L’inaudita originalità delle idee e l’indubbia autorevolezza del nome inducono a prestare ascolto alla voce di chi – più di un secolo fa – emetteva la condanna più impietosa dell’Amleto e, come se non bastasse, dell’intero corpus shakespeariano. Si parla di Lev Nicolaevič Tolstoj, autore di un Saggio critico del 1903, raccolto dalle Edizioni Boringhieri tra i suoi Scritti sull’arte (con Introduzione di L. Radoyce, Torino 1964 pp. 403-98). Saggio nel quale – aldilà del Re Lear, sempre al centro dell’attenzione – non mancano analisi e rilievi trasversali, rivolti anche ad altri titoli. Pietra dello scandalo, per Tolstoj, è anzitutto il “linguaggio” shakespeariano, che egli definisce “manierato, artificioso, … esagerato e vuoto”; segue la “rappresentazione dei caratteri”, in sé del tutto carente. Lo attesterebbe proprio l’Amleto, lì dove il grande narratore russo, se da un lato riscontra un “evidente difetto… [nel] fatto che proprio il suo protagonista non ha alcun carattere”, dall’altro deduce, con molta acribia, che “Shakespeare non è stato capace, anzi non ha voluto attribuire alcuna specifica personalità ad Amleto, senza neppure capire la necessità di doverlo fare”. Al tempo stesso, nel Bardo – così dice – “tutto è esagerato: …le azioni, …le loro conseguenze, …i discorsi”, con grave nocumento per quel “senso della misura” senza il quale “non è mai esistito e non può mai esistere l’artista, come senza il senso del ritmo non può esistere il musicista”. Del resto – afferma Tolstoj – i drammi shakespeariani mancano dei tre requisiti indispensabili al genere drammatico: un “contenuto significativo”, un’adeguata “tecnica costruttiva” e una “viva e sincera partecipazione dell’autore a ciò che egli rappresenta sulla scena”.
Trattandosi inoltre di “opere … insignificanti, volgari e amorali”, “le persone che vi compaiono non solo disprezzano la massa (cioè la classe lavoratrice); ma, negano l’aspirazione religiosa, oltre che qualsiasi aspirazione umanitaria”. “L’arte drammatica – al contrario – è sempre stata religiosa, cioè ha sempre avuto lo scopo di suscitare nella gente il chiarimento del rapporto dell’uomo con Dio”.
Ad avviso di Lev Nicolaevič, le radici del funesto laicismo shakespeariano affondavano nell’ “avvento del Protestantesimo” che, in senso lato, aveva trascurato le istanze della drammaturgia cristiana, e nella mentalità degli “uomini del Rinascimento i quali – per altro verso – si erano appassionati all’imitazione dell’arte greco-classica” ovvero pagana. Le tesi di Tolstoj raggiungevano così l’apice della spiritualità a lui connaturata, mostrando, nel contempo, tutti i loro limiti.
Se infatti il nostro senso della modernità dovesse mai rinunciare ai progressi antropologico-culturali resi possibili da Umanesimo, Rinascimento e Riforma, dove più ci ritroveremmo se non nel cuore del Medioevo?
In verità, il realismo paternalistico di Tolstoj ed il «Credo» da lui predicato – vale a dire l’esigenza di commisurare l’espressione artistica ai bisogni formativi della “classe popolare”, ovvero “contadina” (siamo nella Russia del primo Novecento!) – altro non esprimevano che l’illusoria fiducia in una visione rétro. La cui presunzione era quella di poter tornare ad una condizione di vita sempre e comunque edificante nella sua mitica e pura autenticità. In prospettiva, mutatis mutandis, verrebbe da pensare al caso altrettanto eterodosso di Pierpaolo Pasolini che – come in fondo Tolstoj – era un intellettuale di sinistra. Il che lascia intendere quanto certe definizioni siano imprecise e sfumate.
Comunque sia di ciò, possiamo ritenere concluso, con l’aggiunta di queste ultime riflessioni, il ragguaglio circa le argomentazioni che il narratore russo presenta nelle quasi cento pagine del suo Saggio. In esso, come si è visto, i rilievi di ordine estetico fanno tutt’uno con le pregiudiziali etico-politiche, morali e religiose. Argomentazioni alle quali, tuttavia, ci sentiamo di dover ribattere, anche sulla scorta di quanto già sottolineato qui: https://www.nazioneindiana.com/2018/08/12/amleto-un-intellettuale-gramsciano-in-ricordo-del-68/
Ebbene, può dirsi davvero, tanto per entrare nel merito, che Amleto fosse un protagonista senza carattere o personalità?
Allo scrivente sembra invece che il carattere del Principe sia, sì, difficile da definire, ma perché multiforme, sfuggente, coinvolto in un tortuoso snodo evolutivo. Niente affatto inesistente, esso si manifesta in varie fasi, disseminate nel corso del dramma. Riassumendo, sono cinque gli stati mentali e psico-emotivi riscontrabili in Amleto, subito dopo la dichiarazione di intenti che egli enuncia al cospetto dello spettro paterno, e che per se stessa costituisce la vera chiave di volta della tragedia, vale a dire il suo manifesto programmatico:
Ricordarmi di te [del padre]? Ebbene, dalla tavola
della mia memoria cancellerò tutte
le banali annotazioni, tutte le massime
dei libri e tutte le impressioni
che la giovinezza e l’osservazione vi copiarono.
E il tuo comandamento, da solo, vivrà
nel libro e nel volume della mia mente.
I 5, 97–103.
Comincia qui, in tutta evidenza, il tormentato itinerario di Amleto: la lenta e faticosa rimozione del suo curriculum aristocratico-rinascimentale, perseguita per l’appunto in cinque specifici momenti:
- La rinuncia all’amore galante per Ofelia, un tempo ispirato a modelli comunicativi di ordine letterario (cfr. III 1, 90-102);
- L’impulso ad emanciparsi dalle norme positive della religione cristiana, la cui inderogabile condanna del suicidio (cfr. I 2, 131 s.) gli appare invasiva rispetto al libero arbitrio riservato all’individuo (cfr. II 2, 248 s.).
- La paura – non più della sanzione divina – ma dell’aldilà in senso indefinito, vago e problematico; da qui l’indecisione tra “essere o non essere”, e l’incerta prospettiva che ne consegue (“morire, dormire, … dormire, forse sognare”). Detto en passant, il celebre monologo (cfr. III 1, 56-88), pur impreziosito da una incomparabile intensità lirica, trova nell’approccio ermeneutico ivi proposto una collocazione narrativa di minor peso; esso infatti «non è più» il passe-partout del dramma o, se si preferisce, il suo biglietto da visita, così come una troppo enfatica recitazione ci ha fatto credere, «ma solo» il corrispettivo ad uno dei diversi steps esistenziali che il nostro protagonista attraversa.
- È questa la fase nella quale egli perviene al superamento del dubbio, almeno sul piano teorico: ciò che si riscontra alla vista dei preparativi militari messi in atto dai soldati di Fortebraccio, uomini coraggiosi, motivati da un ideale che li induce ad affrontare una guerra il cui risultato non promette altro che la morte o la conquista di un territorio forse insufficiente ad accogliere le tombe di quanti cadranno per esso (cfr. IV 4, 32-66). Ma – soggiunge Amleto – “quando è in gioco l’onore, è giusto lottare con animosità anche per una pagliuzza”. Piuttosto, egli si sofferma a notare quanto sia la Storia contemporanea a sollecitare gli animi, determinandoli all’azione. Non così la Storia antica che, lontana nel tempo, si ritrova ammantata e distorta dalla retorica celebrativa. Eloquenti, per oppositum, gli esempi dissacranti di Alessandro Magno (V 1, 194-208) e di Giulio Cesare (Ibid., 209-13): eccentrica damnatio memoriae de viris inlustribus (Tolstoj avrebbe parlato di “insipide spiritosaggini”). Il “problema”, molto più seriamente, poneva in gioco lo statuto della Storia, in quanto materia da rileggere attraverso il filtro della demistificazione e di una cultura non più soltanto libresca, ma vivificata dall’esperienza diretta e da una personale consapevolezza nell’agire motivato.
- Siamo alla resa dei conti. Tessuti in un inestricabile groviglio, gli eventi precipitano, e la tragedia, inesorabile, si abbatte sul castello di Elsinore. La strage è indiscriminata e non lascia scampo. Lo stesso Amleto, ormai in fin di vita, ha appena il tempo – dopo aver portato a termine la missione affidatagli – di recuperare il proprio ruolo politico. Si volge pertanto alla designazione di colui che potrà succedergli sul trono danese; compito che egli assolve con un “voto morente” (V 2, 350) e con la forza morale di chi detta le proprie volontà testamentarie.
“Il resto è silenzio” (, 352). Sono queste le sue parole estreme, lapidarie. Esse cancellano ogni paura oltremondana e legittimano la sua ineccepibile vendetta alla luce di una prassi tutta terrena. Non già il proverbiale dubbio amletico, ma la conquista di una nuova certezza travolge e nel contempo esalta la vita e la morte del nostro Principe. Gramsci avrebbe potuto riconoscere in lui un intellettuale organico, tale anche perché “amato dal popolo” (IV 3, 4), e ancor più confortato dal “grande affetto che per lui nutriva la gente comune” (IV 7, 18). A farne parola, a denti stretti, era niente meno che Claudio, lo zio usurpatore. Amleto, in tal caso, della sua buona coscienza avrebbe risposto al popolo e non al giudizio divino.
Desta qualche meraviglia – lo si può notare ex post – che questa potenziale quanto pertinente lezione gramsciana, nella seconda metà del Novecento non abbia trovato né un portavoce, né alcuno spiraglio presso l’allora dominante cultura di sinistra, come pure avrebbe meritato. Forse, in quel milieu, a determinare l’incerta fortuna dell’Amleto potrebbe aver contribuito un pregiudizio ideologico: l’opinione di quanti ravvisavano nel Principe di Danimarca – quasi una diminutio – null’altro che… un eroe borghese. Non già il giovane Gramsci che – in una “cronaca teatrale” comparsa sull’ «Avanti!» del 20 febbraio 1916 – dedicava all’Amleto una pagina incondizionatamente celebrativa, nonostante la discontinua qualità della messinscena appena rappresentata a Torino da Ruggero Ruggeri, presso il teatro Carignano.
Ma, perché l’ideologo di Ales lamentava la modestia della rappresentazione torinese [Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 1977 pp. 284 s.]?
Vista la disuguaglianza tra la bravura di Ruggeri e la mediocrità degli altri attori, diveniva impossibile per quella rappresentazione rendere in misura adeguata la pari dignità artistica di tutti i personaggi, ciascuno meritevole di trovare il suo giusto “rilievo”. Ché di un dramma collettivo si trattava, e non di una vicenda destinata a coinvolgere “il solo tragico Amleto”!
“Nella concezione shakespeariana – scriveva Gramsci – tutti i personaggi sono grandi”, tanto che “la caratteristica del capolavoro consiste nella saturazione poetica di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona”. E null’altro affermava Agostino Lombardo (1927-2005) – l’anglista più influente del nostro mondo accademico – quando parlava dell’Amleto come di un “grande e autonomo universo poetico”. Né altro deplorava Tolstoj, se non l’esatto contrario, vale a dire l’imperdonabile errore che Shakespeare a suo avviso commetteva nell’attribuire, indistintamente, sempre lo stesso linguaggio (ovvero lo stesso registro poetico) a tutte le persone chiamate a calcare la scena: uno standard linguistico tipicamente shakespeariano, sempre aulico, ispirato, aristocratico, e non una lingua personalizzata, di volta in volta coerente con lo status ed il carattere specifico del parlante. Le buone ragioni, e i torti, sembrano talvolta ripartirsi: “a ciascuno il suo”.