Le chiese sono state sontuosamente restaurate e un grande crocifisso è appeso in alto, sopra la strada principale. “Sposo del paradiso”, proclama un cartellone che contiene la foto di un soldato cristiano ucciso nel corso del conflitto durato sette anni. Nei loro sermoni i patriarchi ortodossi elogiano Assad per aver salvato una delle più antiche comunità cristiane del mondo.
Homs, come tutte le città riconquistate dal governo, appartiene oggi perlopiù alle vittoriose minoranze della Siria: cristiani, sciiti e alawiti (una corrente esoterica dell’islam sciita, a cui appartiene Assad). Questi gruppi si sono uniti contro i ribelli, che sono quasi tutti sunniti, e li hanno cacciati dalle loro città. I civili sunniti, che un tempo erano un’ampia maggioranza, li hanno seguiti. Più di metà dei 22 milioni di abitanti del paese sono diventati profughi: 6,5 milioni all’interno della Siria e più di sei milioni all’estero. La maggior parte di loro è sunnita.
La riconquista delle rovine
Le autorità sembrano decise a mantenere questo nuovo equilibrio demografico. Quattro anni dopo che il governo ha ripreso Homs, gli abitanti hanno ancora bisogno di permessi di sicurezza per poter tornare e ricostruire le loro case. Pochi sunniti li ottengono. Quelli che ci riescono hanno poco denaro per rifarsi una vita. Alcuni partecipano alle messe cristiane, sperando nell’elemosina o in visti per l’occidente da parte di vescovi con contatti all’estero. Anche questi sunniti sono guardati con sospetto. “Vivevamo così bene prima”, dice un insegnante cristiano di Homs. “Ma come puoi convivere con un vicino che dal giorno alla notte ha cominciato a chiamarti kafir (infedele)?”.
Anche nelle zone meno colpite dalla guerra, la Siria sta cambiando. La città vecchia di Damasco, la capitale del paese, è una sorta di testamento architettonico dell’islam sunnita. Ma le milizie sciite sostenute dall’Iran e che combattono per Assad hanno allargato il quartiere sciita della città, coprendo anche aree sunnite ed ebraiche. Ritratti di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, milizia sciita libanese, sono appesi nelle moschee sunnite. I muri sono coperti di pubblicità per pellegrinaggi nei luoghi santi sciiti. Nei nuovi caffè della città gli avventori notano a malapena il suono dei caccia militari che dal cielo bombardano i sobborghi controllati dai ribelli. “Adoro questo rumore”, dice una donna cristiana che lavora per l’Onu. Come gli altri lealisti del regime, vuole vedere puniti i “terroristi”.
Gli uomini di Assad hanno riconquistato l’ultima roccaforte ribelle intorno a Damasco a maggio. Oggi Assad controlla la spina dorsale del paese, da Aleppo nel nord fino a Damasco nel sud, quel che i colonizzatori francesi chiamavano in passato “la Syrie utile” (la Siria utile). I ribelli sono confinati in sacche di resistenza lungo i confini meridionali e settentrionali. Di recente il governo li ha attaccati nella provincia sudoccidentale di Daraa.
Il governo adotta toni trionfalistici. Anche se ha perso alcune aree, è sopravvissuto alla guerra rimanendo perlopiù intatto. Gli uffici statali funzionano. Nelle aree rimaste sotto il controllo di Assad, le forniture elettriche e idriche sono molto più affidabili che in buona parte del Medio Oriente. I funzionari prevedono che l’anno prossimo la produzione di gas naturale supererà i livelli prebellici. Il museo nazionale di Damasco, che aveva messo sotto chiave i suoi preziosi reperti per proteggerli, si sta preparando a riaprire le porte. La ferrovia tra Damasco e Aleppo potrebbe riprendere a funzionare quest’estate.
Per festeggiare la festa nazionale il 17 aprile, l’antica cittadella di Aleppo ha accolto un festival per la prima volta dall’inizio della guerra. Bande dell’esercito, corpi di ballerine, cori di bambini e una cantante d’opera svizzera (di origini siriane) si sono ritrovati sul palco. “Solo Dio, Siria e Bashar”, scandiva la folla agitando bandiere, mentre lo schermo mostrava immagini della battaglia per la riconquista della città. Ai piedi della cittadella, le rovine si estendevano a perdita d’occhio.
Bashar il distruttore
Assad ha vinto la guerra assicurandosi il controllo del centro delle città e poi attaccando militarmente le periferie controllate dai ribelli. Sull’autostrada che unisce Damasco e Aleppo, città e villaggi giacciono desolati. Un nuovo strato di città morte si è aggiunto a quello di epoca romana. Il regime non ha né il denaro né la forza lavoro per ricostruire. Prima della guerra la crescita economica della Siria era quasi del 10 per cento all’anno e il pil annuo era di sessanta miliardi di dollari. Oggi l’economia si è molto ridotta. Il pil è stato di 12 miliardi nel 2017 e il costo della ricostruzione è stimato intorno ai 250 miliardi.
Il traffico è scorrevole nelle strade un tempo congestionate di Aleppo, nonostante i posti di blocco. La sua popolazione prima della guerra era di 3,2 milioni di abitanti. Oggi è inferiore ai due milioni. Anche altre città si sono svuotate. Gli uomini sono stati i primi ad andarsene, molti per fuggire la leva militare e il loro probabile invio al fronte. Come accaduto in Europa dopo la prima guerra mondiale, la forza lavoro siriana è oggi costituita soprattutto da donne, che sono più di tre quarti degli effettivi nel ministero per gli affari religiosi, in passato una roccaforte maschile, spiega il ministro. Ci sono idrauliche, tassiste e bariste.
Milioni di siriani rimasti in patria sono invalidi o traumatizzati. Quasi tutte le persone con cui ho parlato hanno seppellito un parente. Gli psicologi evocano il rischio di un crollo nervoso di tutta la società. La guerra, separando le famiglie, ha fatto impennare il numero di divorzi. Sono aumentati i bambini che chiedono l’elemosina in strada. Quando i jihadisti si ritirano, i negozi di alcolici sono i primi a riaprire.
Assad, tuttavia, più che alla ricostruzione, sembra interessato a ricompensare i lealisti con le proprietà abbandonate dai sunniti in fuga. Ha distribuito migliaia di case vuote a miliziani sciiti. “I terroristi dovrebbero rinunciare ai loro beni”, sostiene una donna d’affari cristiana, a cui è stato dato un caffè elegante che apparteneva alla famiglia di un disertore sunnita. Un nuovo decreto, chiamato legge dieci, legittima la confisca di questi beni. I titolari di diritti di proprietà dovranno rinunciare ai loro beni se non saranno in grado di registrarli di nuovo, un compito difficile per i milioni di persone che hanno lasciato il paese.
Un problema simile a quello palestinese
La misura deve ancora essere applicata, ma i profughi la paragonano alla legge sulle proprietà degli assenti in Israele, che permette al governo d’impadronirsi delle proprietà dei profughi palestinesi. I funzionari siriani, naturalmente, non accettano un simile confronto. Il partito al potere, il Baath, sostiene di rappresentare tutte le religioni e le sette della Siria. Gli alawiti hanno guidato il paese fin dal 1966, ma i sunniti hanno ricoperto cariche importanti nel governo, nell’esercito e nelle aziende. Anche oggi molti sunniti preferiscono il governo laico di Assad a quello dei ribelli islamisti.
I siriani hanno notato che le scelte politiche sono diventate più settarie dall’inizio delle proteste a favore della democrazia nel marzo del 2011. Le prime manifestazioni avevano attirato centinaia di migliaia di persone di fedi differenti, e il regime aveva infiammato le tensioni tra i gruppi per dividere l’opposizione, accusando i sunniti di voler imporre un sistema maggioritario in cui chi vince controlla tutto. Alcuni jihadisti erano stati scarcerati per inquinare la rivolta. A mano a mano che il governo diventava più violento, lo stesso succedeva ai manifestanti. Stati sunniti come la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno fornito armi, denaro e predicatori. I sostenitori della linea dura avevano estromesso i moderati. Alla fine del 2011 le proteste erano degenerate in una guerra civile settaria.
All’inizio le minoranze avevano cercato di non attirare l’attenzione per evitare di essere prese di mira. Le donne avevano indossato il velo. Gli imprenditori non musulmani avevano accettato la richiesta dei dipendenti sunniti di aprire delle sale di preghiera. Ma mentre la guerra infuriava, le minoranze hanno ripreso fiducia. I soldati alawiti oggi mostrano sulle loro braccia i tatuaggi dell’imam Ali, che considerano il primo imam dopo il profeta Maometto (i sunniti la vedono diversamente). Le donne cristiane di Aleppo si vestono come preferiscono. “Prima non avremmo mai chiesto a nessuno la sua religione”, dice un funzionario a Damasco. “Mi duole ammettere che oggi lo facciamo”.
Quest’anno 920mila persone hanno già lasciato le loro case, secondo l’Onu
Il gran muftì del paese è sunnita, ma dopo la rivoluzione i sunniti con incarichi di alto livello sono diminuiti. La scorsa estate Assad ha sostituito il presidente della camera sunnita con un cristiano. A gennaio ha rotto la tradizione nominando un alawita, invece di un sunnita, ministro della difesa.
Ufficialmente il governo è felice di accogliere il ritorno dei profughi siriani, indipendentemente dalla loro religione o confessione. “Le persone che non hanno le mani macchiate di sangue saranno perdonate”, dice un ministro sunnita. Circa 21mila famiglie sono tornate a Homs negli ultimi due anni, secondo il suo governatore, Talal al Barazi. Ma in tutto il paese il numero degli sfollati siriani sta aumentando. Quest’anno 920mila persone hanno già lasciato le loro case, secondo l’Onu. Altre 45mila sono scappate dai recenti combattimenti a Daraa. Milioni di persone potrebbero seguire se il regime cercherà di riconquistare altre enclave ribelli.
Campi d’internamento
Quando l’esercito siriano ha ripreso la Ghuta orientale, a est di Damasco, all’inizio dell’anno, il governo ha detto ai 400mila abitanti che potevano fuggire verso aree controllate dai ribelli nel nord o accettare la sua offerta di protezione: un’espressione che in realtà era un eufemismo per indicare l’internamento. Decine di migliaia di persone sono rimaste “prigioniere” nei campi, secondo l’Onu. “Abbiamo rinunciato a una prigione più grande per una più piccola”, dice Hamdan, che vive con la sua famiglia in un campo ad Adra, al confine con la Ghuta orientale. Dormono sotto un telo nel cortile di una scuola, insieme ad altre due famiglie. Alcuni uomini armati fanno la guardia agli ingressi, controllando le cinquemila persone che vivono all’interno.
Il responsabile del campo, un funzionario cristiano, sostiene che gli internati possono andarsene quando sono completati i controlli di sicurezza che li riguardano, ma non sa dire quanto tempo sia necessario. Per tornare a casa serve un secondo esame. Intrappolato e impotente, Hamdan teme che il regime e i suoi sostenitori prendano possesso dei suoi raccolti, e poi della sua terra. I profughi temono che gli sarà impedito per sempre di tornare nel loro paese d’origine. “Siamo i nuovi palestinesi”, dice Taher Qabar, uno dei 350mila siriani accampati nella valle della Beqaa, in Libano.
Secondo alcuni Assad, con meno sunniti da temere, potrebbe ammorbidire il suo pugno di ferro. A Damasco, alcuni ministri sostengono che il cambiamento sia inevitabile, citando una modifica della costituzione che permette formalmente una politica multipartitica. Ci sono alcuni segnali positivi. Associazioni locali, un tempo vietate, si occupano degli sfollati. I mezzi d’informazione di stato rimangono orwelliani, ma internet non conosce limitazioni e i social network garantiscono una comunicazione senza filtri. Nei caffè gli studenti criticano apertamente il regime. “Perché Assad non manda suo figlio Hafez al fronte?”, si chiede sarcastico uno studente bocciato agli esami universitari: se li avesse superati avrebbe potuto continuare gli studi ed evitare l’arruolamento.
A chi fa bene la guerra?
Un decennio fa Assad accarezzava l’idea di una infitah (liberalizzazione), che secondo i suoi consiglieri ha avuto l’unico risultato di permettere agli estremisti sunniti di costruire enormi moschee per diffondere i loro discorsi d’incitamento all’odio. Oggi non ha alcuna intenzione di ripetere l’errore. Ritratti del presidente intento ad ascoltare con attenzione sono presenti nelle strade siriane e in buona parte degli uffici e dei negozi.
I posti di blocco, introdotti come uno strumento per stroncare la rivolta, controllano i movimenti come mai era accaduto prima. Gli uomini di meno di 42 anni devono pagare se non vogliono essere inviati al fronte. La richiesta di pedaggi è così diffusa che i diplomatici parlano di “economia da posto di blocco”.
Dopo aver resistito alle pressioni per accettare un compromesso quando stava perdendo, Assad non vede alcun motivo di farne oggi. Ha rigettato varie proposte per un processo politico di soluzione del conflitto – promosso dai mediatori dell’Onu e dagli alleati russi – che includerebbe l’opposizione sunnita. A gennaio, nel corso dei negoziati a Soči, ha annacquato i piani per la creazione di un comitato costituzionale, sostenendo che debba essere solo consultivo e con sede a Damasco. I suoi consiglieri usano eufemisticamente i termini “riconciliazione” e “amnistia” per indicare la resa e i controlli di sicurezza. Assad non ha ancora delineato un piano per la ricostruzione.
Il presidente siriano sembra sempre più stanco dei suoi alleati. L’Iran si è opposto all’invito della Russia perché le forze straniere abbandonino il paese. Ma Teheran rifiuta di rinunciare al comando di 80mila miliziani stranieri sciiti. Gli scontri tra le milizie e le truppe siriane hanno causato vari morti, secondo alcuni ricercatori del King’s college di Londra. Avendo sconfitto gli islamisti sunniti, gli ufficiali dell’esercito affermano di non aver alcuna intenzione di soccombere a quelli sciiti. Gli alawiti, in particolare, non sembrano impressionati di fronte all’azione di evangelizzazione degli sciiti. “Non preghiamo, non digiuniamo durante il Ramadan e beviamo alcool”, dice uno di loro.
Nel nordovest, l’esercito turco offre una parziale protezione ad Hayat tahrir al Sham, un gruppo legato ad Al Qaeda, e ad altri ribelli sunniti. Gli ufficiali statunitensi e francesi coordinano una forza a maggioranza curda a est del fiume Eufrate. I ribelli sunniti che si trovano in prossimità delle alture del Golan agiscono come tampone per Israele e Giordania. In teoria il territorio è classificato come “zona di contenimento del conflitto”. Ma in quest’area si registra una nuova intensificazione della violenza.
Nuove offensive da parte dell’esercito governativo rischiano di trascinare le potenze straniere ancor più dentro al conflitto. La Turchia, Israele e gli Stati Uniti hanno tracciato delle linee rosse intorno ai ribelli che si trovano sotto la loro protezione. La prosecuzione delle operazioni iraniane in Siria “sarebbe la fine del regime di Assad”, ha dichiarato il ministro israeliano Yuval Steinitz, dopo il bombardamento israeliano delle basi iraniane nel paese. Israele potrebbe accettare di non opporsi alle operazioni del regime a Daraa, al fine di mantenere gli iraniani fuori da quest’area.
Per Assad ci potrebbero essere scelte peggiori della guerra. La continuazione dei combattimenti creerebbe nuove opportunità per ricompensare i lealisti e piegare la composizione demografica della Siria alla sua volontà. I vicini, come il Libano e la Giordania, e i paesi europei potrebbero finire per preferire il dittatore invece che affrontare una nuova ondata di profughi. Ma, soprattutto, la guerra ritarda il momento in cui Assad dovrà dire come pensa di ricostruire il paese che ha voluto così ingiustificatamente distruggere.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.