“La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura. Esse inquietano l’osservatore; egli sente che per accedervi deve cercare una strada particolare”: così Walter Benjamin parlava, nel 1939, in occasione della seconda stesura del suo testo più noto delle fotografie di Eugène Atget. Per l’osservatore odierno, nulla si è perso dell’aura enigmatica che le avvolge, complice anche la scenografia delle sale della Fondation Henri Cartier-Bresson che, in occasione della mostra ora in corso fino al 19 settembre “Eugène Atget, Voir Paris”, si presentano in una penombra favorevole alla conservazione delle delicate stampe d’epoca e alla contemplazione inquieta del loro mistero.
Parigi vista da Atget è uno dei due grandi protagonisti della mostra, Atget fotografo e poeta visionario della ville ne è il perfetto e necessario pendant: le fotografie esposte sono stampe originali realizzate dallo stesso fotografo tra la fine del XIX et l’inizio del XX secolo, su una sottilissima carta posta a contatto con un negativo su lastra di vetro, esposto alla luce naturale. Annotate e numerate a mano dall’autore sul retro, sono così classificate secondo i temi e datate con precisione: Paris pittoresque, Art dans le vieux Paris, Topographie sono alcuni dei titoli didascalici, che tanto documentano un état des lieux quanto rivelano visioni e fantasie, liberano immaginazioni e apprestano immaginari.
Il “caso Atget” è in effetti interessante, anche se tutt’altro che inedito: Atget conoscerà una notorietà tardiva e soprattutto postuma, in particolare grazie all’azione di Berenice Abbott, la grande fotografa americana che conoscerà (e ritrarrà) Atget già anziano, in occasione della sua permanenza in Francia e del suo lavoro in qualità di assistente di Man Ray. Sarà Abbott a consolidare il successo di Atget, a esportarlo negli Stati Uniti, a ispirarsi prima tra tutti apertamente al suo lavoro, facendo per New York quello che Atget fece per Parigi: documentarne il mutamento e la trasformazione, custodirne la memoria e forgiarne, ad un tempo, il volto. Le letture, spesso divergenti, dell’opera di Atget si sono poi susseguite, fino a sedimentarsi in due grandi filoni: Gerry Badger li ricordava, in occasione di una ormai vecchia edizione di Paris Photo, ad un pubblico di iniziati riuniti nel misterioso Silencio di Parigi, raccontando fino a che punto Atget sia stato tanto una fonte di ispirazione per i surrealisti quanto un maestro per la corrente della fotografia documentaria.
Del ruolo giocato da Atget per i surrealisti, la mostra parigina dà conto mostrando, tra le altre cose, la celebre copertina del numero 7 de La Révolution Surréaliste del 1926, su cui figura la oramai famosissima immagine Les dernières conversions. Anche l’aspetto più documentaristico del lavoro di Atget è adeguatamente restituito al pubblico, informato della volontà del fotografo francese di produrre soltanto dei “documents pour artistes”, privandosi quindi spontaneamente dell’etichetta di artista, lavorando egli per gli artisti e non in quanto tale.
Tuttavia, non sono questi gli aspetti che interessano maggiormente le due curatrici della mostra, Anne de Mondenard, responsabile del dipartimento “fotografie e immagini digitali” del Musée Carnavalet – Histoire de Paris, da cui le preziose stampe esposte provengono, e Agnès Sire, direttrice artistica della Fondation HCB. Se per molti Atget è stato un fotografo surrealista o ancora un fotografo documentario ante-litteram, dalla mostra emerge piuttosto la figura di un fotografo artigiano, poeta dello sguardo, sicuramente precursore della modernità, senza dubbio figura imprescindibile della storia della fotografia. Si esce in effetti dalla mostra con una certezza, e cioè che quello di Atget è un lavoro archetipico, poiché osservando le fotografie esposte alla Fondation HCB si intravedono e si riconoscono temi e stilemi che verranno esplorati in maniera sistematica dopo di lui: il paesaggio, il ritratto, la fotografia di architettura e urbanistica.
Ma forse, su tutto, ciò che stupisce è la singolare e profonda consapevolezza di Atget dello stretto e singolare rapporto che il medium fotografia intrattiene con il tempo e con la storia. Inquadratura dopo inquadratura, il profondo mistero delle fotografie di Atget allora si rivela. Le sue sono immagini gravide di temporalità: il farsi storia di una città, Parigi, con i suoi volti e le sue strade, con le tracce dei corpi che le hanno attraversate, avviene attraverso lo sguardo del fotografo; egli la trasforma in una singolarità irripetibile. Tuttavia Atget non si limita mai a documentare il reale: lo stato delle cose lo interessa solo nella misura in cui la fotografia può renderne possibile la trasfigurazione e solo perché essa può annunciarne il mutamento, testimoniare l’imminenza di un cambiamento.
In occasione di una precedente mostra dedicata a Atget alla Bibliothèque National de France nel 2007, il curatore Guillaume LeGall si chiedeva, proprio a proposito delle foto realizzate dal fotografo francese per documentare i cambiamenti urbani della Parigi di fine ‘800, se la fotografia potesse effettivamente testimoniare la scomparsa. La risposta al quesito fu che “in definitiva, i fotografi cercavano i segni visibili della scomparsa, cioè ciò che la annunciava”.
Questa chiave di lettura è preziosa, soprattutto per un fotografo che ci ha lasciato un’opera complessa e enigmatica come Atget: nelle sue foto, come forse in tutte le foto, non bisogna cercare il passato, un documento di quello che è stato per come è stato, ma in esse è possibile scorgere piuttosto un “annuncio” di passato. Un “encore là” che è un’apertura temporale e poetica. “Di fronte alla scomparsa – scrive sempre significativamente LeGall – le angosce, le lamentele e i rimpianti si “scrivono”, mentre i resti della vecchia Parigi vengono registrati meccanicamente. Più precisamente, la fotografia agisce nell’intervallo di tempo che precede la scomparsa completa dell’oggetto da salvare. Ma nel contesto della trasformazione urbana, la scomparsa, che è il risultato dell’azione di distruzione, è rappresentabile? In definitiva, i fotografi cercano i segni visibili della scomparsa, cioè ciò che la annuncia.”
Benjamin ha scritto che Atget fotografava le strade di Parigi come se ognuna di esse fosse la scena di un crimine. Atget ne fotografava l’evidenza o le evidenze: secondo l’etimo latino (evidentia) e quello greco (enargeia) della parola, esse sono tanto la lampante apparenza di ciò che si vede, quanto le prove, le testimonianze, i segni tutti da interpretare di quanto accaduto, quanto, ancora, la forza e la vividezza retorica di descrizioni e rappresentazioni. L’autore del crimine è allora il fotografo stesso, colpevole di rubare tempo al tempo, di sottrarre realtà al reale, restituendone però, in un’inquadratura, tutto il potenziale. La Parigi di Atget è tanto storia quanto fiction, tanto reale quanto immaginifica.
Eugène Atget, Voir Paris.
Fondation Henri Cartier-Bresson, Parigi, fino al 19 settembre.