Scendi al bar?” Quando Valentino ti diceva questa frase, incrociandoti nel corridoio della redazione del manifesto a via Tomacelli a Roma, sapevi già che voleva parlarti di una questione seria a proposito della linea politica del giornale, o delle difficoltà economiche, o dei rapporti non sempre idilliaci tra compagni. Perché Vale è sempre stato l’unico, tra i fondatori del manifesto, a curarsi dei giovani redattori. Se un compagno stava male, era Valentino a procurarti la visita con il celebre luminare, a farti saltare la lista d’attesa nel famoso centro chirurgico. Delle tue difficoltà economiche non parlavi con Luigi (Pintor) o Rossana (Rossanda): no, scendevi al bar con Vale e con lui cercavi una soluzione (quando sono entrato io nel manifesto, nell’agosto 1980, Luciana Castellina e Lucio Magri già erano usciti dal giornale, mentre Aldo Natoli veniva solo a collaborare di tanto in tanto). Detto fuori dai denti: Valentino è il più umano tra i padri del manifesto.
Forse perché, nato nel 1931, Valentino tra i fondatori era uno dei “giovani”: Natoli era nato nel 1913, Rossanda nel 1924, Pintor nel 1925, Eliseo Milani nel 1927, Castellina nel 1929. Solo Lucio Magri era di un anno più giovane di lui. Forse per questo Rossana e Luigi lo trattavano sempre come un “fratello minore” mentre, rispetto alla generazione dei redattori allora trentenni, i cinquantenni Valentino (e Michelangelo Notarianni) si vedevano nella parte degli “zii” di questi sessantottini casinari e rissosi.
Una simile posizione non era facile per un carattere, profondamente siciliano, come quello di Valentino, che da un lato era di una fedeltà assoluta, anche se riservata, sottotraccia, e dall’altro non dimenticava tanto facilmente i torti e condonava sì, ma senza realmente perdonare. Ogni tanto dalle sue reazioni, dai suoi racconti, emergevano l’infanzia e la giovinezza vissute a Tripoli, da una famiglia di coloni siciliani appunto (suo padre era un funzionario del fisco). Qualche suo ricordo era addirittura fantasmagorico: ti parlava di come avesse invano cercato di domare un cammello infoiato folle per la sua cammella; o della vera e propria guerra contro l’invasione delle cavallette, delle barriere di fuoco che si ergevano contro di loro, scavando trincee da riempire con bitume da incendiare, e poi fuggire a cavallo.
Il suo divenire comunista, la sua espulsione dalla Libia, l’arrivo a Roma nel 1951, la militanza nelle sezioni periferiche del Pci (p.es. da vicesegretario in Puglia, insieme ad Alfredo Reichlin), la sua formazione da economista, un viaggio in Brasile (ricordava il volo in aereo sulla giungla che “sembrava un campo di cavoli”).
Ma a fare della vita di Valentino un unico, irripetibile percorso umano, sono due contraddizioni, o meglio, due posizioni antitetiche che coesistevano in lui.
La prima: il convivere di una grande umiltà e di un’altrettanto grande coscienza di sé: una sorta di “presunzione modesta”, quella che, all’interno della direzione del giornale, gli permetteva di abbassarsi alle funzioni più umili senza mai perdere il senso di sé, di sporcarsi le mani col capitalismo, e con i capitalisti di tutte le risme, senza mai smarrire la certezza di essere un comunista. Valentino è stato l’uomo che per più di 40 anni è andato “a Gerusalemme senza ridere e senza piangere” a salvare il manifesto dalla bancarotta sempre imminente e incombente, a chiedere fidi a banche sempre più restie, ad allacciare rapporti con improbabili investitori che sempre promettevano e quasi mai mantenevano, a intessere relazioni con i salotti del capitalismo, a telefonare ai Romiti, agli Annibaldi, ai De Benedetti, ad avere una sponda nella Banca d’Italia e ingoiare i rospi della Banca di Roma. Addirittura, a volte percepivi un vezzo, come quello – fatte tutte le debite proporzioni – che nel Medioevo spingeva il pontefice Gregorio Magno, il vicario di Cristo su terra, a firmarsi “servus servorum dei”. Nello stesso modo, Valentino affermava la nobiltà del suo ideale politico nella pratica quotidiana del cabotaggio: letteralmente, per tutta la vita, Valentino si è “messo al servizio del comunismo”. E grazie a lui che, unico tra i fogli della nuova sinistra, il manifesto sopravvive dopo quasi 50 anni. Altri dirigenti che ho conosciuto non erano mai stati abbastanza umili da essere militanti; altri militanti non erano capaci di essere dirigenti. Parlato è stato un dirigente militante, o un militante dirigente.
Non per nulla, mi disse una volta Valentino, “i miei grandi maestri politici sono stati Lazarillo de Tormes e Benito Cereno”, l’uno il prototipo del personaggio picaresco spagnolo del ‘500 che, dopo averne passate di cotte e di crude, finalmente approda a una vita agiata da servo cornuto del suo padrone che si fa sua moglie; e l’altro, protagonista del racconto di Herman Melville, che da capitano sembra il despota assoluto della sua nave carica di schiavi e che invece – si scopre a poco a poco – è solo la marionetta i cui fili sono tirati da uno schiavo che ha guidato l’ammutinamento contro di lui. Questa “genealogia politica” basterebbe già da sola o mettere in evidenza l’autoironia di Valentino e il suo senso della tragicità della storia.
Valentino ha sempre amato le metafore militari. Lo pigliavamo in giro quando nelle (interminabili) discussioni di redazione cominciava a dire “On s’engage…” e noi tutti finivamo in coro “et puis on voit” (massima che Lenin aveva citato attribuendola a Napoleone). Questa concezione bellica della politica ci porta alla seconda contraddizione che ha sempre convissuto in lui, quella appunto tra una visione iperrealistica, tradizionale, dell’agire politico e invece l’aver fondato un gruppo e poi un quotidiano della nuova sinistra, che ha imbarcato culture e storie non si può più lontane. Cosa spinse un amendoliano come lui (Giorgio Amendola fu fino agli anni ’80 il leader indiscusso della destra del Pci) a un’“eresia” come il manifesto? E una persona dal suo senso della disciplina a esprimere nel 1969 apertamente il proprio dissenso sulla repressione della primavera di Praga e farsi radiare dal partito? Forse la sua familiarità col pensiero settecentesco, un certo libertinaggio, il piacere della trasgressione, il non farsi scrupoli ad andare contro corrente, come la sicurezza esibita dalle persone davvero eleganti quando calpestano il bon ton: due volte mi ha mandato in Libia quando c’era Gheddafi, nel 1982 e nel 2001, e poi lo difese quando gli occidentali (dopo aver tanto amato per decenni il leader libico) improvvisamente scoprirono che era un abominevole tiranno; proprio come l’anno scorso alle elezioni comunali di Roma ha votato per Virginia Raggi dei 5 Stelle.
Per parafrasare un titolo di Rossana, Valentino Parlato è stato lui il vero “ragazzo del secolo scorso”: fino all’ultimo giorno in cui ha lavorato nella redazione del manifesto, nel 2012, ha sempre scritto i suoi articoli tempestando la malconcia macchina da scrivere (anche Luigi Pintor aveva continuato a battere sui tasti dell’Olivetti fino alla morte nel 2003, mentre le fondatrici donne del giornale, Rossana e Luciana, si erano computerizzate subito senza alcuna difficoltà).
Anche nella scrittura giornalistica, la sua posizione di “fratello minore” lo ha fatto ingiustamente sottovalutare rispetto alle firme acclamate, come Luigi e Rossana: Valentino è stato un grande giornalista. Il giornale era la sua vita. Quando la nuova gestione lo allontanò (insieme a Rossana e a molti di noi), gli inferse un colpo da cui non si è mai più davvero ripreso. Oggi leggo i peana che gli intonano persone che lo cacciarono a calci: non mi stupisco, è un’infamia che nessuno merita, ma che toccherà a tutti.
Valentino, non mi chiederai mai più di scendere al bar per trovare il modo di tenere a galla un fuscello di speranza politica.