Come direbbe Virginia Woolf quello che si profila lungo tre racconti di Alice Munro, “Fatalità”, “Fra poco” e “Silenzio” è un frastuono, un rumore di cose che si rompono: le parole vengono meno e ciò che resta a galla è solo il silenzio.

Spesso definiti “trittico di Juliet” questi racconti possono essere letti singolarmente ma costituiscono più un continuum, una trilogia in quanto accostata a quella tragica. Jonathan Frenzen, scrittore statunitense, sosteneva infatti che i racconti di Munro assomigliassero a tragedie classiche in prosa, costituiti da due elementi tragici: felicità e rovina. La parabola che si viene a delineare lungo i tre racconti è sempre più discendente, fino ad arrivare al punto di non ritorno, alla parola taciuta, ormai non più esprimibile.

 

In “Fatalità” la protagonista, Juliet, sarà il motore tragico che innescherà la tragedia, ovvero il suicidio di un uomo. Juliet deciderà la sua libertà, di non “far comunella” con l’uomo che si trova di fronte a lei, nel suo stesso vagone. Secondo Frenzen elemento caratteristico degli intrecci di Munro è la condizione di conflitto fra norma sociale e aspirazione individuale ed è un conflitto tragico perchè comunque lo si risolva si avrà una perdita.
Per poter però comprendere le azioni o gli atti mancati di Juliet, è necessario approfondire lo stretto legame sotteso fra letteratura ed emozioni. Secondo le teorie filosofiche e scientifiche vi sono tre condizioni entro cui le emozioni si manifestano:

1) L’aspetto della motivazione: analizzato dal filosofo John Dewey partendo dall’etimo e riconducendolo alla parola “azione” che si rifà dunque al movimento e al sommovimento. E’ importante ricordare anche la basic emotion theory formulata da due psicologi, Silvan Tomkins e Paul Ekman, i quali sostenevano che le sei emozioni di base (gioia, rabbia, tristezza, paura, disgusto, sorpresa) fossero innate e governate da programmi ereditari.

2) L’aspetto della valutazione: alcuni studiosi e psicologi come Martha Nussbaum, Magda Arnold e Richard Lazarus misero in luce come ciascuno di noi reagisca con emozioni diverse a un determinato oggetto perché lo interpreta.

3) L’aspetto del sentimento: bisogna risalire a William James, fratello del romanziere Henry James, il quale in un articolo del 1884 fece riferimento al fatto che quando siamo emozionati abbiamo delle reazioni fisiche, dei cambiamenti corporei evidenti. Antonio Damasio, neurobiologo italiano, formulò invece una teoria neojamesiana distinguendo emozione e sentimento; la prima è il cambiamento corporeo, il secondo è il sentimento di quel cambiamento corporeo.In “Fatalità” questi 3 elementi sono centrali quando Juliet attende il suo compagno Erik in casa sua e lui arriva:

“Juliet sente sbattere la portiera del furgone, sente lui che parla con il cane, e il terrore la invade. Vuole nascondersi da qualche parte”.

In questo passo prevalgono la prima e la seconda dimensione: l’emozione che si prova è la paura che non dipende da Erik ma dal timore che possa mostrarsi scontento di trovarla lì, che non corrisponda al desiderio analogo a quello di Juliet. L’emozione provata, inoltre, ha a che fare con la motivazione poiché la paura spingerebbe Juliet a nascondersi o a fuggire.
Il terzo aspetto, il sentimento, è palese alla fine della sequenza:

“Avanza verso di lei e Juliet si sente scrutata da capo a piedi, traboccante sollievo, aggredita dalla felicità. Che cosa sbalorditiva. E quanto assomiglia allo sgomento”.

Le emozioni di Juliet sembrano molto contrastanti infatti passa dalla paura alla felicità. Nonostante ciò Juliet manifesta la sua ansia dopo l’evento tragico, quando tenta di scrivere una lettera ai genitori per raccontargli ciò che è successo ma non è capace di proseguire. Allo stesso modo Juliet non trova mai la parola esatta per descrivere il paesaggio; d’altra parte, quando i passeggeri vengono a sapere dell’uomo suicida, agiscono due dinamiche differenti, la curiosità e il rispetto che genera silenzio e astensione.

Nel secondo racconto, Fra poco, la tragedia è la morte della madre di Juliet, Sara, e la consapevolezza che nulla può più essere recuperato. Ciò che emerge da queste pagine è il rapporto distaccato che Juliet ha con la madre; esso può essere accostato, per contrasto, a quello che una scrittrice francese, Annie Ernaux, ha con sua madre e che descrive nei suoi due romanzi Una donna e La vergogna. In entrambi la figura della madre è centrale, soprattutto nel primo romanzo nel quale Ernaux deve prendersi cura della madre, ormai malata di Alzheimer, come se fosse una bambina. Questo atteggiamento confortante che Ernaux ha nei confronti di sua madre, manca a Juliet. Solo quando morirà Sara, si renderà conto della sua carelessness, della mancanza di cura nei confronti della madre, anche se il senso di colpa, così come in “Fatalità” verrà meno:

“Lei però non aveva protetto Sara. Quando Sara aveva detto Presto rivedrò Juliet, Juliet non aveva saputo trovare risposta. Possibile che non ne fosse stata capace? Cosa c’era poi di tanto difficile?
Bastava dire . Avrebbe significato così tanto pera Sara, e per lei, di sicuro, talmente poco. E invece le aveva voltato le spalle […].”

Questa durezza di cuore non verrà nemmeno scalfita dalle parole che la madre le aveva detto circa la sua religione:

“La mia fede non è così semplice. […] Non la so definire. Però è, non so come dire, è qualcosa. Qualcosa di meraviglioso. Quando sto veramente malissimo…quando sto così male che…sai cosa penso allora? Penso, va bene. Penso, Presto rivedrò Juliet”.

La noncuranza di Juliet nei confronti dell’uomo suicida, così come nei confronti di Sara si riverserà anche in sua figlia Penelope, nell’ultimo racconto “Silenzio”. Il titolo è emblematico poiché lo scontro generazionale sarà decisivo e porterà a un ribaltamento: Juliet verrà abbandonata dalla figlia, in una situazione di ritiro dalle relazioni e dalla vita.

Corinne Bigot ha analizzato in modo approfondito questo racconto mettendo in risalto le emozioni provate dai personaggi. Juliet parla poco dei suoi sentimenti ma li manifesta in un pianto che ha effetto catartico per la difficoltà del linguaggio. Munro, inoltre, usa spesso frasi in corsivo che indicano un discorso non detto o “silenziato”, parole che riverberano silenziosamente nella memoria del personaggio; gli spazi vuoti dopo tali frasi sembrano evocare il dolore di Juliet.

Se nei racconti precedenti era Juliet a guidare il corso degli eventi ora è Penelope che da bambina angelica assume le sembianze di una cariatide, dura e distaccata. Non si sa con certezza le colpe che Juliet ha verso sua figlia, probabilmente la mancanza di cura. Per esempio quando Erik muore è Penelope a sostenere la madre e non viceversa. Il funerale viene percepito da Juliet come un evento grottesco e ciò è dovuto alla difficoltà di vivere ed esprimere le proprie emozioni, concependo le esequie nella loro esteriorità.
La sua anestesia emotiva la porterà dunque a non provare nemmeno a riallacciare i rapporti con sua figlia. Il silenzio, da arma impugnata da Penelope, diventa attesa sul finale del libro. Munro infatti usa il verbo “sperare” ripetuto per tre volte forse a riunire i tre racconti, forse a immaginare una riconciliazione. Ai personaggi ,dunque, viene negata una chiusura, così come al lettore:

“Continua a sperare di ricevere una parola da Penelope, ma senza perderci il sonno. Spera, come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così”.

 

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