«Scrivendo ho sempre cercato di privilegiare il lettore che nei riguardi dell’arte ha nutrito diffidenza, perplessità, curiosità e speranza. Non ho mai praticato la scrittura come un resoconto elettorale ma neanche come colonna sonora liturgica. Ho prediletto le gioie insolenti dell’intelligenza. Tra i miei desideri c’è sempre stato quello di fare con la scrittura quello che mio padre faceva con il pianoforte. La scrittura è come il piano: bisogna sempre perfezionare i suoni. Non mi sono mai sentita critico, ma una persona che scriveva di cose che non erano manifestamente, ma che potevano essere.»

Con queste parole Lea Vergine parla del suo lavoro di critico d’arte, in occasione della cerimonia per la laurea honoris causa conferitale dall’Accademia di Brera lo scorso 11 dicembre. Milano è infatti la città che l’ha vista costantemente presente sulla sua scena culturale: vi si è trasferita da Napoli a metà degli anni Sessanta, ed a Milano vive tuttora. Qualche giorno dopo sono andata ad intervistarla nel suo studio in via Sant’Agnese, attiguo al suo appartamento in cui vive con il marito e designer Enzo Mari. Mi apre la porta stanca, ma elegante come sempre e con lo sguardo profondo e attento di chi ha saputo usare bene la vita. Ci mettiamo a conversare sul suo divano: intorno a noi ci sono opere d’arte e tanti, tantissimi libri.

Le sue parole iniziano a fluire lente e scandite, mentre mi racconta della Milano degli anni del fermento culturale, quando lei, nel 1966, andò a convivere con Enzo Mari, fatto che causò scandalo perché entrambi erano sposati – il divorzio non era ancora ammesso – e convivevano, contravvenendo alle convenzioni dell’epoca. Ma il cambiamento era alle porte: «Milano era l’ultima città in cui sarei venuta a vivere, l’ho sempre trovata brutta. Ma all’epoca era simpatica, civile, aperta, colta. Andavi fuori e incontravi dal fruttivendolo Dennis Oppenheim, dal giornalaio Arnaldo Pomodoro. Si viveva fuori dagli studi, nelle gallerie. Erano anni di fermento, cominciavano le case editrici vaste: Mazzotta, Prearo, Electa, ecc.». In questo contesto promettente rimane sempre coraggiosa e onesta, portando la sua critica al cuore della rivolta, senza cedere ai cliché ma affrontando la scena del rischio (titolo di un convegno da lei organizzato nel 1996 alla Galleria d’Arte Moderna di Torino).
Provoca scandalo la mostra da lei curata nel 1969 alla Galleria Milano, Irritarte, collettiva le cui opere erano irritanti in quanto specchio consapevole dell’orrore che la società combatteva, o più che altro non voleva vedere: lo sporco, il patologico, il disdicevole. Molte furono le stroncature, tra cui quella di Cesare Garboli su “Il Mondo”, che additando la mostra per la sua volgarità, ironizzò sul cognome della curatrice, riferendosi sia al nome da nubile Buoncristiano, sia a quello derivatole dal primo matrimonio Vergine, che tuttora usa. Mi racconta: «Molti uomini appena vedono una donna scherzano per zittirla. È una reazione mossa dalla paura».

Di fronte alle critiche, ben consapevole del fatto che il suo essere donna causasse doppia indignazione, Lea Vergine non fece altro che affilare la penna: «come scriveva Carlo Levi, le parole sono pietre», osserva, «sono un mezzo e un’arma. Con esse si può uccidere». Nel 1974 pubblicò con l’editore milanese Prearo Il corpo come linguaggio, prima teorizzazione della body art, che «suscitò uno scandalo per la sua forte componente psicologica. È stata tra le prime letture a collegare l’arte ad una malattia del sé. Ma destò anche un estremo interesse, a Milano come all’estero. Non dimentichiamo che Milano è stata la città di personalità rivoluzionarie come Manzoni e Fontana».

 

Inaugurazione della mostra “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940”, Palazzo Reale, Milano 1980; in piedi da sinistra: Achille Castiglioni, Grazia Varisco, Vittoria Alliata di Villafranca, Pierre Rouve e Elisabetta Fermani; sedute: Dora Vallier e Lea Vergine –     Ph. Maria Mulas

 

Secondo la critica, gli anni migliori per il capoluogo lombardo sono stati quelli sotto la guida del sindaco Carlo Tognoli, ovvero il decennio 1976-1986. Tognoli permise la realizzazione di una mostra che fece storia, L’Altra Metà dell’Avanguardia (1910-1940), a Palazzo Reale. Lea Vergine, che ne fu la curatrice, mi racconta di aver lavorato «senza facili e ridicole polemiche. La mostra trasgrediva la barriera del silenzio che aveva circondato le donne. Tra di esse, vengono ricordate quelle che, nonostante gli ostacoli, hanno saputo conquistare un lessico autonomo rispetto all’uomo. E non è un fatto dell’ultimo secolo, basti pensare a Lavinia Fontana, o ad Artemisia Gentileschi. Ma è stata dura. Un esempio: sul finire degli anni Settanta un collezionista molto noto andò da Arturo Schwarz, si innamorò di un’opera, ma al momento di acquistarla si accorse che la firma portava un nome femminile. E non la volle. Perché le donne non avevano mercato». Oggi le cose sono fortunatamente cambiate, almeno da questo punto di vista, ma «bisogna continuare a lavorare».

 

Lea Vergine con Giancarlo Salzano, Torino 2002 – Ph. di R. Goffi)

 

Passiamo così a parlare di Milano oggi, la Milano della crisi. Lea Vergine è netta: «Di settimana in settimana, esce inesorabilmente di scena. Nonostante amministratori di specchiata onestà come Pisapia e Del Corno, non c’è volontà di fare. La città è paralizzata da un miserabilismo mentale, appiattita su un clima da Salone del Mobile». In questa prospettiva non vede possibilità di rinascita, è una realtà ormai morta: «voi giovani dovete emigrare, via, verso nuove realtà». Ma io le chiedo comunque uno spunto, un appiglio, un’idea, perché se sei giovane o, qualunque età tu abbia, se sei arrabbiato, vuoi ancora credere, o perlomeno illuderti di poter cambiare le cose. «Se vengono a mancare i soldi, bisogna cambiare gli obiettivi ed iniziare a lavorare sul territorio. Lodevole in questo senso la mostra Botticelli nelle collezioni lombarde al Poldi Pezzoli nel 2011. Ci sono inoltre splendidi archivi a cui non è mai stata data attenzione, come quello ricchissimo di Germana Marucelli»

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