Nel romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq il protagonista François, un professore universitario specialista di Huysmans, decide di trascorrere un periodo presso l’abbazia di Ligugé che aveva ospitato anche il suo autore prediletto dopo il ritorno alla fede durante la sua formazione spirituale. E’ del resto un momento delicato per François: posto forzatamente e anticipatamente in pensione dal nuovo governo islamista francese a causa della sua laicità, l’equilibrio della sua umbratile e moderatamente infelice esistenza di uomo senza qualità, non privo però di una sua arguzia, è messo gravemente a repentaglio. In un frangente del genere nulla di più naturale che cercare un po’ di raccoglimento e, per così dire, di abbeverarsi alle fonti che hanno ispirato il lavoro di una vita, anche se in François forse non c’è completa consapevolezza di questo bisogno.
Comunque sia, l’esperienza si rivela un completo fallimento. Infatti i tic e le mille piccole abitudini consumistiche di cui è schiavo gli impediscono non solo di apprezzare la comodità un po’ spartana della sua stanza nel convento, ma anche di concentrarsi sulla meditazione. In particolare l’impossibilità di fumare in stanza e il contestuale fastidio per i sensori antifumo si rivelano ostacoli insormontabili. Ecco allora che François si ritira dal ritiro ben prima di quanto previsto con un’uscita condotta secondo un perfetto stile da bigiata. Benché non sia particolarmente soddisfatto di ritrovare i propri concittadini, egli condivide tacitamente con loro un certo gusto per le comodità irrinunciabili che il mercato contemporaneo mette a disposizione del consumatore.
In fondo si potrebbe affermare senza cadere neanche eccessivamente nel paradosso che il ritiro nell’abbazia ha funzionato alla perfezione consentendo a François di conoscersi autenticamente: recatosi a Ligugé con l’idea di essere un misantropo in cerca di un senso profondo per la vita, scopre che la sua misantropia è molto più mondana e sociale di quanto credesse e che in definitiva essa non è nient’altro che la manifestazione del suo individualismo consumistico. A onore di François va detto che a seguito di questa epifania non si perde in psicodrammi da antieroe novecentesco, ma con postmoderno pragmatismo trae le sue conseguenze di questa scoperta: essa infatti è il passo logico immediatamente precedente a quello conclusivo del romanzo ossia la conversione del protagonista all’Islam per ragioni di carriera.
Non va condannato François per questo passo: il dilettantismo esistenziale dimostrato nell’abbazia e l’attaccamento puro e semplice alle cose e ai loro nomi senza neanche l’appiglio di qualche illusione offerta dall’ideologia dominante fanno letteralmente di lui uno sbandato. Purtroppo per lui a differenza del protagonista de Le particelle elementari François non crede al progresso. Come ogni sbandato egli è nave senza velo e senza governo spinta dal vento che vapora non povertà nel suo caso, ma l’insignificanza dell’esperienza. In effetti, il sistema di relazioni di François assomiglia pericolosamente a quello di un emarginato nella sua strumentalità e irregolarità; c’è una certa comunanza, per esempio, tra la sua situazione emotiva e relazionale e quella del protagonista del Diario di un senza fissa dimora di Marc Augé, che finisce a dormire in macchina. Ora il problema ovviamente è capire se Houellebecq abbia tratteggiato un caso individuale, per quanto interessante, o una sorta di miniatura, di sineddoche della vita contemporanea.
Di Houellebecq si dice, soprattutto in relazione a questo romanzo, che sia un islamofobo; personalmente non sono convinto che sia vero, ma mi rendo conto che nel corso degli anni ha rilasciato tutta una serie di dichiarazioni, immagino più che altro per scopi promozionali, che hanno costruito questa sua nomea. Comunque la si pensi, deve essere chiaro che tra Houellebecq e un’Oriana Fallaci e un Thilo Sarrazin si frappone la complessità del discorso letterario al di là delle sue posizioni politiche vere o presunte. E’ il criterio di lettura che suggerisce Engels a proposito di Balzac, allorché ne sottolinea la capacità di cogliere e rappresentare le tendenze della società a prescindere dalle proprie opinioni politiche e ideologiche. In questo senso il ritratto dei gruppi dirigenti francesi che emerge da Sottomissione è quello di un ceto disposto a qualsiasi azione e a qualsiasi compromesso pur di mantenere almeno parzialmente i propri vantaggi economici e sociali. Ogni loro tattica sembra essere orientata a questo fine senza alcuna altra strategia di più ampio respiro e lo sbandamento di François non sembra essere che il corrispondente sul piano individuale di questa assenza di strategia.
Peraltro il fallimento del soggiorno di Ligugé appare determinato dall’inconsapevole conflitto di due ordini di aspettative, l’una turistica e l’altra spirituale, che si risolve con la vittoria della prima. Del resto anche l’organizzazione dell’ospitalità nell’abbazia, sospesa a metà tra il modello alberghiero e quello conventuale, alimenta in qualche misura il conflitto tra questi due ordini di aspettative. Ma cosa vuol dire in concreto che l’aspettativa turistica prevale sull’altra? Che l’esperienza del viaggio e dell’altro da sé non può sussistere che in forma di merce.
Fin qui si potrebbe dire null’altro che una banalità sociologica, ma l’aspetto interessante è che questo turisticizzazione dell’esperienza non avviene in un personaggio culturalmente fragile o in un benpensante, ma in uno studioso, un intellettuale che sa di compiere non un semplice viaggio, ma una raffinata citazione di Huysmans: circostanza tanto più notevole quanto più tutti i critici della società dei consumi e dell’estetica della merce hanno sempre sorvolato sul grado di coinvolgimento dei ceti intellettuali in questi meccanismi. Non si tratta però di una polemica antintellettualistica, ma, in virtù dell’autostraniamento con la quale è condotta la narrazione in prima persona, della constatazione di quella che è ormai diventata una seconda natura di tutta la popolazione francese o meglio occidentale. Infatti quando Myriam, la studentessa ebrea amante di François in procinto di trasferirsi con la famiglia in Israele dopo che il primo turno delle presidenziali ha mandato al ballottaggio Marine Le Pen e il candidato islamista, a casa di lui si lancia in un suo commosso Addio monti alla Francia nell’evocare le ragioni del suo attaccamento per la propria patria non trova altro da citare che il proprio amore per il formaggio e François da par suo la rincuora dicendo che ne ha in frigorifero. Qui sembrerebbe quasi che Houellebecq sia tentato da una via flaubertiana alla critica del capitalismo e dell’estetica delle merci.
E insomma appare chiaro e proprio questo lo rende un personaggio tipico, almeno in una lettura tendenziosa come la mia che esclude tutta la componente fantapolitica del romanzo, che il turista dell’esistenza François in mancanza di approdi alternativi non può che convertirsi all’Islam per mantenersi fedele alla sua vera religione ossia il capitalismo. E questa seconda religione si staglia come un contorno sfumato di ombre dietro alla fantasmagoria della descrizione dell’ascesa al potere dell’islamismo, ma va dato atto a Houellebecq che solo uno scrittore apolitico e radicalmente ossessivo come lui avrebbe potuto cogliere il tema dell’individualismo delle nostre società nella sua integralità svolgendolo in maniera spietata e rappresentando così le tendenze sociali dominanti del nostro tempo.