All’indirizzo che ho in tasca corrisponde la casa di Jaime Riera, scrittore, traduttore, docente universitario in pensione, ma soprattutto, ragione principale per cui l’ho contattato, amico dell’autore su cui farò la tesi della specialistica: Roberto Bolaño.
Riera mi accoglie con un sorriso e una domanda: “Com’è leggere Bolaño a vent’anni?”. Gli rispondo: “Com’era avere vent’anni quando fu pubblicato Rayuela?”.
Prepara un caffè e parliamo di Bolaño con entusiasmo, di Cortázar con affetto, di Isabel Allende con ironia, dei paesaggi del Cile e di quelli inventati dell’esilio. Gli chiedo se i poeti preferiti di Bolaño, Nicanor Parra e Mario Santiago (l’Ulises Lima dei Detective), siano stati tradotti in italiano, risponde con rammarico: “Poco, e tanto tempo fa. La poesia non vende.” Si alza dalla poltrona ed esce dalla stanza. Torna con una torre di libri: edizioni cilene e messicane, oramai introvabili, e un dattiloscritto, con le correzioni a mano dell’autore, del Tercer Reich. Sfoglio le pagine con voracità e cautela, mentre Riera dispensa consigli di lettura e aneddoti: “Leggi i classici, ma non dimenticare i contemporanei. Leggi Borges, Sabato e Juan Rulfo, leggi Lagioia, che è il Bolaño italiano”.
“Una volta”, prosegue, “proprio qui a Torino, in occasione del Salone del Libro del 2003, Bolaño, il teppista della letteratura, lo scrittore che i libri amava leggerli, più che scriverli, ma che detestava parlare dei propri davanti a un pubblico incravattato, si divincolò dai fan e mi raggiunse: trascorremmo il resto del pomeriggio a ricordare assieme la formazione dei Palestino e dei Magallanes, in un campionato della serie B cilena di oltre trent’anni prima. Roberto aveva una memoria fuori del comune”. Gli domando qualcosa in più sul suo carattere. “Molto simpatico, una persona assolutamente incantevole, e decisamente polemica” mi risponde e prende dell’altro caffè.
“Quello che hai in mano è un romanzo perfetto” è la sua osservazione quando prendo Estrella distante. Passo a El gaucho insufrible e mi spiega che El policía de las ratas è stato l’ultimo racconto scritto dall’autore; il libro era stato consegnato all’editore pochi giorni prima di morire. Sono sommersa dai libri e dalle storie. Mi porge i libri che non avrei osato chiedergli e mi prega, però, di non fare come Roberto, che i libri li rubava. Sorrido e gli dico di non temere: mio fratello mi ha insegnato, quando avevo appena undici anni, il rispetto per i libri, specie per quelli altrui.
Mi accompagna alla porta, lo ringrazio e gli assicuro che non sarei sparita. Arrivata a casa, svuoto lo zaino, pieno di libri e buone notizie, e inizio a leggere Bolaño por sí mismo, edizione dell’Università di Santiago del Cile, che raccoglie interviste all’autore, di cui alcune tradotte in italiano in Tra parentesi (Adelphi) e L’ultima conversazione (Edizioni SUR).
Quella che segue è la traduzione, inedita in Italia, dell’intervista, pubblicata nel settembre 1999 sulla rivista spagnola Qué leer, di Óscar López a Roberto Bolaño. Buona lettura.
“Chiaro: ho bisogno di fumare”
Intervista di Óscar López. Rivista Qué Leer, Barcellona, settembre 1999
Perché scrivi?
Me lo sono chiesto più volte negli ultimi vent’anni e non ho una risposta.
È una dipendenza? Un’ossessione?
Né una cosa né l’altra. C’è un momento in cui si trasforma in un’ossessione, ma all’inizio no.
È una terapia?
No, è un lavoro.
Scrivi anche per i soldi?
Ovviamente sì.
Come scrivi?
Al computer, ma ci sono cose, a volte, che scrivo a mano, generalmente quando non si tratta di creare.
Hai un orario fisso per scrivere?
Al mattino. Comincio a lavorare quando mio figlio va a scuola. A mezzogiorno stacco per andare a prenderlo. Quando sono totalmente immerso in un lavoro, però, dormo nello studio e posso mettermi a scrivere alle cinque di mattina e continuare fino alle undici.
Sei molto disciplinato?
Molto. Ma lo sono all’interno di un caos assoluto, perché, in tutta la mia vita, ciò che meno sono stato è disciplinato.
Ascolti musica mentre scrivi?
Sì, generalmente rock.
Hai qualche mania mentre scrivi?
Ascolto musica con gli auricolari e a tutto volume. Inoltre, non posso mettermi a scrivere senza prima prendere una tisana alla camomilla col miele. Se non ne ho, non riesco a lavorare fino a quando non vado a comprarla. E poi il tabacco, chiaro: ho bisogno di fumare.
Quante pagine scrivi in una giornata?
Normalmente tre. Se mi va bene, una decina. Se mi va male, una.
Ti risulta difficile scrivere fuori del tuo luogo di lavoro abituale?
Molto. Quando viaggio non scrivo.
Credi nell’ispirazione o nella costanza?
Nella costanza. Ma quando arriva l’ispirazione ti rendi conto che la costanza è una vera merda. Quello che bisogna fare è provocare l’ispirazione, e per farlo bisogna essere costante.
Riscrivi molto?
Moltissimo. Quando riscrivo mi rendo conto di quanto io sia un cattivo scrittore. Ho visto manoscritti di Faulkner o di Proust senza nemmeno una correzione. Anche se più incredibile di loro è Stendhal, che scrisse La certosa di Parma alla prima stesura, in cinquantatré giorni. Roba da mettersi a piangere.
Ti dà fastidio leggere altri autori mentre scrivi?
No, il fatto è che mentre sono concentrato su un romanzo mi conviene non leggere certi autori, come Cortázar, quello che più mi piace fra i contemporanei. Quando lo leggo non posso evitare di scrivere come un argentino.
Ti fa paura la pagina bianca?
No, per niente.
A quale oggetto del tuo studio sei particolarmente affezionato?
Al computer, dico sul serio.
Come scrittore ti consideri un voyeur?
Come scrittore e come persona.
Di solito dove trovi gli argomenti per le tue storie?
Generalmente nella vita, mia e degli altri, che poi in fondo è lo stesso. Borges ha già detto che ci sono solo quattro o cinque argomenti.
Hai il controllo sui tuoi personaggi o ti lasci trascinare?
Ne ho il controllo. Quelli che scappano sono piuttosto fastidiosi. Una volta, infatti, uno mi rovinò un romanzo intero.
Strutturi molto i tuoi libri?
Molto. Anni prima di mettermi a scrivere un romanzo, di solito, l’ho già tutto in testa.
Ti risulta difficile trovare i titoli?
Generalmente no, ma qualche volta ho avuto problemi. Per me è più facile scrivere se so già quale sarà il titolo.
Soffri del vuoto da postparto letterario?
No, per niente. Quello che detesto è il postparto commerciale, perché mi obbligano a parlare di un romanzo che ho scritto tempo addietro e che ho già dimenticato. E, addirittura, mi obbligano a difenderlo. Se vincessi quattrocento milioni alla lotteria, vedrebbero. La smetterei con la scrittura. Scriverei solo poesia, quattro o cinque poesie perfette, questo sì. Vivere è un miracolo irripetibile e scrivere, invece, è abbastanza una merda. Se uno scrittore scrive prosa, che è la cosa più noiosa della scrittura, lo fa per i soldi. Tanto più che la cosa meravigliosa della letteratura è essere lettore.
Pensi al lettore mentre scrivi?
No, a volte penso ad alcuni determinati lettori, generalmente amici, anche se poi non leggono quello che scrivo finché non viene pubblicato. I miei manoscritti li leggono solo mia moglie, perché me lo chiede, e il mio editore.
T’infastidisce dover coniugare la professione di scrittore con altre attività parallele?
Molto. La risposta letterale dovrebbe essere questa: “Sì, molto. È una rottura di palle”.
Scrivi più libri contemporaneamente?
Di solito combino racconto e romanzo, perché ora, per me, scrivere poesia è un lusso. Nell’ultimo anno ne ho scritta soltanto una.
La tua opinione riguardo ai premi è cambiata da quando hai vinto il Premio Herralde?
Dei premi grandi ho, in generale, una cattiva opinione. Ma prima di cominciare a pubblicare prosa per Seix Barral ho passato due o tre anni vivendo di quello che guadagnavo con i premi dei concorsi di provincia. Erano premi di terza classe, ma per me sono i premi autentici, quelli a cui sono profondamente grato.
(Traduzione di Giorgia Esposito)