Temuta o invocata, la pioggia è un’ospite irrinunciabile di ogni edizione della Mostra. E benché quest’anno si sia fatta attendere più del solito, non si è certo risparmiata: il penultimo giorno della kermesse, il Lido è stato flagellato da un temporale coi fiocchi. Il palazzo del Casinò si è via via riempito di accreditati bagnati e infreddoliti in cerca di riparo, mentre dalle finestre di una sala stampa più affollata del solito si potevano vedere gli ultimi incauti rimasti allo scoperto correre come minuscoli puntini impazziti sullo spazio antistante il Casinò, spazzato dalle violentissime raffiche di vento.
L’immagine degli spettatori costretti in un luogo chiuso mentre fuori si scatena il finimondo ci è sembrata la descrizione perfetta dell’atmosfera che si respira durante il festival (durante tutti i festival): quella cioè di un microcosmo separato dal resto del mondo da un confine sottile e al tempo stesso invalicabile. Anche quest’anno la militarizzazione del Lido, con i suoi posti di blocco e i suoi controlli tanto burocratici quanto inefficaci, ha reso ancora più palpabile l’immagine di una Mostra come fortino che attende un misterioso nemico pronto a colpire all’improvviso: un po’ come i fantomatici “barbari” che premono alle frontiere dell’Impero nell’ultimo film del concorso, quel Waiting for the Barbarians diretto dal colombiano Ciro Guerra, inamidata quanto superflua trasposizione cinematografica di un bel romanzo allegorico d’intonazione buzzatiana, pubblicato nel 1982 dal futuro premio Nobel J.M. Coetzee (che qui firma la sceneggiatura). E proprio come i barbari del film, che nel finale si profilano all’orizzonte dopo una lunga attesa, così l’ultima alba del festival ha visto il cuore della Mostra preso pacificamente d’assalto dagli attivisti del Venice Climate Camp, che sabato mattina hanno occupato per alcune ore il tappeto rosso non solo per sensibilizzare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico, ma anche per protestare contro il passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia. Una piccola invasione che ha bucato la quotidianità ovattata del Lido, costringendo tutti quanti a un imprevisto quanto salutare “bagno” di realtà.
Si è conclusa così l’edizione numero 76 della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Un’edizione partita, lo ricordiamo, fra polemiche più o meno sensazionalistiche e più o meno costruite, ma che ha finito per rivelare uno dei concorsi più omogenei degli ultimi anni. Priva delle “vette” della scorsa edizione (che schierava titoli come La Favorita, Roma, Nuestro tiempo, Peterloo, I fratelli Sisters), ma con un livello medio qualitativamente più alto, la selezione ha scoperto pian piano le proprie carte vincenti, dimostrando un’evidente predilezione per i temi legati alla famiglia (anzi, alle famiglie) e ai legami fra genitori e figli. Abbiamo visto donne in conflitto con la maternità (Ema di Larraín), famiglie che vanno in pezzi (Marriage Story di Baumbach) o che cercano in tutti i modi di rimanere unite (Gloria Mundi di Guédiguian, Wasp Network di Assayas, Babyteeth dell’unica esordiente in concorso, Shannon Murphy); figli alla disperata ricerca di padri (Ad Astra, The Painted Bird) e padri alla ricerca di figli (anzi, di figlie, come il David Thewlis di The Guest of Honour di Egoyan).
Proprio la buona qualità complessiva della selezione ha reso piuttosto incerti i consueti pronostici; e certo deve aver creato non pochi problemi alla giuria, guidata da Lucrecia Martel. Il risultato è un palmarès piuttosto schizofrenico, con qualche esclusione eccellente (primi fra tutti Ema e Marriage Story). Del resto, la presidente non ha nascosto la mancata unanimità nei verdetti. Per cui, se la Coppa Volpi a Luca Marinelli per Martin Eden era in un certo senso scontata (l’attore, memore della professione marinaresca del suo personaggio, l’ha dedicata «a tutte le persone splendide che sono in mare per salvare persone che fuggono da situazioni terribili»), non sappiamo spiegarci altrimenti il premio alla sceneggiatura a Ji Yuan Tai Qi Hao (titolo internazionale: No. 7 Cherry Lane), film d’animazione diretto dall’hongkonghese Yonfan che non ha certo nella scrittura uno dei suoi punti di forza. Probabilmente la giuria, che ha intravisto nelle proteste antibritanniche che fanno da sfondo alla vicenda, ambientata negli anni Sessanta del XX secolo, un riflesso delle attuali manifestazioni contro le ingerenze di Pechino sulla ex colonia inglese, ha cercato in modo un po’ goffo di mandare un messaggio politico “forte” (un’impressione ribadita dal discorso di ringraziamento del regista dopo la premiazione).
Così come il Leone d’argento per la regia a Roy Andersson per il suo Om det oändliga (About Endlessness), che arriva a distanza di soli cinque anni dal Leone d’Oro a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, ha un po’ l’aria del riconoscimento alla carriera (l’ennesimo?) per un regista che, superati i settant’anni, non ha certo bisogno di conferme. Un discorso analogo si potrebbe fare per il Premio Speciale della Giuria, assegnato a La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco, finalmente approdato al concorso principale. Sfrangiato e divagatorio come il precedente Belluscone (da cui riprende, in un’ambigua mescolanza di realtà e finzione, il personaggio di Ciccio Mira), l’ultimo lavoro di Maresco si concentra stavolta sulla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a 25 anni dalla cruenta morte dei due. A fargli da spalla-coscienza critica è Letizia Battaglia, presenza meravigliosamente destabilizzante di cui rimangono memorabili gli scontri verbali e gestuali con lo stesso regista (“Maresco, scettico di merda!”), costretto forse per la prima volta ad abbandonare il comodo ruolo di voice over per spostarsi davanti alla macchina da presa. Ma l’intonazione “civile” non si addice fino in fondo al temperamento nichilista e sanguigno di Maresco (che qui dà addirittura l’impressione di essere arrivato a odiare i propri freak): La mafia non è più quella di una volta raggiunge solo a tratti la cupa grandezza di Belluscone, anche se rimane comunque forte come requisitoria indignata nei confronti di un Paese ostinatamente senza Storia e senza memoria.
Un’aria di compromesso aleggia anche sui due premi maggiori. Per quanto riguarda il Gran Premio della Giuria a J’accuse di Polanski, c’era sicuramente la volontà di assegnare un riconoscimento a uno dei film più apprezzati dalla stampa internazionale (che infatti gli ha attribuito il FIPRESCI). Il fatto che Polanski sia stato comunque insignito di un premio rappresenterà per alcuni il segno della grande onestà intellettuale della presidente dopo i (voluti) fraintendimenti e le polemiche dei giorni scorsi; mentre il mancato Leone d’Oro apparirà ad altri come l’ulteriore conferma delle frizioni fra la stessa Martel e gli altri giurati. Il primo premio è andato così al Joker di Todd Phillips: un riconoscimento che a detta di molti va un po’ largo a un film costruito in gran parte sulle spalle del protagonista Joaquin Phoenix. Eppure sarebbe affrettato trattare Joker soltanto come un rifacimento. Certo, recupera un immaginario stratificato (come già si era osservato qui), ma nessuno dei film precedenti, per esempio, aveva lavorato così tanto sul motivo della risata come malattia, sia individuale che sociale: entrambi gli aspetti si rispecchiano creando un sistema falsificato di riflessi. Il volto così sofferente di Arthur Fleck funziona scenicamente come una maschera non solo quando ha il cerone, ma quando, anche senza trucco, si dispera, o si confronta con la madre – troppo stereotipata. «Il lato peggiore della malattia mentale» – dice Arthur a un certo punto «è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non ce l’avessi». Forse anche gli spettatori di Joker potrebbero aspettarsi un pagliaccio o un mostro o un freak e basta. Joker, invece, è un incubo: «A cosa stai pensando?» gli chiede la dottoressa nel finale. «A una barzelletta» risponde Arthur, «ma non la racconto, tanto non la capirebbero».
Rimane da interrogarsi sul significato da dare a questo premio: un’apertura al mainstream o una resa? Di certo una vittoria per la “Linea Barbera”, oltretutto rafforzata dal fatto che già da qualche anno – sulla scorta di esempi che vanno da Gravity a La La Land, da La forma dell’acqua a Roma – la vicinanza fra Leoni e Oscar, Biennale e Academy, sembra assottigliarsi sempre più, con tutti i rischi che ciò comporta.
In chiusura vorremmo invece soffermarci sui riconoscimenti agli interpreti di due film forse meno “chiacchierati” ma che abbiamo apprezzato in modo particolare. Il primo è il Premio Mastroianni al giovanissimo Toby Wallace per Babyteeth: un premio che non soltanto dà visibilità a un nuovo interprete, ma conferma le due qualità più importanti del film. Anzitutto le eccellenti capacità della debuttante Shannon Murphy nella direzione degli attori, importante in un film in cui al centro del racconto non c’è un singolo eroe, ma la vita di relazione. Babyteeth ci narra di una quindicenne un po’ stralunata (Eliza Scanlen) che un giorno, mentre aspetta la metro per andare a scuola, viene buttata a terra da un ventenne tossico (Wallace, appunto). Questo evento dà vita a una paradossale e buffa successione di fatti sempre più strani, dentro i quali si inserisce, di scorcio, la malattia. Ecco: Babyteeth non è la storia di un’adolescente che si ammala di cancro, come ingenuamente potrebbe sembrare. Una storia è linguaggio, forma, prospettiva, e Babyteeth va avanti così, rubando spazio al racconto della patologia, e facendo agire e dialogare i personaggi (oltre ai due ragazzi, i genitori, un fratellino, e i vicini di casa) dentro lo schema paradossale e vitale del nuovo sistema di relazioni provocato da questo assurdo e vitale amore, in cui tutti i personaggi, non solo la protagonista, percorrono un apprendistato alla cura: non solo del cancro. Babyteeth racconta qualcosa che poche volte si vede o si dice, vale a dire che una malattia non accade solo a chi si ammala, ma a tutte le altre persone che formano il suo microcosmo vitale. E questo spostamento di prospettiva avviene senza pathos, ma con grande vivacità: drammatica e emotiva. Come si finisce una vita, e un film che racconta la fine di una vita? Babyteeth, proprio nell’ultima scena, continua a farci ridere e a farci ammirare la regia come capacità di costruzione e selezione di ciò che è rilevante.
Il secondo è invece la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Ariane Ascaride, per Gloria mundi di Robert Guédiguian. La nascita di una bambina, Gloria, appunto, diventa l’occasione per riunire, accanto ai due giovani genitori (Mathilda e Nicolas), e ai nonni: Sylvie (la stessa Ascaride) e Richard, il vero padre di Mathilda, Daniel, appena uscito dal carcere (dove si trovava per aver ucciso due uomini per difendere un suo amico). A questi cinque personaggi si aggiungono anche la sorella di Mathilda e il marito: Aurore e Bruno, che cercano di riscattarsi dalla posizione di perdenti sfruttando chi ha bisogno di far soldi o di lavorare in nero. Fanno tutti una vita disperata e disperante; i più giovani quando possono sniffano anche cocaina, o scopano male, e in posti brutti, imitando i porno casalinghi che trovano in rete. Eppure, la gente disperata in Guédiguian non è mai vista e rappresentata in maniera paternalistica, o umoristica, o peggio ancora morbosa.
Gloria mundi prende Marsiglia, una delle città occidentali più connotate, storicamente, dalla storia dei lavoratori, delle battaglie sindacali e dei conflitti di classe, per farci vedere la scomparsa totale della parola e della narrazione chiave di questa tradizione: solidarietà. La solidarietà non è più un affare per chi non ha i soldi, protesta proprio Sylvie (Ascaride): madre e nonna esemplare, ma del tutto ostile a ogni forma di ascolto verso gli operai che lavorano con lei e vorrebbero scioperare. «Ho bisogno di lavoro!», grida Sylvie, con una violenza disperata che ce la rende tanto antipatica intanto che ce ne fa vedere, senza ipocrisia, la verità umana. È la persona per bene della porta accanto pronta a votare per un leader razzista capace di intercettare le insicurezze dei poveracci. E proprio lei, Ascaride, attrice iconica del cinema di Guédiguian, lei che interpreta la figura chiave su cui più lavorano i motivi essenziali del film, rappresenta, in qualche modo, un personaggio in cui far convivere pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà.