Dopo la fine dell’Urss e la caduta del muro molti pensarono che le Carrè non avrebbe più saputo che cosa e di che cosa scrivere, perché la guerra fredda era stata la fonte e la materia prima della sua invenzione narrativa. Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata sull’Occidente e sulle sue malefatte: quelle dei colossi farmaceutici, delle banche truffaldine, delle multinazionali (che magari coltivano, come nel recente Il nostro traditore tipo, segreti legami con la mafia russa).
In realtà anche nei romanzi scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei valori (del non rispetto dei valori) dell’Occidente. Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli alla luce della contrapposizione tra i due blocchi e attraverso le imprese dei rispettivi agenti segreti, come liberato dal dovere di stare “dalla nostra parte”, le Carré ha mantenuto schemi e forma del genere spionistico per applicarli a quel tipo di invenzione narrativa che è propria del grande romanzo. Ha messo la suspense al servizio della rappresentazione del mondo di fine Novecento e di inizio del terzo millennio, cogliendone trasformazioni e infamie.
L’undici settembre ha drammaticamente mutato il modo con cui l’Occidente si è posto nei confronti del mondo musulmano e lo ha indotto a ripensare se stesso in rapporto a un altro da sé visto come nemico. Forse anche molti di noi, animati dai valori di tolleranza e di rispetto per l’altro, hanno in qualche misura accantonato quei valori almeno di fronte agli eventi o alle circostanze più tragiche. Gli stati, con il dovuto ricorso ai proclami retorici del caso, quei valori li hanno spesso completamente ignorati. Per cui non c’è da stupirsi del fatto che i servizi segreti, quelli americani, ma a ruota anche quelli inglesi, abbiano adottato sistemi inconfessabili per “sistemare” tutto ciò che pensavano avesse a che fare con la minaccia terroristica.
Nei suoi romanzi le Carré, che ha voluto colpire alcune delle trasformazioni più preoccupanti e spesso criminose di questi ultimi vent’anni, non poteva quindi non riflettere anche sulle conseguenze dell’undici settembre, sulle scelte dell’Occidente di fronte al “terrorismo globale”: tale riflessione è al centro di Amici assoluti e di Yssa il buono, da cui è stato tratto il film in arrivo tra poco nelle nostre sale. E la ritroviamo anche nel suo ultimo romanzo, Una verità delicata, che in Italia non ha avuto grande successo (Mondadori, traduzione di Mariagiulia Castagnone). Forse anche a causa del titolo, che suona come quello dell’originale, A Delicate Truth, ma che non dice molto (mentre avrebbe sicuramente funzionato di più un titolo come Il terrorista inesistente, oppure La donna di Gibilterra…). Forse, tuttavia, la ragione sta ancor più nel fatto che il romanzo, questa volta, è concentrato sul mondo inglese. Sono inglesi quasi tutti i personaggi della vicenda, è inglese il teatro dell’azione (l’ex-colonia di Gibilterra, Londra, la Cornovaglia), è inglese la rete di corruzione che avvolge buona parte della classe dirigente (a partire dal ministro Fergus Quinn), è inglese l’obiettivo dell’atto di accusa di le Carré, cioè il New Labour, colpevole di avere seguito servilmente le scelte di Bush in Iraq.
Il giovane ministro Quinn, dinamico, aggressivo, suadente, spregiudicato, è portatore degli aspetti più negativi del partito di Blair (al punto da ritenere possibile che avesse intenzione di “denunciare la follia delle manifestazioni di piazza”). Non c’è niente di ideologico, tanto meno di ideale nelle sue scelte. Non c’è neppure modo di pensare che agisca secondo il principio per cui il fine (ideale) giustifica i mezzi. Il suo fine è il potere personale e la ricchezza. Questo, fa capire le Carré, è dovuto non tanto alla sua indole quanto al contesto politico a cui appartiene, al fare parte di un partito che (come il Psi di Craxi) della sua gloriosa tradizione ha mantenuto solo il nome.
La vicenda di Una verità delicata ha inizio nel 2008, a Gibilterra, dove ha luogo un’operazione di anti-terrorismo (“Operazione Wildlife”) diretta a catturare un mercante d’armi che ha a che fare con la Jihad. L’operazione è gestita da un’immaginaria organizzazione privata americana, Ethical Outcomes (Executive Outcomes è il nome di quella sudafricana davvero esistente), perché ormai anche per quanto riguarda l’anti-terrorismo la strada seguita è quella dell’outsourcing. Un funzionario del ministero degli Esteri, Kit Probyn, viene mandato a Gibilterra per presenziare all’operazione in qualità di “voce ufficiale” dell’autorità inglese sul territorio inglese di Gibilterra. Probyn, che a operazione conclusa aveva ricevuto un prestigioso incarico nei Caraibi ed era stato insignito del cavalierato (“Sir Christopher Probyn”) si era ritirato a vivere con la moglie nella sua bella magione in Cornovaglia. Tre anni dopo, contattato da Toby Bell, segretario particolare di Fergus Quinn, il ministro che era stato in stretto rapporto con Ethical Outcomes per l’Operazione Wildlife, si rende conto di non avere capito nulla di ciò che era accaduto.
Il giovane Toby è un po’ troppo idealista: vuole scoprire la “vera nuova identità” del suo paese dopo la fine dell’impero e la fine della guerra fredda, ritiene che la guerra in Iraq sia stata “illegale e immorale” e pensa che sia ingiusto spargere sangue innocente in nome del superiore interesse della nazione. Suppone anche che tra i mezzi usati contro i prigionieri sospettati di terrorismo ci sia la tortura. E si chiede quale sarebbe la differenza “tra chi applica gli elettrodi e chi, seduto dietro a una scrivania, finge di non sapere quello che succede”. Nessuna differenza, naturalmente, come Maugham già aveva spiegato in Ashenden l’inglese più di ottant’anni prima: “i pezzi grossi… chiudevano gli occhi dinanzi al lavoro sporco, così da poter mettere le loro mani pulite sul cuore e rallegrarsi con se stessi di non avere mai fatto qualcosa che non si addicesse a uomini d’onore”.
Toby sapeva dell’Operazione Wildlife perché aveva azionato un vecchio registratore, “appartenente all’era predigitale della Guerra fredda”, per registrare le parole di Fergus Quinn che istruiva Probyn e Jeb, il militare incaricato di guidare il drappello di soldati inglesi sulla Rocca di Gibilterra; ma sarebbero stati gli americani di Ethical Outcomes a compiere l’operazione. Toby non sapeva però come poi erano andate le cose. Il dubbio è che, per sbaglio, siano stati uccisi una donna e il suo bambino. Se così è stato, Toby vuole che venga rivelata quella non poco “imbarazzante verità”. E lo vuole anche Probyn, una volta che si è reso conto di cosa era davvero accaduto.
Poiché Una verità delicata è anche un thriller, è opportuno fermarsi qui. Ma è comunque lecito anticipare che (cosa per altro non sorprendente) lo svelamento di quella imbarazzante verità troverà il suo ostacolo maggiore nello stesso apparato dello stato. Il quale si muoverà a difesa non tanto delle persone coinvolte, ma dell’istituzione stessa, che non può permettere che si sappia cosa è accaduto – e con quali complicità. A differenza del corrispondente apparato italiano, che sistematicamente tutto ha nascosto e depistato, quello inglese sembra avere un suo rigore “protestante”; ma il livello omertoso è lo stesso.
Una verità delicata è un romanzo scritto magistralmente, con un intrigante spostamento dei punti di vista e dei tempi stessi della narrazione, con uno stile avaro di ornamenti e prodigo di sottintesi, con una capacità straordinaria di dare una “voce” diversa ai diversi personaggi della vicenda. Un romanzo che, come quelli che le Carrè ha scritto negli ultimi vent’anni, fornisce un formidabile ritratto del mondo contemporaneo, dipingendolo con i colori di un’indignazione morale che è stata definita dickensiana. Le Carré non è “uno scrittore di thriller”: è uno dei maggiori romanzieri inglesi degli ultimi sessant’anni.