a “La civiltà dell’Occidente medievale. Strutture spaziali e temporali (X-XIII secolo)”
1964 (1981 in Italia, Einaudi Editore)
di Jacques Le Goff
Quando il giovane Tristano, sfuggito ai mercanti-pirati norvegesi approdò al litorale della Cornovaglra, “con gran sforzo salí fino alla cresta della scogliera e vide che, al di la di una landa ondulata e deserta si stendeva una foresta senza fine». Ma da questa foresta venne fuori un gruppo di cacciatori e il fanciullo si uni a loro. «Allora si misero a camminare conversando, finché scoprirono un ricco castello. Era circondato da praterie, da frutteti, da sorgenti vive, da peschiere e da terre arate».
Il paese di re Marco non è una terra leggendaria immaginata da un troviero. È la realtà fisica dell’Occidente medievale. Un grande manto di foreste e di lande attraversato da radure coltivate, più o meno fertili: questo è il volto della Cristianità, simile a una negativa dell’Oriente musulmano, mondo di oasi in mezzo ai deserti. Qui il bosco è raro, là abbonda, qui gli alberi significano civiltà, là barbarie. La religione, nata in Oriente al riparo delle palme, si fa luce in Occidente a detrimento degli alberi, rifugio dei geni pagani, che monaci, santi, missionari abbattono senza pietà.
Qualunque progresso nell’Occidente medievale è scasso di terre, lotta e vittoria su sterpi, arbusti oppure, se occorre e se l’attrezzatura tecnica e il coraggio lo permettono, sugli alberi di alto fusto, la foresta vergine, la «gaste forêt›› di Perceval, la selva oscura di Dante. Ma la realtà palpitante è un insieme di spazi piu o meno vasti, cellule economiche, sociali, culturali. Per lungo tempo l’occidente medievale è rimasto un agglomerato, una giustapposizione di domini signorili di castelli e di città sorti in mezzo a distese incolte e disabitate. D’altronde il deserto è allora la foresta. La si rifugiano gli adepti volontari o involontari della fuga mandi: eremiti, innamorati, cavalieri erranti, briganti, fuorilegge. Tali san Bruno e i suoi compagni nel deserto della Grande Chartreuse o San roberto di Molesmes e i suoi discepoli nel deserto di Citeaux; tali Tristano e Isotta nella foresta del Morois (“Noi ritorniamo alla foresta, che ci protegge e ci salva. Vieni Isotta, mia dolce amica!… Entrarono nelle alte erbe e nelle brughiere, gli alberi rinchiusero su loro i rami, essi scomparvero in mezzo alle fronde”); così, precursore e forse modello di Robin Hood, l’avventuriero Eustachio il Monaco, all’inizio del XIII secolo, si rifugia nei boschi del Boulonnais. Mondo del rifugio, la foresta ha le sue attrattive. Per il cavaliere è il mondo della caccia e dell’avventura. Perceval vi scopre “le più belle cose che esistono” e un signore consiglia a Alcassino, malato di amore per Nicoletta: “Montate a cavallo e andate lungo questa foresta per distrarvi, vedrete le erbe e i fior, sentirete cantare gli uccelli. Per caso sentirete delle belle parole che vi faranno stare meglio”.
Per i contadini e per tutto un piccolo popolo laborioso, la foresta è fonte di guadagno. Là vanno a pascolare i greggi la soprattutto si ingrassano in autunno i suini, ricchezza del povero contadino che, dopo averlo impinguato di ghiande ammazza il porco, promessa di sostentamento, se non di cuccagna, per l’inverno. La si abbatte il legno, indispensabile a un’economia per lungo tempo povera di pietra, di ferro, di carbon fossile. Case, utensili, focolari, forni, officine esistono e lavorano solo grazie al legno o al carbone di legna. Là si colgono i frutti selvatici che sono per l’alimentazione primitiva del rustico un nutrimento di integrazione essenziale e, in tempo di carestia, la principale possibilità di sopravvivenza. Là si raccolgono la scorza delle querce per la concia, le ceneri dei cespugli per la lavanderia o la tintoria, e soprattutto i prodotti resinosi per le torce e i ceri, e il miele degli sciami selvatici, tanto ricercato da un mondo per tanto tempo privo di zucchero.
All’inizio del XII secolo il cronista francescano Gallus Anonymus, stabilitosi in Polonia, enunciando i vantaggi di questa contrada, cita, subito dopo la salubrità dell’aria e la fertilità del suolo, Silva melliflua l’abbondanza di foreste ricche di miele. Cosi tutto un popolo di pastori, di taglialegna, di carbonai (Eustachio il Monaco, il «bandito forestale», compie travestito da carbonaio una delle sue azioni di brigantaggio piú riuscite), di cercatori di miele, vive della foresta e ne fa vivere gli altri. Questo piccolo popolo fa anche volentieri il cacciatore di frodo, ma la selvaggina è innanzi tutto il prodotto della caccia riservata ai signori.Le guardie forestali sorvegliano ovunque i contadini ladruncoli. I sovrani sono i più grandi proprietari forestali del loro regno e cercano con tutte le forze di restar tali. Anzi, i baroni inglesi, dopo essersi rivoltati, impongono nel 1215 a Giovanni Senzaterra, accanto alla Magna Charta politica, una speciale “Carta della foresta”. Quando nel 1332 Filippo VI di Francia fa compilare un inventaro di diritti e risorse, con i quali vuole costruire una dote per la regina Giovanna di Borgogna, fa redigere a parte un “estimo delle foreste”, le cui rendite rappresentano il terzo dell’insieme dei redditi di questo demanio regio.
Ma la foresta è anche piena di minacce, di pericoli immaginari o reali. E’ l’orizzonte inquietante del mondo medievale. Essa lo accerchia, lo isola lo stringe. Fra le signorie, fra i paesi, rappresenta una frontiera, il no man’s land per eccellenza; della sua opacità temibile sorgono d’improvviso lupi affamati, briganti, cavalieri, predoni.
In Slesia, all’inizio del XIII secolo, due fratelli tengono per anni la foresta di Sadlno, da dove escono ogni tanto per esigere il riscatti dai poveri contadini dei paraggi, e impediscono al duca Enrico il Barbuto di stabilirvi un solo villaggio. Il sinodo di Santiago de Compostela dovrà stabilire, nel 1114, un canone per organizzare la caccia ai lupi. Ogni sabato, salvo la vigilia di Pasqua e della Pentecostê, preti,cavalieri, paesani che non lavorano sono mobilitatt per la distruzione dei lupi erranti e per mettere le tagliole. Una multa colpisce quelli che si rifiutano. Questi lupi famelici sono trasformati facilmente in mostri dall”immaginazione medievale, che attinge ad un folclore ancestrale. In quante agiografie incontriamo il miracolo del lupo ammansito dal santo, come Francesco di Assisi, che soggioga la crudele bestia di Gubbio! Da tutti i boschi sbucano gli uomini-lupi, i lupi mannari, nei quali la selvatichezza medievale confonde la bestia con luomo semibarbaro.
Talvolta la foresta nasconde mostri ancor piú sanguinari, ereditati nel Medioevo dal paganesimo: tali la tarasque provenzale domata da santa Marta. Cosí le foreste diventano, attraverso questi terrori troppo reali, un universo di leggende meravigliose e spaventose. La foresta delle Ardenne dal cinghiale mostruoso è il rifugio dei “quattro figli di Aimone”, dove sant’Uberto da cacciatore diventa eremita, san Tibaldo di Provins, da cavaliere eremita e carbonaio; la foresta di Broceliandia, in Armorica, è teatro degli incantesimi di Merlino e Viviana; nella foresta di Oberon Huon de Bordeaux soccombe alle stregonerie del nano; nella foresta di Odenwald Sigfrido termina la sua caccia tragica sotto i colpi di Hagen; nella foresta di Le Mans erra penosamente Berta dai grandi piedi e lo sventurato re di Francia Carlo VI diventerà pazzo.