanno però scelto di mantenere fuori campo la voce di Maddy per evocare il senso di vertigine e confusione evocati da quello che è il periodo più cruciale della sua vita.
Ancora una volta, dopo Verso il Sud e La classe – Entre les murs, Cantet torna ad adattare un romanzo ma per Foxfire – Ragazze cattive rimane lontano dalla tentazione di trasferire l’azione in un contesto contemporaneo.
La storia di Maddy e delle sue compagne ha senso solo se è collegata allo sfondo sociopolitico dell’America degli anni Cinquanta, un’epoca in cui il controllo sociale sugli adolescenti era molto forte.
Per la prima volta, il regista si cimenta dunque con la realizzazione di un film in “costume”, ricreando in maniera realistica un periodo che è stato già portato sullo schermo diverse volte. Come tratto distintivo, Cantet sceglie però di realizzare Foxfire – Ragazze cattive trattandolo come un film di oggi e ricorrendo a soluzioni visive ruvide, regalate dall’uso della camera a mano ad alta definizione e dalle inquadrature in stile documentario. Così facendo, Foxfire – Ragazze cattive diventa una storia del passato raccontata con il linguaggio del presente e assume una dimensione di atemporalità, che si riflette anche nelle scelte della colonna sonora. L’America degli anni Cinquanta è la culla della pop music e del rock ‘n roll che gli adolescenti ascoltano in contrasto con le canzoni sdolcinate che invece passano alla radio. Sulla scia del blues e del jazz, il rock trasmette la ribellione di un’intera generazione. Le protagoniste di Foxfire – Ragazze cattive vivono sulla loro pelle la scissione musicale: a bordo delle loro auto sognano ad occhi aperti con la musica alla radio ma poi ballano sulle note dell’hard rock. Il concetto di atemporalità è presente soprattutto nella canzone originale composta per il film dai Timber Timbre, un pezzo molto contemporaneo ma con echi dei suoni degli anni Cinquanta.
In Trance (2013)
[Trance, Gran Bretagna 2013, Thriller, durata 95′] Regia di Danny Boyle.
Con James McAvoy, Rosario Dawson, Vincent Cassel, Tuppence Middleton, Danny Sapani.
Il banditore d’asta Simon (James McAvoy), in combutta con la banda di criminali capitanata dal boss della malavita Franck (Vincent Cassel), organizza l’audace furto di un capolavoro di Goya durante un’importante asta pubblica. Poiché dopo aver messo a segno la rapina Simon tenta di far il doppiogioco, Franck lo colpisce in maniera violenta, lasciandolo privo di sensi. Al risveglio, Simon si ostina a ripetere che per via del colpo ricevuto non ricorda più dove ha nascosto il quadro. Nel tentativo di fargli ritornar la memoria, Franck si vede costretto a richiedere l’aiuto della carismatica ipnoterapeuta Elizabeth (Rosario Dawson). Man mano che le sedute ipnotiche procedono, la psiche confusa di Simon comincia ad alternare fantasia e realtà, rendendo la situazione più difficile e pericolosa del previsto.
A rotta di collo, coup de théâtre dopo coup de théâtre, Boyle spinge il film di rapina tarantinato alla Guy Ritchie verso i labirinti mentali di Nolan. Ma c’è di più. Boyle propone un rebus cerebrale metanfetaminico che guarda a occhi spalancati il quadro rubato nel film, “Volo di streghe”, opera macabra, enigmatica e ridente su figure e stereotipi della superstizione (e della religione) del tardo 700. Così la furia bulimica di “In trance” cerca di mettere in crisi – tra narratori inaffidabili e inverosimiglianze – luoghi comuni di genere e gender (ed è meraviglioso il femminino Rosario Dawson). Come fosse un “Volo di streghe” oggi, al tempo delle immagini euforiche, abbaglianti e dimenticabili che scorrono dementi su un iPad. E come fosse la versione triviale e pop di “Antichrist”, vestita da film rompicapo di facile consumo. Una critica ambiziosa e un sintomo dei tempi.
IN TRANCE: UN INSOLITO THRILLER A SFONDO NOIR
Dopo The Millionaire, il regista Danny Boyle e il produttore Christian Colson erano alla ricerca di un nuovo progetto da realizzare insieme quando si sono ritrovati tra le mani due differenti storie. La prima su cui si sono concentrati era quella di Aaron Ralston – raccontata in 127 ore – mentre la seconda era un thriller dal titolo In Trance, che sembrava fatto su misura per lo sceneggiatore John Hodge, con il quale Boyle aveva lavorato in Piccoli omicidi tra amici e Trainspotting. Ciò che di In Trance ha attirato da subito l’attenzione di Boyle era la possibilità di esplorare il tema dei comportamenti umani estremi, soffermandosi sul desiderio e sulla violenza ma anche sulla disperata avidità e sul bisogno di autoconservazione che muovono le azioni dei tre personaggi principali. Una volta cominciato a lavorare su In Trance con l’intento di farne un film lontano dalle atmosfere cupe di molti thriller classici a sfondo noir, Danny Boyle ha deciso altresì di dare alla storia una dimensione emotiva che, tra svolte inattese e rinnovamento di genere, avrebbe ridefinito anche l’immagine tradizionale della femme fatale.
Infanzia clandestina (2012)
[Infancia clandestina, Argentina, Brasile 2012, Drammat. Dur. 112′] Regia di Benjamín Ávila
Con Natalia Oreiro, Ernesto Alterio, César Troncoso, Cristina Banegas, Teo Gutiérrez Romero.
Buenos Aires, 1979. Juan è un bambino clandestino di 12 anni che vive insieme alla sua famiglia. Mentre a casa può essere Juan, per la scuola e il quartiere in cui vive è semplicemente Ernesto, un’identità che gli permette di tenersi al sicuro dalle ombre di un Paese in guerra. Nonostante la sua giovane età, si ritrova così a vivere in due differenti universi: il mondo di Juan e il mondo di Ernesto, due realtà che spesso si scontrano ed entrano in conflitto. Quando conosce Maria, una ragazzina per cui prova la prima cotta, Juan pensa di non poter continuare a nascondersi per sempre: una scelta che però potrebbe essere molto rischiosa. Ávila riavvolge il filo di una gioventù superata e mai rimossa. Parte dalla (sua) prima persona (la madre desaparecida) e applica il filtro dolceamaro dello sguardo fanciullesco a una storia vera e dura. Non la spoglia delle asprezze, circonda il suo protagonista con il braccio di uno zio coraggioso e umano (l’ottimo Ernesto Alterio), sfuma la violenza inevitabile in animazione resistente, firmando un’opera intima e necessaria, che parla con pudore e coscienza di una lotta (in)giusta.
La recensione Di Chiara Bruno – FilmTV n. 21/2013
Nel 1979 Juan ha 12 anni, poche settimane dopo spegnerà 13 candeline sulla torta di Ernesto Estrada. Il suo nuovo nome è un omaggio al Che e un’importante eredità battagliera, quella dei genitori combattenti contro il regime di Videla, rientrati clandestinamente in Argentina dopo l’esilio a Cuba. Il ragazzino con la sorella in fasce arriva a Buenos Aires in un furgoncino che trasporta arachidi al cioccolato, e presto scopre la parte dura sotto la sfoglia dolce del ricongiungimento familiare. A scuola è un alunno appena giunto da Córdoba, incontra il primo amore nella palestra dove María srotola con grazia ipnotica il nastro di ginnastica. A casa è un giovane guerrigliero con un nascondiglio scavato dentro la parete: dietro le scatole di croccanti snack che puntualmente ci ricordano la sua infanzia diversa, costretta, stratificata. Ávila riavvolge il filo di una gioventù superata e mai rimossa. Parte dalla (sua) prima persona (la madre desaparecida) e applica il filtro dolceamaro dello sguardo fanciullesco a una storia vera e dura. Non la spoglia delle asprezze, circonda il suo protagonista con il braccio di uno zio coraggioso e umano (l’ottimo Ernesto Alterio), sfuma la violenza inevitabile in animazione resistente, firmando un’opera intima e necessaria, che parla con pudore e coscienza di una lotta (in)giusta. Dove la perdita – dell’identità, della casa, del padre – passa dallo smarrimento del sistema binario Bene/Male, e le conseguenze dell’amore (di un genitore, per un ideale) sono più grandi dell’amore stesso.
La variabile umana (2013)
[ Italia 2013, Drammatico, durata 83′] Regia di Bruno Oliviero.
Con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Sandra Ceccarelli, Alice Raffaelli, Renato Sarti.
Dopo la morte della moglie avvenuta tre anni prima, l’ispettore milanese Monaco (Silvio Orlando) ha perso l’interesse per il proprio lavoro. Rifiutando di ritornare in strada per le indagini, preferisce rimanere in ufficio a scartabellare documenti e analizzare fotografie e indizi pur di evitare il contatto con le persone. Una notte, però, oltre ad occuparsi del caso dell’omicidio del signor Ullrich, si ritrova di fronte in commissariato sua figlia Linda (Alice Raffaelli), arrestata perché in possesso di una pistola. Gli interessi politici e privati coinvolti nel delitto sono tali che Monaco è spinto a rimettersi in discussione come poliziotto e come padre, decidendo di prendere parte alle indagini e di ritornare in strada insieme a Levi (Giuseppe Battiston), suo allievo e amico, per una lunga notte di rivelazioni e scoperte.
“La Variabile Umana” è un noir trattato con grande rispetto, in cui l’appartenenza al genere è anche un pretesto per un film politico in cui Milano diventa laboratorio di tensioni esistenziali e sociali e dove il denaro ha sempre un ruolo. Certo a Oliviero interessano soprattutto il poliziotto, vedovo, scostante, abile nel proprio lavoro ma disilluso, e il suo percorso di avvicinamento alla figlia, che da caso giudiziario diventa variabile umana, appunto, senza che si banalizzi mai il loro rapporto fino a quel momento complicato e perfino rimosso. In fondo si parla di futuro in questo noir meneghino intenso e originale, quello al quale i padri non credono e che i figli non vedono.
Royal Affair (2012)
[En Kongelig Affære, Danimarca, Svezia, Repubblica Ceca, Germania 2012, Storico, durata 130′] Regia di Nikolaj Arcel
Con Mads Mikkelsen, Alicia Vikander, Mikkel Boe Følsgaard, David Dencik, Trine Dyrholm, William Jøhnk
Danimarca, 1770. Il re Christian VII, dal temperamento ribelle e dalla mente poco lucida, ha preso in sposa la giovane Caroline Mathilde, di origine inglese. Sin dai primi anni di matrimonio, il loro legame è stato squilibrato e senza amore tanto che la giovane regina si innamora segretamente di Johann Struensee, l’idealista medico di corte, dando vita a un triangolo amoroso che cambierà la storia di un’intera nazione.
Diretto da uno degli autori della trilogia svedese “Millennium” e prodotto dalla Zentropa di Von Trier, il film risplende delle interpretazioni di un terzetto d’attori in stato di grazia (il medico Mads Mikkelsen, la regina Alicia Vikander e il re folle Mikkel Boe Følsgaard), dipinge oltre la rigidità di corsetti e parrucche due figure rivoluzionarie (di cui una, ineditamente per l’epoca, femminile) e regala a un buio capitolo di storia uno script sapientemente illuminato.
La recensione di Ilaria Feole – FilmTV n. 35/2013
C’è del marcio in Danimarca. È il 1768 e i Lumi faticano a penetrare la coltre di privilegi medievali che i nobili hanno edificato, approfittando dell’instabilità mentale del re Cristiano VII, bambino intrappolato in una testa coronata. Ne fa le spese l’ignara sposa inglese, regina di convenienza e prigioniera di una corte ostile, almeno finché non arriva a palazzo il medico tedesco Struense: illuminista, liberale, anticonformista, conquista il re ma soprattutto il cuore della sovrana. Non fatevi ingannare dalle strategie di promozione: Royal Affair non è il romanzo di un piccante triangolo cortigiano, ma un brandello di storia danese poco nota e vera al 100%. Il dottore, con il supporto della regina sua amante, usa il suo ascendente su Cristiano per far promulgare una serie di leggi che trasformano la Danimarca (per pochi anni) nel paese più moderno d’Europa (dalle case per bimbi abbandonati all’abolizione della tortura sui servi della gleba), esempio di monarchia illuminata. Il finale, crudele e inevitabile, è scritto nei libri di storia. Diretto da uno degli autori della trilogia svedese Millennium e prodotto dalla Zentropa di Von Trier, il film risplende delle interpretazioni di un terzetto d’attori in stato di grazia (il medico Mads Mikkelsen, la regina Alicia Vikander e il re folle Mikkel Boe Følsgaard), dipinge oltre la rigidità di corsetti e parrucche due figure rivoluzionarie (di cui una, ineditamente per l’epoca, femminile) e regala a un buio capitolo di storia uno script sapientemente illuminato.
Starbuck – 533 figli e non saperlo (2011)
[Starbuck, Canada 2011, Commedia, durata 109′] Regia di Ken Scott (II)
Con Patrick Huard, Julie LeBreton, Antoine Bertrand, Dominic Philie, Marc Bélanger
Il macellaio David è un quarantenne che non ha mai realizzato nulla di buono nella vita. Litiga costantemente con il padre e i fratelli sul luogo di lavoro, è in crisi con l’eterna fidanzata Valerie e deve una quantità smisurata di soldi a un gruppo di teppisti. Tutto cambia quando David scopre che, tramite le sue donazioni anonime di sperma, sono nati 533 bambini e che molti di loro, ormai cresciuti, hanno intrapreso un’azione legale per conoscere l’identità del genitore. Con l’aiuto di un goffo avvocato, David si ripropone di mantenere la sua identità segreta ma, spinto dalla curiosità, comincia a incontrare i figli senza rivelargli nulla su chi sia realmente.
Un’altra commedia di formazione tardiva maschile (con tanto di aut aut etico finale), ma dal Canada: il tasso di volgarità non è lo stesso che in Usa, la scrittura appare più sottile, e se certe gag e battute confermano stato di grazia e acume puntito, le dinamiche sono elementari e semplicistiche, l’aria grossolanamente buonista, tra facile poesia sentimentale e morale conservatrice.
La recensione Di Giulio Sangiorgio – FilmTV n. 35/2013
Nella Bibbia sta scritto: «Non disperdere il seme». David Wozniack, nei suoi 20 anni ha fatto sicuramente di meglio: l’ha donato a una banca, in cambio di soldi facili con cui nutrire quel tanto che basta la propria pigra deriva tardoadolescenziale. Oggi, che di anni ne ha 40, è rimasto tale e quale: precario nella macelleria del padre, inaffidabile nelle questioni di cuore (una stanca compagna donna di legge con un figlio in arrivo), allergico alla parola responsabilità, David ha semplicemente sostituito lo smercio di sperma alla coltivazione idroponica di marijuana. Fino a quando, sorpresa!, 142 persone non scoprono di avere un unico padre biologico. E si mettono in cerca del donatore di seme chiamato Starbuck, genitore di un totale di 533 ventenni. Un’altra commedia di formazione tardiva maschile (con tanto di aut aut etico finale), ma dal Canada: il tasso di volgarità non è lo stesso che in Usa, la scrittura appare più sottile, e se certe gag e battute confermano stato di grazia e acume puntito, le dinamiche sono elementari e semplicistiche, l’aria grossolanamente buonista, tra facile poesia sentimentale e morale conservatrice. Da noi con 2 anni di ritardo, è stato un successo commerciale anche fuori Canada. Steven Spielberg ha commissionato a Ken Scott un rifacimento americano, già pronto: Delivery Man, con Vince Vaughn protagonista, esce nelle sale italiane il prossimo 28 novembre.
Una canzone per Marion (2012)
[Song for Marion, Gran Bretagna 2012, Commedia, durata 93′] Regia di Paul Andrew Williams
Con Terence Stamp, Vanessa Redgrave, Gemma Arterton, Christopher Eccleston, Anne Rei.
A 72 anni, Arthur (Terrence Stamp) viene convinto dalla moglie Marion (Vanessa Redgrave) ad entrare a far parte, a malincuore, di un coro locale poco convenzionale. Così facendo, il burbero, timido e scontroso Arthur si imbarca in un’esperienza che lo porta, grazie al carisma della direttrice Elizabeth (Gemma Arterton), ad affrontare i lati più oscuri del suo carattere e, con l’aiuto della musica, a scoprirsi una persona del tutto nuova, in grado di superare anche i dissidi con il figlio James.
Poche pretese per un film dai binari usuratissimi, che porta lo spettatore, senza fatica, dritto all’esibizione finale: in mezzo, infatti, c’è spazio anche per la classica competizione impomatata dove la corale di pensionati c’entra come i cavoli a merenda, ma inevitabilmente conquista la platea. Tanti buoni sentimenti e un eccesso di zelo zuccherino da parte di Arterton e Redgrave sono compensati dalla performance cocciuta e coriacea di Stamp, ma difficilmente si perdonano i numeri musicali con gli adorabili vecchietti abbigliati come rockstar per intonare “Let’s Talk About Sex!” delle Salt-n-Pepa.
UNA CANZONE PER MARION: UNA SECONDA GIOVINEZZA
Una canzone per Marion pesca nella storia personale dello sceneggiatore e regista Paul Andrew Williams nel descrivere i legami che si creano all’interno del nucleo familiare. Tuttavia, la malattia di Marion e come questa influenza le relazioni con lo scontroso marito Arthur e il loro unico figlio James sono elementi prettamente di fantasia. Il racconto, in parte collegabile al classico Canto di Natale di Dickens, segue l’evoluzione di Arthur e il modo in cui, anche se da anziano, arriva a cambiare radicalmente il suo carattere grazie alla musica.
Seppur con tematiche e situazioni spesso drammatiche, Una canzone per Marion è prima di ogni altra cosa una commedia dall’umorismo british che si tiene lontana dal luogo comune che vuole le persone anziane ormai immobili a casa e senza far nulla, collocandosi ad un filone poco sfruttato al cinema ma che ha visto nel corso del 2012 susseguirsi titoli come Quartet, A Late Quartet, Marigold Hotel e, per certi versi, anche Stand Up Guys.