Abbiamo visto Una separazione diretto da Asghar Farhadi.
Quando pensiamo di andare a vedere un film iraniano ci vengono in mente tutte le notizie angoscianti che vengono da quel grande Paese. Pensiamo a Mahmud Ahmadinejad, alla dittatura teocratica degli Ayatollah, alle condanne a morte di ragazzi e donne perché fedifraghe, alla condanna del regista Jafar Panahi a sei anni di carcere e al divieto per lui di fare o scrivere film per vent’anni. Poi vediamo uno dei vari importanti e bei film che giungono da lì e restiamo stupiti anche dal racconto della realtà di quel Paese che non è assolutamente una gabbia a cielo aperto come l’informazione occidentale tende a farci credere (tenendo presente che stiamo parlando comunque di un Paese islamico integralista). In questi anni sono giunti in Europa numerosi film, importanti, a volte necessari, a volte ineludibili; basta citarne solo alcuni usciti negli ultimi due anni come il perfetto About Elly sempre di Farhadi, lo splendido Donne senza uomini di Shirin Neshat, I gatti persiani di Bahman Ghobadi, Offside di Panahi, Il cacciatore di Pitts.
Adesso giunge nelle sale italiane La separazione, un film che spiazza, stupisce per la sua ‘semplicità’, che va oltre i luoghi comuni e ci permette di capire una realtà con molte sfaccettature. Un film dalla costruzione narrativa sapiente e perfetta, dalle psicologie di tutti i protagonisti sfaccettate e coerenti, con una crescita narrativa ed emotiva senza pause che termina con un finale originale e sincero. Uno di quei film che forse noi italiani potevano o sapevano fare in tempi lontani, quando la carne e i sentimenti erano carne e sentimenti e la plastica semplicemente plastica. Un film che racconta la realtà di un Paese vivo e reale, con uomini e donne concreti e umani nella loro fragilità emotiva ed esistenziale, una commedia drammatica figlia del nostro Cinema neorealista; e ci viene naturale il confronto tra un film come questo e Bar sport o La peggiore settimana della mia vita o C’è chi dice no. Parafrasando Voltaire, dimmi che Cinema hai e ti dirò in che Paese vivi.
Il film inizia in un tribunale di Teheran con una lunga inquadratura in stile Nouvelle Vague, una coppia medio borghese (lui è un bancario, lei una professoressa), Nader (Peyman Moaadi) e Simin, (Leila Hatami) sono davanti ad un giudice per separarsi. In realtà Simin ha deciso di portare alle estreme conseguenze una scelta di vita, vuole abbandonare l’Iran per portare la loro giovane figlia in un luogo migliore; mentre il marito – dopo aver ottenuto i visti per lasciare il paese – non vuole più. Per lei partire è quasi una condizione ineludibile, lui invece sostanzialmente ama la sua vita e la sua città e poi ha un padre con l’alzheimer a cui è affezionato e non vuole abbandonare. Il giudice li rimanda a casa perché il divorzio deve essere firmato da entrambi e in più lui non vuole far partire la figlia undicenne Termeh con la madre. Simin abbandona la famiglia e torna dai genitori, Nader allora assume una badante, Razieh, per prendersi cura di suo padre mentre lui è al lavoro, ma chissà se sa che la donna, molto religiosa, è incinta e viene a lavorare senza il permesso del marito, un poveraccio esaurito, esasperato e pieno di debiti. Mentre la figlia Termeh sceglie di restare col padre con la speranza che sua madre possa ritornare a casa, Simin continua a vivere separata sempre sperando che il marito decida di partire e ricomporre la famiglia, ma Nader – un brav’uomo ma un po’ ottuso e permaloso – si trova involontariamente coinvolto in una rete di incomprensioni che sfociano nella cacciata furente della badante che è uscita di casa lasciando il vecchio legato al letto rischiando di farlo morire. Ma la conseguenza di quest’unica ira forse è che la donna perde il figlio che portava in grembo. Inizia così una causa e una controcausa tra le parti in cui nessuno è sincero fino in fondo e nessuno è sicuro della realtà in cui si trova, sotto lo sguardo smarrito delle due figlie dei protagonisti.
Il film si dipana su vari piani, quello più evidente è naturalmente il dramma di una separazione e delle inevitabili conseguenze dolorose, ma ce ne sono vari altri tra cui il confronto tra classi sociali differenti, della soggezione che hanno le donne in una Repubblica integralista, della differenziazione tra uomini e donne nel modo di reagire al dolore e alla perdita, della realtà e l’apparenza vissuta in una società islamica, dalla vigliaccheria e dalla pavidità di fronte alla responsabilità da parte degli uomini. Ma l’originalità sta anche in una specie di effetto domino che scatta per una separazione solo apparente inizialmente e che provoca una morte, un arresto, uno svelamento da parte della figlia undicenne della vigliaccheria dell’amato padre. Tanti personaggi coinvolti e risucchiati (almeno quattro famiglie) per le conseguenze di una scelta.
Una regia perfetta senza invasioni di campo, quasi oggettiva e senza alcuna critica diretta allo stato delle cose, una sceneggiatura equilibrata scritta con intelligenza e bravura, un ottimo montaggio spiazzante e in funzione della storia, come bella è la fotografia. Il cast di attori è equilibrato, ben assortito e tutti sono convincenti e molto bravi, da segnalare Peyman Moadi (già visto in About Elly), Leila Hatami (Portrait of a lady far away), Sareh Bayat (la badante) e Sarina Farhadi (la figlia) entrambe vincitrici del Silver Bear come migliori attrici. La pellicola quest’anno ha vinto anche al Festival di Berlino l’Orso d’oro come miglior film e i due protagonisti hanno ottenuto sempre a Berlino il Premio come miglior attrice e miglior attore; a questi si devono aggiungere l’Ecumenical Jury Prize e il Peace Award College