Estratto dal saggio di Edoardo Rialti Vedere il profondo per il primo volume dell’edizione cartacea della Rivista Indiscreto in collaborazione con Tlon, disponibile in tutte le librerie.
Dirsi addio è un po’ come morire.
Raymond Chandler
Le città di notte sono un reticolo di stelle, cadute sulla terra. Minuscoli aghi di luce pulsante, immobili alle finestre o lampioni, in movimento nelle macchine. Qualcuno, al termine di una lunga grigia stancante giornata, dall’alto di una collina, le contempla. Mi sentivo vuoto come gli spazi che separano gli astri. Una volta rientrato a casa versai in un bicchiere una buona dose di whisky, mi affacciai alla finestra spalancata della stanza di soggiorno, sorseggiai il liquore e ascoltai il frastuono del traffico in Laurel Canyon Boulevard e contemplai il bagliore della grande, irosa città sospeso sui pendii delle alture attraverso le quali il viale era stato tagliato. In lontananza si levava e si spegneva l’urlo sovrannaturale delle sirene della polizia o dei pompieri e né le une né le altre tacevano molto a lungo. Per ventiquattr’ore al giorno qualcuno fugge e qualcun altro tenta di raggiungerlo.
È una delle prime scene de Il lungo addio di Chandler, del 1953, sesto romanzo che ha come protagonista il detective Philp Marlowe, una di quelle che incarnano la messa a fuoco di un intero continente dell’immaginario, che da quel momento continuerà a presentarsi ancora e ancora, in infinite variazioni. Suo immediato modello erano stati gli investigatori di Hammett, raccontati con la limpida, omerica asciuttezza che ha forgiato a sua volta una variante del medesimo archetipo, lo Straniero dalla competenza micidiale, chiamato per caso o destino a risolvere il caos di un mondo che non è il suo, un protagonista che già prelude ai pistoleri di Leone e agli sniper di Altieri : Duff si tirò dietro i suoi quattro detective e una decina di agenti in uniforme. Assaltammo la casa dal davanti e dal retro. Non perdemmo tempo a suonare il campanello: abbattemmo la porta e ci precipitammo dentro. C’era buio pesto, finché non furono accese le torce. Non ci fu nessunissima resistenza; in condizioni normali, i sei uomini che trovammo lì dentro ci avrebbero sbranati, anche se li sopravanzavamo di numero… ma erano troppo morti per farlo.
Gli uomini spezzati dalla vita, resi cinici dalla nebbia di compromessi e miserie che li circonda, che si allungano due dita di liquore e guardano fumando il brulicare dei nostri agglomerati di solitudini, semplicemente non si contano più; dal Deckard di Blade Runner di Scott allo Schiavone di Manzini, o al Kovacs di Morgan. Due ore prima dell’alba, seduto in cucina, fumavo una delle sigarette di Sarah. Ascoltavo il vortice e aspettavo. Millsport era andata a letto da un pezzo, ma nella Distesa le correnti ruotavano ancora sui bassifondi; il suono giungeva a riva e si aggirava per la città. Una nebbiolina si alzava dai mulinelli d’acqua, cadeva sulla città come teli di mussola e appannava le finestre della cucina. Sono intuizioni che paiono quasi cancellare la strada che le ha portate allo scoperto, come chi spazzoli la neve alle proprie spalle e lasci solo due impronte a spiccare sul paesaggio immacolato. Eppure la strada c’è, e viene da molto lontano.
Profondo è il pozzo del passato, non dovremmo dirlo insondabile? Questo anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda, ma oltre natura misera e dolorosa. È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema […] Perché appunto avviene che quanto più si scavi nel sotterraneo mondo del passato, quanto più profondamente si penetri e cerchi, tanto più i primordi dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano del tutto insondabili e, pur facendo discendere a profondità favolose lo scandaglio, via via e sempre più retrocedono verso abissi senza fondo […] perché l’insondabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusori, dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuove vie del passato, come succede a chi, camminando lungo le rive del mare, non trova mai termine al suo cammino, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune, a cui voleva giungere, altre ampie distese lo attraggono più avanti, verso altre dune.
Così si apre Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, e al pari di altre dinamiche dello spirito, potrebbe essere la citazione in exergo per qualunque libro dedicato alla storia dei generi letterari. Così è per il noir. Possiamo indicare romanzi, e scene al loro interno, che ci fanno dire “Ecco, questo è ciò di cui parliamo”, svolte nei percorsi precedenti, intuizioni improvvise, eppure a ben guardare ci sono altri momenti, più indietro ancora, che incarnano la stessa dinamica, esprimono la medesima esperienza.
Northop Frye, nel suo saggio su saggio su Amleto, notava che i Greci consideravano il sapiente e il guerriero le due vette conoscitive dell’attività umana, perché si tratta di due ambiti nei quali si ha sempre a che fare con la morte. L’epiteto brotoi–mortali, che solitamente si accompagna al termine uomini, non è una traduzione accurata, perché esprime un processo più che uno stato: noi siamo i morenti, quelli che fanno altro che morire. E filosofi e combattenti non fanno che sbirciare e interrogare costantemente tale pulsazione di fondo. Nel mondo moderno, al formarsi di quel nuovo universo immaginativo che è la metropoli otto–novecentesca, il sapiente risolutore di enigmi e il guerriero si fondono in quel nuovo protagonista – anzitutto narrativo – che è il detective. A intuirlo e già a tratteggiarlo nei suoi aspetti fondamentali sono Poe, Dickens, Baudelaire, il Dostoevskij di Delitto e Castigo, dove Porfirij Petrovic già adombra Maigret (su questo si veda W. Benjamin, Baudelaire – un poeta lirico nell’era del capitalismo) prima della sua definitiva e prima iconizzazione con Doyle e Sherlock Holmes.
È esplicita la lunga eco di Edipo, che proprio in quegli anni sarà eletto da Freud quale mito-vessillo. Il re di Tebe veniva definito sophos proprio in quanto risolutore di enigmi (e l’amore per i puzzle sarà tra le caratteristiche fondamentali di Dupin e Holmes), ed è un cold–case quello che deve risolvere, a proposito della morte di Laio, che coinciderà con la scoperta che il volto dell’assassino lo aspetta nello specchio. Le ombre di questa consapevolezza si estendono su tutto il noir, basti pensare al finale de Il Grande Nulla in cui l’investigatore professionista nel fare luce su un omicidio a sfondo omosessuale nell’America maccartista comprende che sarà costretto alla macchina della verità, rivelando di essere omosessuale a sua volta, e preferisce tagliarsi la gola con un rasoio. Tuttavia le origini del detective consumato dalla vita e dalle sue indagini si può far risalire più addietro ancora, e quello sguardo alle luci dell’attiva umana era già stato gettato dall’alto delle ziggurath che svettavano sui fiumi lungo le cui sponde facciamo risalire le origini della civiltà, della scrittura e del racconto epico.
È su un loro bancone che incontriamo il primo re-eroe, Gilgamesh, colui che si avventurò nell’inchiesta suprema della “Terra-del-non-ritorno”, l’uomo che “vide il Profondo” e tentò di strapparsi e strapparci dalla nostra condizione mortale, “perlustrò il mondo alla ricerca disperata della vita,/ e trovò la forza di raggiungere Utnapishtim il Remoto”. Una Cerca che nasce dal dolore per una perdita, conosce la sconfitta e l’amarezza, e proprio per questo pare ottenere saggezza e perfino pace.