Sono trascorsi vent’anni dall’attentato alle Twin Towers. È il caso pertanto di domandarsi quali siano le conseguenze di quel catastrofico evento. Oggi appare senz’altro evidente che Al Qaida è stata sconfitta dagli Stati Uniti e dall’Occidente sul piano militare. Su quello dell’immaginario, però, ha decisamente vinto la sua sfida con l’industria cinematografica hollywoodiana, che ha cominciato da allora un lento declino. Su questo non ci può essere alcun dubbio: le immagini televisive dei due Boeing che s’infilavano con precisione chirurgica all’interno delle due Torri Gemelle del World Trade Center di New York provocandone il crollo hanno manifestato una tale forza simbolica che sembravano superare l’impatto suscitato da un qualsiasi film di genere catastrofico prodotto da Hollywood. Si è trattato di un vero e proprio choc culturale per tutto l’Occidente, attaccato dal terrorismo islamico addirittura nel suo cuore pulsante: Wall Street. E Alberto Abruzzese, sulle pagine della rivista Gomorra, ne traeva lucidamente tutte le dolorose conseguenze: «A Manhattan si è spenta la vitalità che Simmel attribuiva alla rovina: il vuoto, che essa lascia aperto a una nuova fertilità dello spirito, non può più essere ricolmato. La rovina non può più essere lasciata alle spalle; non dà luogo a riedificazione. Ogni dinamica tra materie e spirito si è spenta. Il soggetto moderno non può esprimere più un’etica» (sulle rovine e sugli altri importanti concetti di Simmel, si veda la recente raccolta Stile moderno. Saggi di estetica sociale, a cura di Barbara Carnevali e Andrea Pinotti, Einaudi).
La cosa sorprendente all’epoca era che la stessa Hollywood, con le sue pellicole, aveva creato quei codici della fiction che adesso i terroristi potevano impiegare al meglio, amplificandoli e portandoli all’ennesima potenza. Al punto tale da renderli addirittura inverosimili. Da impedire cioè allo spettatore di comprendere se si trovava di fronte alla realtà o a una sua rappresentazione. Se le due torri che vedeva sbriciolarsi violentemente davanti ai suoi occhi appartenevano al regime della verità oppure a quello delle immagini mediatiche. Forse anche per effetto della particolare identità posseduta da tali torri, strane architetture-gemelle radicalmente differenti rispetto a quei grattacieli solitari che le circondavano a Manhattan.
All’epoca, si parlava già da tempo di “mediatizzazione”, cioè della capacità dei media di riprodurre efficacemente la realtà, ma con l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers si è probabilmente aperta una nuova fase nel rapporto tra i media e la realtà. Una fase confusiva che rende evidente come sia sempre meno possibile operare una precisa distinzione tra questi due soggetti. Molti hanno pensato che ciò mostrava che il reale era ancora ben vivo e che la celebre tesi di Jean Baudrillard sulla realtà come simulazione e simulacro venisse messa radicalmente in crisi.
Il sociologo francese però ha risposto così alle accuse ricevute: «Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine… È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. Il crollo delle torri del World Trade Center è inimmaginabile, ma questo non basta a farne un evento reale» (Lo spirito del terrorismo, Cortina).
Resta il fatto che quello che è accaduto con la tragedia dell’11 settembre è che l’immaginario e il reale sono entrati in una rotta di collisione. La realtà si è trasferita massicciamente dentro gli schermi mediatici per annullare la sua identità all’interno di essi. E, come ha affermato Fulvio Carmagnola, si è sviluppata la «crescente consapevolezza che il reale – la morte istantanea di migliaia di persone – possa diventare immediatamente immaginario, fittizio, mediale, spettacolare» (Il consumo delle immagini, Bruno Mondadori). A ben vedere, infatti, la nuova fase del rapporto di commistione tra i media e la realtà è iniziata prima dell’attentato alle Twin Towers, in quanto già da tempo nelle società occidentali avanzate la realtà tendeva a confondersi in maniera crescente con la sua rappresentazione. Perché il processo di evoluzione dei media andava sempre più massicciamente spingendosi in questa direzione: reality show, digitalizzazione della realtà, simulacri virtuali. Tutti gli avvenimenti, persino quelli più drammatici come le guerre, a cominciare da quelle del Golfo, erano principalmente vissuti attraverso le rappresentazioni fornite dai media, che rendevano sempre più difficoltoso distinguerle dalla realtà.
Perciò, se Alain Badiou ha sostenuto che il Ventesimo secolo ha avuto come sua caratteristica distintiva la coltivazione di una vera e propria “passione per il Reale”, Slavoj Žižek, nel saggio Benvenuti nel deserto del reale (Meltemi) pubblicato poco dopo l’11 settembre, si è nettamente opposto a tale tesi affermando che «l’aspetto problematico della “passione per il Reale” del Ventesimo secolo è stato che non si è trattato di una passione per il Reale, ma di una passione fasulla, la cui ricerca disperata del Reale al di là della apparenze era lo stratagemma definitivo per evitare un confronto con il Reale». Laddove il Reale, in termini lacaniani, è ciò che mette in crisi la nostra esistenza, che resiste alla capacità di comprensione degli esseri umani e, proprio per questo, si tenta disperatamente di rimuoverlo. Ma se la realtà è diventata angosciosa, non può più essere quel velo che viene abitualmente impiegato per ricoprire la natura traumatica del Reale, per cercare un rifugio accogliente e tranquillizzante.