Sono quasi dieci anni che non metto piede alla Mostra, tuttavia certe cose sembrano essere rimaste identiche: l’arrivo alla stazione, l’improvviso odore lagunare, le masse indistinte di persone che si gettano di corsa verso il vaporetto. L’addetto alla salita prontamente dice di fare in fretta e di spostare i bagagli: “Signora, lei dove va?” chiede a una turista inglese, troppo impegnata a farsi selfie sbilenchi invece di ascoltarlo. “Dove vuoi che vada” – commenta un altro passeggero – “con quegli armadi, può andare solamente al Lido”.
Gli spettatori del Festival si riconoscono subito, con i volti provati e le occhiaie ancora prima di cominciare. Forse per colpa della macchinosa operazione per la prenotazione dei film che ha destato, anche sui Social, discrete polemiche. Alberto Barbera incolpa chi si connette alle 7 di mattina facendo crashare il sistema, e sposta l’orario di apertura delle prenotazioni alle 6.45. Un altro insormontabile sforzo fisico per l’accreditato stampa, sottoposto a numerose fatiche quotidiane tra cui pasti saltati, spritz annacquati e ossessive perquisizioni messe in atto dalla polizia locale alla ricerca di un pericoloso attentatore quando, al posto delle armi, al massimo il critico sopracitato potrà avere in borsa una scatola di integratori multivitaminici e una copia stropicciata del programma del festival.
In “un programma più vario del consueto, dove autori affermati trovano posto accanto a registi in cerca di conferme”, ritroviamo, soprattutto nel concorso, la linea artistica confermata da Barbera negli ultimi tre anni: gli Autori, una fetta considerevole dedicata al cinema italiano e almeno un documentario. Infatti, nei primi giorni del Festival, viene presentato All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, sulla fotografa Nan Goldin. Attraverso slideshows, potentissime immagini d’archivio e interviste, la regista, vincitrice dell’Oscar per Citizenfour (2015), da un lato racconta la vita della fotografa e dall’altro la sua battaglia contro i Sackler, potente multinazionale farmaceutica, finanziatrice di musei e progetti artistici, accusata di aver facilitato la vendita dell’Ossicodone su tutto il territorio americano causando la morte nel 2021 di 100mila persone.
Le fotografie di Nan Goldin non sono mai neutrali. “Lei si mette dalla nostra parte quando scatta” afferma uno dei curatori intervistati nel documentario. I protagonisti delle sue foto sono i suoi amici, da Cookie Mueller a Jim Jarmusch e John Waters, ma trovano spazio anche i suoi stessi rapporti sessuali, in un fluire di immagini uniche nel loro sporco minimalismo.
Tra le proposte del concorso, non colpisce nemmeno più tanto l’onnipresente Netflix (con White Noise di Noah Baumbach, l’autobiografico Bardo Alejandro González Iñárritu e l’action-movie di periferia Athena di Romain Gravas) che ormai a Venezia trova un vettore sicuro per le premières dei suoi film. Non è un caso che sia stata proprio la piattaforma a inaugurare il festival con White Noise, l’attesa pellicola di Noah Baumbach, tratta dal capolavoro di Don De Lillo del 1985. Nel cinema del regista newyorchese tutto sembra avvolto da un procedimento di scrittura permanente: i dialoghi sono nervosi, fitti, ipercostruiti.
Che cosa nasconde questa urgenza quasi ossessiva di registrare ogni parola? Un enorme e costante lavoro di interpretazione della realtà per smascherare ma soprattutto tenere a bada improvvisi massacri emotivi. E, proprio per questo, non stupisce la scelta di voler raccontare la storia di Rumore bianco, in cui al bersagliamento cognitivo subito da Jack, Babette e i loro figli fa eco uno stato allucinatorio perenne e iperreale. Nell’adattamento di Baumbach, le tematiche raccontate da De Lillo trovano nuove significazioni; ma, anche se l’angoscia per il possibile contagio causata dalla nube tossica e l’ossessione per i farmaci sembrano rielaborare il trauma del Covid, ci sembra più interessante il riferimento contemporaneo al surplus di informazioni che avviene durante la catastrofe.
La disponibilità continua di dati, effimere sequenze numeriche sullo schermo di un computer, risiede in un circuito labirintico sempre vivente, sempre interpretabile, e in grado di modificare le nostre esistenze. Jack, entra a contatto con la nube tossica per due minuti e mezzo (solo due minuti e mezzo!) e sarà un computer a valutare la situazione. L’interpretazione cambia sempre: l’unica cosa certa è che si è trattato di “un avvenimento spiacevole” di cui si potranno notare le conseguenze solo tra parecchi anni.
I dati sono veloci, difficili da imbrigliare, interpretare, sono solo numeri che cambiano in continuazione creando false piste, cospirazioni, fake news. Una sfocatura invece di un’interpretazione. A tratti sembra di avvicinare troppo il viso agli schermi delle vecchie televisioni a tubo catodico: invece dei dettagli, si vedono solamente i pixel che cambiano colore.
Grande narratore di relazioni tossiche (Marriage Story), famiglie disfunzionali (Il matrimonio di mia sorella) e divorzi (Il calamaro e la balena), Baumbach si cimenta in un’impresa quasi impossibile e in White Noise si sente il peso della giuntura, della cucitura con l’opera originale soprattutto nel finale. Qui il cineasta prova a ritrovare la felicità sottratta del sogno americano nell’immagine onirica e immateriale dell’inconsistente, in cui viene a mancare quell’incrinatura, quel turbamento che mostra il vero volto della realtà. Lo spettatore viene affidato al balletto meccanico nelle corsie di un supermarket, tra le insegne Brillo, a ritmo degli LCD Soundsystem, prima di ritrovarsi nuovamente impreparato alle prese con una nuova catastrofe.
La mostra, infine, ci riserva tutta un’altra idea di cinema in Lars Von Trier, di cui la recente diagnosi di Parkinson ha reso commovente il video-saluto prima della proiezione. Dopo 25 anni da Riget 2, l’autore controverso torna con un altro capitolo della saga ispirata da Twin Peaks di David Lynch. Se le prime due stagioni del 1994 e del 1997 girate con pochissimo tempo e pochissimi soldi, sono lavori creati interamente in fase di montaggio, destino opposto è quello di Riget 3 Exodus a cui Von Trier ha lavorato per quasi quattro anni.
Siamo nuovamente ospiti – e ostaggi – di quell’ospedale che fu teatro del delitto di una bambina nel 1919 e che non ha ancora trovato pace. Riget è un ospedale vivo più che mai, con vene carotidi al posto dei maniglioni antipanico e una porta chiusa che cela al suo interno un cuore pulsante ma malato. È il cuore di Fratellino, ora Fratellone – e interpretato ancora una volta da Udo Kier – diventato l’anima profonda dell’edificio.
Un’opera che risente molto meno delle costrizioni economiche precedenti e rivela una freschezza enorme sia nella linea narrativa che nello stile. Esemplare la sequenza iniziale in cui Karen, dopo aver visto la serie in dvd, si reca all’ospedale. Passate le porte automatiche, le immagini patinate dei primi minuti dell’episodio si trasformano in quelle “seppiate” e con la camera a mano, tanto care allo stile Dogma 95 delle prime due stagioni.