Visitare Santiago del Cile a luglio significa trovare il freddo e le montagne innevate. Il nostro arrivo è però coinciso con una domenica di sole che ha portato molti “Santaguinos” (e anche noi) a fare una gita fuori porta sul Cerro San Cristobal che con i suoi 869 m domina una parte della città.
Il giorno dopo il cielo grigio e la chiusura dei musei per il riposo settimanale ci hanno fatto optare per una visita di Pomaire, villaggio che dista circa un’ora di autobus da Santiago. Gli artigiani del posto vendono graziosi souvenir di “greda blanca” (creta bianca) lungo un’unica via polverosa. L’atmosfera era molto più rilassata di quella della grande metropoli e ci siamo riposate in attesa del lungo viaggio Santiago-San Pedro che ci attendeva: 25 ore su un pullmann dell’organizzatissima compagnia Tur Bus. Il tempo è tutto sommato volato e sembrava di essere comodamente adagiati sul divano di casa. Ci hanno servito pranzo, cena e colazione mentre fuori dal finestrino scorreva un paesaggio di cactus e cespugli lungo l’Oceano Pacifico che più si avvicinava al nord, più diventava arido.
San Pedro de Atacama è il punto di partenza per molteplici escursioni tra cui la Valle de la Luna che offre uno spettacolare tramonto godibile dalla cima di una duna di sabbia; le montagne circostanti mutavano colore man mano che i minuti scorrevano passando da un pallido rosa a un rosso acceso.
La seconda escursione ci ha portate alla Reserva Nacional Los Flamengos dove, a dispetto del nome, i fenicotteri si vedevano solo in lontananza. I laghetti dell’altopiano a più di 4000 m d’altitudine sono invece di una bellezza mozzafiato (non solo a causa dell’aria rarefatta e del freddo pungente).
L’alba del quarto giorno ci ha portate ai Geysers El Tatio: una distesa di fumarole e pozze di acqua bollente; uno spettacolo affascinante e un’atmosfera quasi magica che ci consolavano per le mani e i piedi congelati. Abbiamo apprezzato moltissimo la cioccolata bollente servita per colazione e abbiamo stretto con cura tra le dita l’uovo sodo bollito nell’acqua dei geyser, che ci riscaldava le mani.
Ogni domenica (o mercoledì) a mezzanotte, da Calama parte un pullmann che si ferma alla frontiera Cile-Bolivia. Al nostro arrivo alla fermata del bus siamo rimaste impressionate nel trovare una marea di persone che sembrava stessero traslocando tutte insieme nello stesso momento. Sembrava impossibile che potessimo trasportare tutta quella mercanzia composta da scatoloni, borse, casse e persino materassi. Invece alle 00.20 iniziava la nostra avventura boliviana.
Abbiamo raggiunto la frontiera alle 4.00 del mattino e abbiamo aspettato sul pullman fino alle 8.00 l’apertura degli uffici doganali. Alle 12.00 avevamo finalmente superato la frontiera dopo avere scaricato l’autobus, sopportato pazientemente il disbrigo di tutte le formalità doganali e caricato di nuovo i bagagli su un altro mezzo. Il secondo autobus era decisamente meno confortevole di quello cileno e le strade erano dissestate ma gli occhi grandi e curiosi di una bimba seduta davanti a noi ci hanno fatto presto dimenticare che eravamo in viaggio da 17 ore, non avevamo praticamente dormito e il freddo non ci dava tregua.
A Uyuni abbiamo prenotato un tour di tre giorni nel vicino salar (deserto di sale). Il primo giorno abbiamo attraversato, tra l’altro, un deserto di rocce e diversi villaggi tipici. Abbiamo trascorso la notte a Villamar dove le luci si spengono tutte insieme alle 21.00 e il cielo è tappezzato di stelle. Il secondo giorno abbiamo visitato un’altra distesa di geyser che davano l’impressione di essere in un film di fantascienza. Nel pomeriggio abbiamo fatto una sosta alla laguna colorada il cui colore, rosso, e la miriade di fenicotteri, ci ha fatto perdere il conto dei clic fotografici.
L’arrivo, alle 20.30, all’albergo costruito interamente in sale, è corrisposto con una corsa verso le uniche due docce calde disponibili (le prime dopo tre giorni) che sarebbero state in funzione per un’altra cortissima mezz’ora di tempo.
Il vero Salar de Uyuni (12000 km2 di sale a un’altitudine di 3653 m) l’abbiamo visto al sorgere del sole del terzo giorno. Camminare su quel terreno scricchiolante ricordava la neve ghiacciata e l’alba che lentamente illuminava quella distesa bianca è stata uno spettacolo indimenticabile. Nel bel mezzo di questo deserto sorge la Isla de los Pescadores, coperta da cactus maestosi e vecchissimi, alcuni di 700/800 anni. La sera stessa siamo riuscite a prendere un pullmann diretto a Sucre. Salire sul mezzo è stato più che mai difficoltoso e condito da una lunga discussione con l’impiegata dell’ufficio viaggi che aveva inavvertitamente rivenduto i nostri posti a sedere, acquistati due giorni prima. Considerato che tutti gli autobus di tutte le compagnie di Uyuni erano pieni, non ci sarebbe rimasto che viaggiare sedute su una panchetta di legno (fuori discussione dopo tre giorni di tour su un fuoristrada) o rimandare la partenza di un giorno. Abbiamo comunque trovato una soluzione per cui dopo 12 ore di viaggio siamo scese a Sucre.
Recuperate le energie siamo andate alla scoperta di questa incantevole città, dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO, scoprendo con gioia che fervevano i preparativi per accogliere il Presidente Evo Morales in arrivo il giorno seguente; c’era grande animazione, bandiere, striscioni e palchi. Abbiamo visitato alcune chiese dai cui tetti si godeva una bella vista e abbiamo ammirato un bellissimo tramonto dalla Recoleta, museo ed ex convento affacciato sulla città. Il giorno seguente le vie erano animate da gente proveniente da ogni parte del Paese per rendere omaggio al loro presidente socialista di origine india ed esponente dei “cocaleros” (coltivatori di coca). Probabilmente ogni regione era presente con i propri abiti coloratissimi, le bombette verdi, nere e marroni portate dalle donne, gli “aguayos” (rettangoli di stoffa di lana a strisce di diversi colori utilizzati come borse per trasportare qualsiasi cosa, bambini compresi) e le gonne, corte e indossate sopra diversi strati di sottovesti, nonché gli uomini con gli scialli quadrati. Persone gentili e pronte al sorriso a cui abbiamo rubato innumerevoli scatti fotografici.
La domenica, a Tarabuco si tiene il mercato settimanale. Abbiamo approfittato dell’occasione per acquistare i regali da portare a casa e a fine giornata abbiamo preso l’ennesimo autobus che ci ha portate a Potosì, la città più alta del mondo, a 4090 m. La visita della città non ci ha entusiasmato ma non escludo che l’altitudine e la conseguente difficoltà di respiro abbiano avuto una certa influenza sul nostro giudizio.
Abbiamo prenotato il classico giro turistico delle miniere d’argento che è stato molto impegnativo sia fisicamente che mentalmente. La mattina presto ci hanno equipaggiato con calzoni, giaccavento, caschetto, torcia e mascherina. Le miniere si trovano a 4200 m d’altitudine per cui si può passare da temperature sotto lo zero ad altre intorno ai 45°C scendendo di 4-5 livelli. Ci si deve arrampicare su strette scale, arrancare sulle ginocchia, strisciare per terra negli stretti cunicoli e si è esposti a diversi agenti chimici e a gas velenosi quali polvere di silice, gas arsenico, vapori di acetilene, ecc. Un’esperienza purtroppo indimenticabile in quanto si viene a contatto con condizioni di vita disumane; si incontrano ragazzini di 13-14 anni che probabilmente non raggiungeranno i trent’anni perché moriranno prima di silicosi polmonare. L’unico modo per resistere a quella vita è masticare di continuo foglie di coca che ogni turista è cordialmente invitato a comperare al mercato per offrirle ai minatori. Ci si chiede che spettacolo sia mostrare questa disperazione ma chissà che non sia una presa di coscienza di un realtà che non dovrebbe esistere più.
Al termine della visita, estenuate e rattristate, abbiamo proseguito il viaggio per Oruro, ultima tappa in Bolivia prima di tornare in Cile. Dopo quello che abbiamo visto e vissuto, riusciamo persino a non prendercela quando alle 2.00 di notte l’autista ci “abbandona” sull’autobus senza riscaldamento, con la promessa che sarebbe tornato alle 6.00 per consegnarci gli zaini (naturalmente alle 6.30 non si era ancora presentato nessuno). Abbiamo visitato la città in attesa della partenza del nostro prossimo pullmann, alle 12.00, diretto a Iquique, dove siamo giunte alle 22.30.
Iquique si trova a 1853 km da Santiago, nel nord del Cile, sull’Oceano Pacifico, circondata dalle montagne. Pare che le temperature rimangano miti e costanti tutto l’anno e che piova pochissimo e infatti ci siamo godute due piacevoli giornate di sole visitando il centro storico con originali case in legno, la zona del porto con le spiagge e un quartiere moderno. Abbiamo trascorso due notti alla Casa de Huespedes Profesores, posto bizzarro e accogliente, a conduzione famigliare. Se avessimo immaginato la delusione che ci ha riservato Valparaiso, 24 ore di autobus più tardi, saremmo rimaste più tempo al nord. Attendevamo con ansia di visitare Valpo, come viene chiamata, perché descritta da tutti come incantevole. Siamo salite ai quartieri residenziali situati sulle colline e raggiungibili con i vari “ascensores” (funicolari) ma le, seppur caratteristiche, case colorate di lamiera ondulata non ci hanno regalato le emozioni che ci eravamo aspettate. Complice il tempo freddo e piovoso, abbiamo atteso con meno tristezza di quanto avevamo immaginato l’ultimo autobus che ci conduceva all’Aeropuerto Arturo Merino Benítez dove avremmo preso il volo di ritorno.