“Vivevamo fianco a fianco con ebrei, greci, armeni… Da ragazzo andavo a comprare il pesce da pescatori greci. Il sarto di mia madre era armeno, e mio fratello lavorava per un ebreo. Eravamo tutti mescolati. […] Perché Istambul non è una città […] È una città nave. Viviamo tutti su un vascello! […] Siamo tutti passeggeri, andiamo e veniamo a gruppi.”
Così scriveva Elif Shafak, la più grande scrittrice turca tradotta in cinquanta lingue, nel suo libro più famoso, La bastarda di Istanbul, nel 2007. Oltre a essere una narratrice straordinaria, Elif è una militante e una testimone del laboratorio che è Istanbul e della possibilità di cambiare e riorientare una globalizzazione che, inevitabile, finora ha prodotto più danni che benefici.
Elif, insieme a Zadie Smith, nata nel suo stesso giorno quattro anni dopo, e Jonathan Franzen, ritiene che gli scrittori non possano e non debbano voltarsi dall’altra parte di fronte al riavvolgimento autoritario e cinico del mondo. Sa intimamente che il pendolo oscilla e che grazie a lei e a coloro che, come lei, si impegnano per risvegliare le coscienze degli umani dal torpore in cui sono calate, il mondo può ricominciare a pulsare con un ritmo più armonioso.
Nata a Strasburgo il 25 ottobre 1971 da genitori turchi che avrebbero divorziato quando lei aveva solo un anno, cresciuta da una madre occidentalizzata e da una nonna tradizionalista e mistica, ha respirato fin dall’inizio la screziatura e la complessità del mondo, e ha saputo rendere l’ambivalenza e la contraddittorietà che lo abitano fin dal suo libro autobiografico Black Milk del 2006, parlando del coacervo di sensazioni che prova una madre combattuta e estenuata da una depressione post partum. La sua Istambul, martoriata da un autocrate, Erdogan, che ha arrestato ormai quasi tutti coloro che usando la propria coscienza e le parole non hanno potuto astenersi dal biasimarlo, è il paradigma del mondo in cui viviamo attraversato da profonde trasformazioni. Sospesa tra Oriente e Occidente, tra passato tradizionalista e futuro supersonico, Istanbul è la metafora perfetta del cambiamento e dell’apertura che resistono, soffocati e incatenati, ma che non possono non trionfare perché la vita, pur se spenta nelle singole individualità come mozziconi di sigaretta, è più forte della morte in una specie, quella umana, che pure ha bisogno di un potente doposbornia se non vuole autodistruggersi.
Elif insiste, in tutta la sua produzione narrativa e saggistica, sull’imprescindibilità dell’apertura non solo alle altre persone, ma anche alle diverse branche del sapere: nessuno dovrebbe inchiavardarsi in una sola dimensione dimenticando tutto quello che c’è al di là della sua cella. In I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo attinge dalle ricerche delle neuroscienze canadesi per mettere al centro la sopravvivenza cerebrale per un certo lasso di tempo dopo l’arresto cardiaco, ma questa necessità di ibridazione era sottolineata anche nel suo romanzo Tre figlie di Eva dove scriveva:
“Aveva deciso di eccellere in tutte le materie, da lettere a matematica, da fisica a chimica, e se le figurava come uccelli tropicali tenuti in gabbia fianco a fianco. Cosa sarebbe successo se lei avesse fatto dei buchi nelle reticelle metalliche e gli uccelli fossero stati liberi di volare da una gabbia all’altra? Avrebbe tanto desiderato vedere la matematica che faceva compagnia alla letteratura, la fisica alla filosofia. E comunque, dove stava scritto che non dovevano mescolarsi?”
Riccardo Mazzeo: Il suo romanzo Gli ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo è stato selezionato per concorrere al Booker Prize insieme a quelli di altri nomi a loro volta illustri come quelli di Margaret Atwood e Salman Rushdie. Le faccio i miei complimenti e spero proprio che lo vinca, perché lei è uno degli autori che più ammiro in assoluto.
Una giornalista che le ha rivolto la parola prima di me ha detto che il suo libro è triste ma al tempo stesso allegro, lo ha definito addirittura “di intrattenimento” e in effetti, nonostante lei parli di una prostituta morta e gettata in un cassonetto che rievoca la sua intera vita nei dieci minuti che passano fra l’arresto cardiaco e la morte cerebrale, vi pulsa dentro una spumeggiante forza vitale. Vorrei chiederle quale sia il ruolo di Istanbul nel romanzo.
Elif Shafak: Sì, l’energia vitale è molto presente nel libro, e ciò dipende dall’umanità dei personaggi. Certo che c’è dell’umorismo nel romanzo, anche perché se l’umorismo viene meno, è come se mancasse l’ossigeno. Io credo fortemente nell’ossigeno generato dall’umorismo, credo che serva a respirare! Benché il libro affronti temi molto duri e spinosi, ci sono l’umorismo e l’empatia, entrambi necessari. Quanto a Istambul, innanzitutto preciserei che non esiste una sola Istambul ma che ce ne sono diverse, che talora coesistono in relativa armonia e altre volte si scontrano. D’altronde Istambul è il microcosmo di tutto il Paese, e questa è una condizione che vale anche per tutta quanta la Turchia. Istambul fa coesistere vari strati, e direi che tutta la Turchia è stratificata. Istanbul ha una lunga storia, ma al pari dell’intero Paese sembra soffrire di un’amnesia collettiva. Ovviamente, quando scrivo sono attratta dalle cose che si vedono, ma mi interessano anche le cose che non si vedono e non si sentono. Abbiamo molte difficoltà a ricordare il nostro passato. In questo libro emerge la mia sollecitudine nel parlare di coloro che sono stati silenziati, imbavagliati, emarginati, respinti ai margini della società. Mi piace raccontare storie che il Ministero del turismo turco non vorrebbe mai che si sapessero. A me preme non soltanto ascoltare le voci che si fanno sentire, ma anche i silenzi che abitano coloro che non dispongono di una voce per manifestare la loro presenza ma che esistono, e sono importanti. Quelli che “non contano” nella società, e che per me invece contano eccome, ed è per questo che li metto al centro della mia storia.
Ha parlato di “amnesia collettiva”, sottintendendo l’importanza di tenere presente il proprio passato. Può aggiungere qualcosa a questa affermazione?
La memoria è responsabilità, è un dovere. Non perché si debba rimanere ancorati a un passato magari mitizzato, ma affinché se ne riceva una lezione per il presente. Affrontare il passato, fare i conti con il passato, significa prendere atto non solo dei tempi luminosi ma anche di quelli cupi. E questo vale non solo a livello personale ma anche come collettività, affinché una società possa crescere, maturare. Ora, proprio perché si tende a stendere un velo sul passato, uno scrittore o una scrittrice ha il compito di mettere in figura la memoria, per poterne trarre delle lezioni ed evitare di commettere gli stessi errori che sono stati fatti nel presente e nel futuro. Senza la conoscenza del passato è impossibile affrontare il presente.
Mi piacerebbe che ci raccontasse la ragione di aver scelto una protagonista morta che rievoca il suo passato e della sottolineatura dei diritti delle donne.
Sono convinta che sia fondamentale, per gli scrittori come per ciascuno di noi, non rimanere fossilizzati nella branca che si è scelta ma che sia necessario abbeverarsi anche ad altre fonti, ad altre discipline. Per questo mi capita di esplorare altre sfere del sapere e, nell’ambito delle neuroscienze, ho scoperto che alcuni studi condotti in Canada hanno dimostrato come, dopo l’arresto cardiaco, il cervello continui a funzionare per circa dieci minuti, ai quali in quanto romanziera ho aggiunto i miei immaginari 38 secondi. Il cervello è la sede della memoria, e quando si scrive è essenziale usare l’immaginazione, così mi sono chiesta: che cosa ricordiamo in quegli estremi dieci minuti? Solo le cose buone, solo quelle cattive? La protagonista del libro compare quando è già morta. Sappiamo che si tratta di una prostituta, di una sex worker come si dice oggi, e che è stata brutalmente assassinata dopodiché il suo cadavere è stato buttato in un cassonetto dei rifiuti. Sappiamo che il suo nome è Leila Tequila e la racconto attraverso persone che sono state sospinte ai margini della città.
Quanto ai diritti delle donne, si tratta di una questione nodale che io non affronto da un punto di vista teorico bensì da una prospettiva concreta, di vita. Credo che ciò dipenda dal fatto che non sono stata allevata dalla tipica famiglia patriarcale turca bensì da una madre giovane che aveva divorziato quando avevo un anno e da una nonna. Sono cresciuta con due donne e ho assistito a tutte le frustrazioni subite da mia madre, discriminata per il fatto di aver divorziato con una bimba piccola. Ho visto le sue difficoltà, le sue lotte, e anche la solidarietà che ha ricevuto dalle altre donne. Per questo nutro una grande fede nella solidarietà e nella sorellanza, di cui oggigiorno c’è ancora più bisogno che in passato perché, perlomeno nel mio Paese, non siamo andati avanti, siamo tornati indietro. Perché, al di là del noto atteggiamento politico autoritario, quel che fuori dalla Turchia in genere si ignora è l’aumento nella popolazione dell’islamismo radicale, della chiusura, del ripiegamento che ingenerano sessismo, misoginia, omofobia. Bisogna prestare attenzione al fatto che in tutti i Paesi in cui la democrazia è aumentata le donne se la passano peggio e anche le minoranze se la passano peggio. A un aumento del populismo e dell’autoritarismo corrisponde un arretramento dei diritti delle donne e delle minoranze, anche sessuali. E non è successo soltanto nella mia Turchia, ma anche in molti altri Paesi, perfino in Spagna, e la cosa mi preoccupa molto.
Sarebbe interessante spiegasse nel dettaglio perché definisce Istanbul “una città femmina”.
Sia durante l’impero ottomano, sia durante la dominazione bizantina, si riteneva che gli spiriti che aleggiavano nella città di Bisanzio, le sue divinità, fossero femminili. E duole che ciò sia stato dimenticato perché se si gira per le strade di Istanbul oggi si nota che gli spazi pubblici, le piazze, le strade, i caffè, le sale da tè appartengono soprattutto agli uomini, specialmente dopo il tramonto, e io vorrei che le donne potessero reimpossessarsi di una città che è sempre stata femminile.
Mi preme adesso ringraziarla per il coraggio che ha avuto nel corso della sua carriera di scrittrice impegnata, e per aver mostrato, fin dal suo libro autobiografico Black Milk, che le cose della vita non sono come appaiono e che presentano perlomeno due lati. In quest’epoca in cui tende a fare la parte del leone l’ipersemplificazione, in cui si affermano populismi e fascismi, il suo coraggio è prezioso: lei ha segnalato fin dall’inizio la natura screziata e molteplice degli esseri umani e delle cose che compiono gli umani, e si è assunta rischi elevatissimi quando, pubblicando La bastarda di Istambul, ha osato pronunciare la parola “genocidio” riguardo allo sterminio degli armeni. Poi, nel suo penultimo romanzo Tre figlie di Eva, ha celebrato il dialogo, anzi il polilogo incarnando nelle tre ragazze Shirin, Mona e Peri tre atteggiamenti che di norma evitano persino il confronto: il libertinaggio, la fede radicata e la confusione rispetto a tali dimensioni. Sono due elementi, quello della complessità del mondo e quello dell’imprescindibilità del dialogo e del confronto, assolutamente preziosi, così come lo è l’aver dato voce agli esclusi.
Da quando ho iniziato a leggere i suoi libri l’ho apparentata agli altri miei due scrittori preferiti, Zadie Smith, con cui ho parlato di lei a Lignano Sabbiadoro, e Jonathan Franzen. Entrambi, proprio come lei, benché diano il meglio di sé nei romanzi, hanno affrontato temi scottanti della nostra contemporaneità, ad esempio nelle parole di fuoco usate da Zadie Smith contro i costruttori dell’edificio per poveri per il quale non erano stati usati materiali ignifughi, e che per questo aveva mietuto una enorme quantità di vittime, o nel penultimo saggio di Jonathan Franzen, Più lontano ancora. Quindi le chiedo, sebbene ritenga di conoscere già la risposta, se la letteratura a suo avviso possa permettersi di restare in una torre d’avorio o abbia il compito di portare le cattive notizie per invitare e spingere i lettori a riflettere su quello che accade là fuori.
Il grande problema oggi è il riemergere delle tribù e l’ingiunzione di “stare con noi” anziché “stare con loro”. Si tratta di un’imposizione che reca con sé la discriminazione dell’altro, e che viene negata dalla letteratura in cui l’altro è mio fratello, è mia sorella, sono io stesso. Io non sono favorevole alle discriminazioni, io vedo solo differenze, e in questo tempo in cui si tende a erigere muri, tracciare confini, la letteratura fa ciò che sa fare meglio: lanciare ponti. In questo tempo possediamo troppe informazioni e troppo poco sapere. Le informazioni sono quel che attingiamo andando su e giù in uno schermo: un profluvio, un bombardamento di informazioni che cinque minuti dopo abbiamo già dimenticato. Troppe informazioni da assorbire in poco tempo generano oblio e ansia, rabbia, frustrazione. Vorrei che questo rapporto si rovesciasse e che si dedicasse il tempo necessario all’acquisizione del sapere che è lenta e comporta una serie di stadi, è un processo, come la lettura di un libro.
Naturalmente quando depreco le informazioni non mi riferisco ai giornalisti, spesso eroici, che danno il proprio contributo alla conoscenza di ciò che accade. Sappiamo tutti che la Turchia si è trasformata in una grande prigione che rinchiude giornalisti, scrittori, professori, insomma tutti coloro che usano le parole. Anche in Cina avviene questo. Ecco perché la difesa della libertà di parola non può non essere anche la difesa della libertà dei media. E questa libertà di parola è stata la prima cosa che abbiamo perduto a causa del pugno di ferro del nostro governo. Quindi giornalisti, intellettuali e studiosi hanno il dovere di mettere i governi assolutisti di fronte alle loro responsabilità. Onore quindi ai giornalisti che promuovono la conoscenza. Le mie critiche sono rivolte al giornalismo inteso come un oggetto di consumo al pari di tutti gli altri, che si fruisce facendo scorrere le dita sui nostri dispositivi elettronici. Il giornalismo dovrebbe tornare a essere slow, ad approfondire e chiarire i pensieri. E poi c’è il ruolo rivestito dalle emozioni, che contano molto. Non bisogna averne paura, anche nel dibattito pubblico. Perché altrimenti se ne lascia il dominio ai populisti, che sono abilissimi nell’usarle, per raggiungere i meandri dei destinatari. Dovremmo quindi far entrare a pieno titolo, nel dibattito pubblico, quella che io chiamerei l’intelligenza emotiva.
Più dell’informazione nuda e cruda mi interessa quindi il perseguimento della saggezza, cioè di quel territorio, quella dimensione, in cui la mente va insieme con il cuore. Ora, che cosa può fare la letteratura? Be’, può riumanizzare ciò che è stato deumanizzato. Gli scrittori hanno il diritto, in tempi difficili come questi, di astenersi dal guardare fuori dalla finestra? Secondo me no. Specialmente in Paesi come il mio, oppure in Venezuela, in Russia e in tutti gli altri dove la democrazia è stata erosa, evitare di scrivere di quel che succede è un lusso che non credo ci si possa permettere. In quest’ultimo periodo abbiamo assistito all’elezione di Trump negli Stati Uniti e alla Brexit in Europa: molti romanzieri hanno perciò sentito il bisogno di uscire dal proprio guscio e di parlare di quel che accade. Se non occupiamo noi questo spazio, esso sarà dominato dagli estremisti, dagli integralisti, da quelli che vogliono escludere tanta parte della popolazione, e quindi abbiamo il dovere di contribuire al progresso e di contrastare i passi indietro del bene comune.
Per lei Istanbul è nostalgia o speranza?
Direi che il sentimento che provo è una mescolanza di questi due aspetti. Quando guardo alle azioni e agli atteggiamenti dei politici provo inevitabilmente pessimismo. Ma poi mi basta parlare con gli studenti, gli esponenti di minoranze, la gente che riempie le strade, e mi accorgo che ci sono davvero tanti democratici nel mio Paese, pieni di resilienza, benché non riescano a far sentire la loro voce poiché il baccano del potere sovrasta tutto. E quindi provo speranza. Direi quindi che posso far mie le parole di Antonio Gramsci: ho il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.
Qua e là nei suoi romanzi ricorrono modalità di divinazione come la lettura dei fondi di caffè o addirittura del vino. Ciò ha qualche attinenza con la figura e le predilezioni di sua nonna, che era molto religiosa e tradizionalista? Dipende forse dalle tradizioni dell’antica Bisanzio?
Questa domanda mi riconduce alla mia infanzia poiché, come dicevo, sono stata allevata non solo da una madre laica ma anche da una nonna molto superstiziosa, che riempiva la casa di oggetti che riteneva dotati di poteri magici e certamente si dilettava di divinazione attraverso fondi di caffè e altre modalità. Si tratta di tradizioni che noi tendiamo a vituperare. Personalmente, sono contraria a sminuire, tacciandole di irrazionalità, certe tradizioni antiche. Molti intellettuali turchi sminuiscono queste tradizioni e le definiscono manifestazioni di ignoranza ma le tradizioni, specie se secolari, meritano rispetto, è giusto cercare di comprenderle. Quando mi sono trovata in Turchia verso la fine degli anni Settanta, se guardavo fuori dalla finestra rimanevo atterrita dalla violenza che esplodeva nelle strade: la polizia sparava addosso agli studenti che protestavano, mentre in casa si respirava questa atmosfera di divinazione, di fondi di caffè e di vino. Oltre a informarci, a leggere, a studiare, dobbiamo anche guardare e ascoltare le persone più disparate, e ascoltare non solo quello che dicono, ma anche come lo dicono. Quel che so non si basa solo su ciò che leggo ma anche su ciò che ascolto.
Esiste una ragione specifica del fatto che gli amici di Leila Tequila siano cinque?
Rispetto all’ascolto di coloro che incontriamo, vorrei sottolineare che per me non esiste solo la “famiglia di sangue”, quella in cui nasciamo e che se abbiamo fortuna ci alleva amorevolmente. Indipendentemente da questa famiglia ne esiste un’altra, che io chiamo “famiglia d’acqua”, composta dagli amici cari, gli amici stretti, coloro che sono testimoni del nostro viaggio, che ci accompagnano, e il cui numero non può superare le cinque o sei persone. Questo mio ultimo libro è dunque una celebrazione delle famiglie d’acqua.