Jules Vuillemin, insigne storico della filosofia che molto aveva contribuito alla elezione di Michel Foucault al Collège de France nel 1970, a distanza di appena un anno da quell’evento, nutriva più di un dubbio sulla bontà di quella scelta. Era stata ottenuta al prezzo di non poche negoziazioni con una Accademia poco incline ad accogliere tra le sue file l’autore di un libro inclassificabile come Folie et déraison (in italiano tradotto con il titolo Storia della follia nell’età classica, che era il sottotitolo francese), libro nato da una tesi dottorato che aveva consacrato il giovane studioso proveniente dalla provincia francese (Foucault era nato a Poitiers il 15 Ottobre del 1926) nell’Olimpo della cultura parigina. In Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, Feltrinelli 2021 (trad. it. Lorenzo Alunni; ed. originale 2011), Didier Eribon racconta di una telefonata preoccupata di Vuillemin a Georges Dumézil, il grande storico delle religioni, che era stato il nume tutelare della carriera di Foucault fin dagli anni del suo apprendistato filosofico all’École Normale. Sembra che gli chiedesse sgomento “Cosa abbiamo fatto? Mio Dio, cosa abbiamo fatto?” (p. 291). Sfogliando i giornali, Vuillemin vi trovava le immagini del neoletto che insieme a Sartre, al quale, però, tutto era a priori perdonato, e ai maoisti, che erano egemoni sulla scena studentesca, si faceva interprete delle rivendicazioni sociali e politiche più radicali. Non mancavano poi imbarazzanti episodi di cronaca.
Tafferugli, nottate in guardina, diverbi al limite della rissa, erano infatti all’ordine del giorno. Del resto, Foucault al momento della sua elezione al Collège, la più sacra delle istituzioni culturali della Francia repubblicana, era protagonista indiscusso a Vincennes, vale a dire nell’Università “sperimentale” nata nel 1969 alle porte di Parigi, per raccogliere le voci filosofiche del dissenso sessantottino. Eribon racconta che i due anni di permanenza di Foucault a Vincennes, in mezzo a un caos e a una “vitalità” filosofica che oggi è difficile anche solo immaginare, erano stati fondamentali nella sua vita, nella sua carriera, nelle sue opere, “perché è in quel periodo che torna veramente alla politica, che incontra la storia, «come uno scafandro poggiato in fondo al mare e che la tempesta all’improvviso solleva fino alla riva», secondo l’immagine da lui stesso impiegata e che Jules Vuillemin ricorderà nel suo elogio funebre al Collège de France” (p.238).
Perché – ed è questo il punto rilevante che spiega anche il tono rassicurante e quasi divertito della risposta che Dumézil darà all’imbarazzata telefonata di Vuillemin – il Foucault “giovane”, il Foucault che arrivava a Vincennes dopo varie peregrinazioni negli istituti di cultura francesi in Europa (Uppsala, Varsavia, Amburgo), nei quali aveva lavorato alacremente per diffondere la cultura e l’immagine della grandeur francese, quel Foucault non era affatto un pericoloso estremista di sinistra. Nonostante un passaggio quasi obbligato (e di breve durata) nelle file dei comunisti francesi, quando era studente in rue d’Ulm – tutti, o quasi, i “normalisti” aspiranti alla “gloria” nelle lettere (e a fare la “gloria” della Francia…) a quel tempo lo erano – Foucault aveva maturato fin da subito un’avversione a pelle per il marxismo, che resterà immutata nel corso di tutta la sua breve esistenza (Foucault muore di AIDS nel 1984 all’età di cinquantotto anni). Ancora al momento del suo arrivo a Vincennes lo si sospettava, non senza una qualche buona ragione, di simpatie golliste. I “modi” di Foucault erano poi quelli del dandy che appena giunto nella fredda città svedese si era comprato una fiammante Jaguar con cui stupire e divertire i suoi amici… Dumézil, tranquillizza Vuillemin: “Abbiamo fatto bene”, gli dice. Eppure, continua Eribon, Dumézil era “molto lontano dal condividere le opinioni politiche di Foucault” (p.291). Non è che non le prendesse sul serio, considerandole le esagerazioni di un temperamento originale, ma riteneva che il senso ultimo della “filosofia” foucaultiana non ne fosse veramente toccato.
Insieme al filosofo e storico della scienza Georges Canguilhem, Georges Dumezil è stato tra i pochi intellettuali ai quali Foucault abbia riconosciuto una sorta di paternità spirituale. Gli altri due numi tutelari di Foucault, Maurice Blanchot e Georges Bataille, Foucault non li ha mai materialmente frequentati. Bataille muore troppo presto e Blanchot resterà sempre una specie di fantasma che agita da lontano una scena culturale dalla quale, per consolidare il proprio mito, si sottrae sistematicamente (capita a Foucault perfino di scambiare due parole con Blanchot in occasione di una manifestazione studentesca senza rendersi conto di chi fosse il suo interlocutore). Dumézil è, insomma, un maestro riconosciuto da Foucault, e la qualità dei maestri è quella di intuire la “natura” profonda dell’allievo che si ama al di là delle apparenze convulse con cui, talvolta, questi manifesta la propria originalità. Dumézil non è infatti turbato dalle immagini di Foucault agitatore che inquietavano invece Vuillemin semplicemente perché sa che ci sono due Foucault. C’è il militante e c’è il teorico. C’è il rivoluzionario sempre pronto a scendere in piazza e c’è l’acclamato docente del Collège de France che ha passato la sua intera esistenza studiando e spulciando archivi alla Biblioteca Nazionale. E sa anche che quello che conta è il secondo e che il primo è il frutto di un difficile, quasi impossibile, compromesso della teoria con la prassi.
Essere un teorico non significa certo librarsi nel cielo delle pure idee restando alieni alle vicende dell’attualità. Tutt’altro. La teoria foucaltiana vuole essere una “ontologia dell’attualità”, ma essere un teorico vuol dire essere costretti a un realismo e a una lucidità che nella vita quotidiana è difficile da sopportare. C’è bisogno di calore, di fratellanza, di sentimenti di solidarietà che maturano in una lotta comune. Tutto questo Foucault lo aveva assaporato nell’“intermezzo di Vincennes” e lo accompagnerà fino alla fine della sua vita. Come Sartre, di cui in molti sostenevano avesse preso il posto nell’immaginario pubblico francese, non cesserà mai di spendersi per la causa degli ultimi, pagando di persona e commettendo talvolta errori di valutazione anche gravi (il caso Komeini).
Ma fare teoria implica un’altra responsabilità che confligge con le esigenze del cuore. In una intervista riportata da Eribon, intervista registrata nel 1969, ma rimasta inedita, Foucault fornisce un’immagine precisa e “drammatica” di cosa significhi, per lui, essere un “filosofo”. Suo padre, racconta, era un chirurgo (come lo era il padre di Gustave Flaubert, con il “realismo” del quale il metodo di Foucault ha, a mio parere, più di un punto di contatto…). Qualcosa del padre è passato in lui: “Sono un medico – dice Foucault –. Diciamo che sono un diagnostico. Voglio fare una diagnosi e il mio lavoro consiste nel portare alla luce, attraverso l’incisione della scrittura, qualcosa che sia la verità di ciò che è morto” (p. 188). La penna ha preso il posto del bisturi, ma l’operazione condotta sul corpo vivo del “potere”, centro attraente di tutta la ricerca foucaultiana, resta la stessa.
Con una differenza rilevantissima, però: qui il bisturi non ha la pretesa di curare, semplicemente porta alla luce quanto stava sepolto, inavvertito, sotto la vita “normale” degli organi. Il bisturi del medico è ora al servizio di una sorta di epoché fenomenologica. Dà a vedere la Cosa nell’impasse del suo funzionamento abituale e ovvio. Rende perspicuo il potere nel suo esercizio reale, sfrondandolo degli allori di cui lo riveste l’immaginazione umana. Non è detto che ciò che come filosofo-medico non può non vedere sposi poi l’“impazienza della libertà” che agita il suo cuore “umano”.
Se per un militante rivoluzionario che vuole cambiare il mondo “potere” è un sostantivo che si materializza in Palazzi d’Inverno da assaltare e negli odiati “sbirri” da sfuggire, se, insomma, “potere” è il nome generico del male che si deve estirpare, per il teorico Foucault, per il filosofo Foucault, “potere” è, come raramente si rammenta, innanzitutto un verbo. Che sia il potere psichiatrico che segrega i folli o il potere penale che rinchiude i criminali, che sia il potere disciplinare che assoggetta i corpi o quello biopolitico che governa le popolazioni e i loro flussi, che sia, infine, il potere che coarta alla confessione e che promuove l’interminabile discorso sulla sessualità dei moderni, il bisturi del medico-filosofo ne mette in luce il funzionamento, ne fa la diagnosi, con la stessa acribia e con la stessa impassibile oggettività, con la quale il “maestro” Dumézil aveva a suo tempo descritto le funzioni tripartite del potere presso gli Indoeuropei. Come verbo il “potere” perde il diritto della maiuscola a capolettera.
Non è il Potere che angoscia, quasi negli stessi anni, un Pasolini, non è il Potere che entra in tragica contrapposizione con l’innocenza della vita. Non è il Potere degli oppressori contro il quale gridano da sempre gli oppressi. Smette di venire dall’alto. La scoperta teorica fondamentale di Foucault è tutta racchiusa in un fulminante enunciato che si trova ribadito in La Volontà di sapere (1976) e che costituirà il tema della Microfisica del potere (1977), vale a dire del Foucault “filosofo”, quello che ha nel Nietzsche della Genealogia della morale il proprio costante punto di riferimento. Il potere, afferma Foucault, “viene dal basso”, il che significa, come spiegherà nel corso di un’intervista di poco successiva alla pubblicazione, che “non c’è, alle origini delle relazioni di potere, e come matrice generale, un’opposizione binaria e globale fra i dominanti e i dominati, dualità che si ripercuoterebbe dall’alto in basso, e su gruppi più ristretti fin nelle profondità del corpo sociale. Bisogna immaginare piuttosto che i rapporti di forza molteplici che si formano e operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni, servono da supporto ad ampi effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale” (p. 313).
In quanto verbo, e privato della maiuscola a capolettera, il potere è insomma coesteso alla vita, non è nient’altro che la vita che vive, la vita che ci è data di vivere fatalmente, indipendentemente dalla nostra volontà. Ma soprattutto il potere che viene dal basso non ha un soggetto-sovrano che lo eserciti e che ne disponga come di una capacità. Il potere-verbo è una formazione impersonale come quando si dice che “piove” o “fa caldo”. Per articolarlo a un qualche “soggetto” occorrerebbe attivare la “quarta persona del singolare” di cui parla l’”amico” Gilles Deleuze (amicizia difficile e frammentaria come furono quasi tutte le amicizie di Foucault) prendendola in prestito dal poema che Lawrence Ferlinghetti scrisse in omaggio a Allen Ginsberg. Vi si legge: “Egli è il folle occhio della quarta persona del singolare della quale nessuno parla [in francese, come la legge Deleuze nella traduzione della moglie: de laquelle personne ne parle]. Egli è la voce della quarta persona del singolare tramite la quale nessuno parla e che tuttavia esiste (corsivi miei)”. Incidendo il corpo vivente delle varie istituzioni, problematizzando i discorsi con cui le varie pratiche disciplinari, mediche, psichiatriche, si legittimano e si autorizzano, il bisturi foucaultiano fa emergere un potere già da sempre in atto, un potere insonne, mai in pausa.
Di questo potere molteplice, anonimo, sparpagliato, sono letteralmente fatti i soggetti, i quali ne sono gli effetti, i risultati provvisori ed effimeri, come onde del mare destinate a infrangersi nella spiaggia della storia. È una visione grandiosa e cupa, piena di risonanze spinoziane, non facile da accogliere da chi crede nella virtù emancipatrice della storia. La troviamo però magnificamente enunciata in un passo dedicato da Foucault al suo “maestro” Blanchot, tratto dal saggio a lui dedicato nel 1966, intitolato Il pensiero del Fuori. Basta sostituire al sostantivo “linguaggio” il verbo “potere” e si avrà un quadro esauriente della filosofia di Foucault: “L’apertura verso un linguaggio da cui il soggetto è escluso, la messa in luce di una incompatibilità forse senza rimedio tra l’apparizione del linguaggio nella sua essenza e la coscienza di sé nella sua identità, è oggi un’esperienza che si annuncia in punti molto diversi della cultura. Nel solo gesto di scrivere e nei tentativi di formalizzazione del linguaggio, nello studio dei miti e nella psicoanalisi […] Ecco che ci troviamo di fronte ad un vuoto che è rimasto a lungo invisibile: l’essere del linguaggio non appare di per se stesso che nella sparizione del soggetto” (pp. 185-186).
Foucault è stato “il filosofo del secolo”, come recita il sottotitolo dell’edizione italiana della biografia di Eribon? Probabilmente, nell’intenzione degli editor, si voleva enfatizzare la grandezza filosofica di Foucault, ribadita più volte da Eribon: “il più grande filosofo francese” e, quindi, ça va sans dire, del Novecento tutto. Se così fosse, la scelta di quel sottotitolo, conterrebbe un fraintendimento. L’espressione “filosofo del secolo” è foucaultiana. Con essa egli rendeva un omaggio un po’ velenoso all’“amico” Deleuze. Il secolo, dice infatti Foucault, un giorno sarà deleuziano, ma, sempre attento a non concedere troppo ai propri competitors nell’ascesa all’Olimpo culturale della Francia, aggiunge che il “secolo” va inteso “cristianamente” come espressione del mondo “di qua”, quello dominato dall’opinione e dall’estraneità al vero.
Se il secolo sarà deleuziano è dunque perché quella filosofia diverrà prima o poi espressione proprio di quel “senso comune” non filosofico tanto detestato da Deleuze. A distanza di quasi quarant’anni dalla sua morte, di fronte al suo incredibile successo, alla pervasiva presenza della concettualità da lui inaugurata in tutti gli ambiti del pensiero critico (il foucaultese è quasi un idioletto della comunità universitaria internazionale quando indossa i panni della “critica”), ci si può chiedere se quel sottotitolo sbagliato non dica qualcosa di vero sul destino dello stesso pensiero foucaultiano. Foucault è effettivamente diventato “il filosofo del secolo”. Per questo, per fedeltà a Foucault, credo sia importante riattivare quanto di quel pensiero non si lascia catturare dal secolo, né da questo né da qualunque altro, quanto in esso vi è di irriducibilmente “filosofico”, anche a costo di comprometterne la valenza critica.