Da quando si combatte, agosto 2012, da quando è iniziato l’assalto dei ribelli dell’Esercito Libero, una sola cosa non è cambiata, qui. L’unica contraerea è il maltempo.
L’unico rifugio la fortuna.
Abbiamo raccontato di una città in macerie, in questi mesi. Di grandinate di mortai, strade tempestate di cecchini, missili e cannonate, abbiamo raccontato di una città sfigurata dal tifo, dalla leishmaniosi, dalla fame, di bambini che sembrano l’Etiopia, la Somalia, la pelle sulle ossa come cera, per cena erba e acqua piovana. Fiumi che vomitano cadaveri, foschie di insetti su resti di intestino, di fegato, polmone, granate, razzi, aerei, attivisti decapitati, 15enni giustiziati: negli ospedali sotto bombardamento, per bisturi un coltello da cucina, per anestetico la carezza di un’infermiera, abbiamo visto corpi mozzati, sulle sedie, teste, mani, dita, cocci di cranio.
150mila morti accertati, 220mila stimati. Abbiamo raccontato l’orrore, in questi mesi, sgomenti, la brutalità, la ferocia. Il dolore. Abbiamo usato ogni parola possibile.
Esaurito ogni aggettivo.
Scusate. Ancora non sapevamo cosa è una guerra.
Perché il fronte vero, ad Aleppo, oggi è uno solo: è il cielo. Si muore così, qui: senza preavviso. Un’esplosione, dal nulla, il lampo, uno schiaffo di vento, e l’aria che si fa rovente di fiamme, sangue, schegge – e nella polvere, tra le urla, solo questi stracci di carne, questi bambini di carbone. Non esiste riparo: le case non hanno scantinati. Seminterrati. Niente. E i ribelli, malamente armati da Arabia Saudita e Qatar, non hanno che queste vecchie mitragliatrici sovietiche, le doshka, questi pezzi di ruggine. Contro un aereo, sono potenti quanto cerbottana. Ad Aleppo all’improvviso, semplicemente, muori. Si scava con le mani, non ci sono pale, ruspe, e comunque non c’è benzina, non c’è più neppure elettricità, si scava alla luce dei telefonini, degli accendini, i cadaveri che ti fissano incastonati tra mozziconi di pilastri.
La controffensiva di Assad è iniziata a dicembre. Entri in città attraverso 15 chilometri di linea del fronte, adesso, a partire dalla zona industriale di Sheik Najjar, un tempo così saldamente controllata dai ribelli da ospitare la sede del Consiglio Rivoluzionario, l’amministrazione provvisoria di Aleppo che era lì ottimista a ripristinare tubature, riaprire scuole, persino ripiantare gli alberi – e invece entri così, adesso, tra mortai, RPG, kalashnikov, un aereo in testa, il gas a manetta, per rifugiarti il più veloce possibile nei quartieri residenziali: e cioè sotto i barili esplosivi. Barili. Barili farciti di benzina e tritolo, giù dagli elicotteri a due, tre, quattro alla volta. Piovono a decine, ogni giorno, ogni notte, ogni ora, ovunque, letteralmente ovunque, una media di 50: e non si ha alcuna distinzione tra civili e combattenti, l’unica differenza è che il fronte è bombardato con gli aerei, più precisi – ribelli e lealisti, al solito, sono così vicini che si insultano mentre si sparano: i barili colpirebbero anche i lealisti. Ma è l’unica differenza. Perché per il resto, il criterio di distinzione, ad Aleppo, di selezione degli obiettivi, è uno solo: senso orario o antiorario.
Continuiamo a chiamarla così. Aleppo. Ma è Dresda, ormai.
Chilometri e chilometri – Aleppo non esiste più. E’ ogni giorno più in macerie.
E però non è deserta come sembra. Come dicono. Perché diventare rifugiati, come osserva il mio interprete, “è un lusso che non tutti possono permettersi”. Non ha i 150 dollari per pagarsi un’auto fino in Turchia, più i 100 dollari a testa, moglie e tre figli, per corrompere un poliziotto e attraversare clandestino la frontiera: in pochi hanno ancora un passaporto – e comunque in Turchia ormai i rifugiati sono 700mila: i campi delle Nazioni Unite sono al tracollo. Sembra deserta, Aleppo: e invece a centinaia, a migliaia, esausti, sono ancora qui.
80mila, secondo le stime. Masticando cartone per spegnere la fame, lo sguardo macero, stravolto, fermi laceri a bordo strada, il naso per aria – perché un tempo l’aereo arrivava e bombardava: due, tre volte la settimana, bombardava e spariva, ora l’elicottero volteggia, e all’improvviso, bombarda: due, tre volte l’ora. All’improvviso muori. Non c’è altro, ad Aleppo. Non c’è altro. Aspetti e muori, in questo nido di vespe, questo nido di tuoni, nient’altro, solo il ronzio che si fa più forte, a tratti, e solo questo urlo, all’improvviso, tayara! tayara!, un aereo!, e tutti che si tuffano sotto una sedia, dietro un armadio, un vaso un secchio, qualsiasi cosa – perché sembra deserta, Aleppo, e invece a centinaia, a migliaia, terrorizzati, ti sbucano addosso dalle macerie. Vivono così, in mezzo ai corpi mai recuperati: pensando che magari una casa già colpita è meno probabile sia colpita di nuovo – tra le pietre, tra le lastre di cemento galleggiano vestiti, libri, un orologio, una scarpa con ancora dentro il piede di un bambino. “Per voi non siamo che un numero”, protesta un ragazzo a Sayf al-Dawla mentre insiste per dettarmi l’elenco delle vittime dell’ultimo bombardamento. Nome a nome. Ma da gennaio l’ONU ha fermato il conto dei morti: troppo difficile aggiornarlo, le fonti, ha spiegato, sono inaffidabili – e quindi, invece di fermare la guerra, ha fermato il conto dei morti. Protesta, il ragazzo, insiste per raccontarmi la loro storia, uno a uno: non sa che per noi i morti, in Siria, non sono più neppure un numero.
Ma parlare, ad Aleppo, domandare, è difficile. E non solo perché i giornalisti sono ancora nel mirino di al-Qaeda, ancora costretti a girare clandestini, il più invisibile possibile – di oltre 20 di noi, al momento, non si hanno tracce. Parlare è difficile perché i siriani provano a risponderti, uomini, donne giovani, anziani, chiunque: iniziano, una frase, una frase e mezza – ma poi ti franano sulla spalla, disperati: e piangono. Piangono, e sono loro, a domandartelo – Perché? Perché? ti chiedono, e non riescono a dirti altro, disperati. Ti abbracciano e piangono.
Piangono fino alla nuova esplosione. Fino a quando una doshka non tossisce questi quattro, cinque colpi: non per difenderti, non per abbatterlo, solo per avvertirti che un elicottero pochi secondi e arriva, pochi secondi e forse muori, mentre subito, di nuovo, senti anche tu il rumore, sempre più forte, più vicino, in questi pochi secondi infiniti, e tutti di nuovo che urlano, di nuovo che corrono – e di nuovo, violenta, l’esplosione. L’apnea. Al-Ansari, ore 16.40. La prima a riaffiorare è la sagoma di una donna. Fora la nebbia di polvere e cordite, ti barcolla incontro. Poi un uomo, un altro, un altro ancora, uno che sviene, tra le braccia, sfilacciati, questi corpi indecifrabili, questi corpi strappati, che gocciolano, che colano a terra. Il bambino che hai incrociato poco prima che ora è lì, grigio, ancora stretto al suo orso di pezza.
Un tappeto, sparsi, un ventilatore, un torso. Un triciclo.
E per giorni, all’alba, in controluce, come cercatori di conchiglie, vedrai le donne chine su questa battigia di resti umani. Tra le dita uno scampolo di stoffa, uno scampolo di figlio.
Muori, ad Aleppo. Nient’altro. Aspetti e muori.
Sono soli, i siriani, completamente soli, di qua dalla linea rossa – qui dove non si muore di gas, ma di tutto il resto: e quindi non importa a nessuno. Gli sfollati sono 9 milioni: quasi metà della popolazione. E 3,5 milioni sono in aree che l’ONU definisce “difficili da raggiungere”.
Gli imam, a novembre, hanno autorizzato a cucinare i gatti randagi.
Nonostante la risoluzione 2139 del Consiglio di Sicurezza, adottata il 22 febbraio, ordini di non ostacolare l’accesso agli aiuti umanitari, l’ONU, che per statuto opera mediante l’unico governo riconosciuto, e cioè il governo di Assad, per ora ha scelto di non forzare. E di adeguarsi. Assad vieta ai convogli di aiuti di entrare dalla frontiera con la Turchia, gestita dai ribelli, obbligandoli a entrare molto più a sud, con tempi e costi, e rischi, fino a dieci volte maggiori, denuncia Human Rights Watch. E soprattutto, con così tante restrizioni di movimento che quasi tutto, il 90 percento, finisce nelle aree sotto il controllo del regime – il regime sostiene che è per garantire la sicurezza degli operatori umanitari: anche se il racconto dei ragazzi della Croce Rossa, con tanto di cartellina con nomi e foto, è un po’ diverso: il regime ha arrestato e torturato molti di quelli che hanno provato a raggiungere le aree sotto il controllo dei ribelli.
Quelli che le hanno raggiunte, d’altra parte, sono stati sequestrati da al-Qaeda.
Alcuni convogli, in teoria, sono entrati proprio in questi giorni: ma nessuno ad Aleppo sembra avere ricevuto qualcosa. Riso, zucchero. Non ti imbatti mai in niente, qui, che abbia un logo straniero. Una bottiglia di latte: niente. L’unica certezza è che quando sei embedded con i ribelli, quale che sia il gruppo, degli oltre mille in cui sono ormai sgretolati, il cibo non manca mai. E in effetti: gli islamisti, e in particolare i ragazzi che sbarcano qui dalle periferie europee in barba e ipad, su facebook esaltano la Siria come “un jihad a cinque stelle”, promettendo alle potenziali reclute che non troveranno un nuovo Mali – tutto fame e sabbia.
Anche perché questa è la sola altra certezza, qui. Un solo luogo, ad Aleppo, non è mai stato bombardato: il quartier generale di al-Qaeda. E così nel resto della Siria. Per la sua collocazione, è l’unico obiettivo militare legittimo in senso stretto – l’unico che potrebbe essere colpito senza danni collaterali sproporzionati al vantaggio militare conseguito. Ma è ancora lì.
E così nel resto della Siria.
Tranne al-Qaeda, è tutto sotto attacco. “Ormai non è più questione di aiuti umanitari”, mi dice Moayed Zarnaji, volontario della Croce Rossa. “Un chilo di riso non ti fa alcuna differenza. Muori comunque”. E spesso, muori comunque anche se sopravvivi al bombardamento: nessuno ti verrà a tirare fuori dalle macerie. Hanno istituito la Civil Defense, adesso, ragazzi con torcia, guanti, caschetto di plastica, un trattore, una specie di Vigili del Fuoco. Sono una trentina: ma il numero varia di giorno in giorno, di ora in ora – perché i cadaveri, ad Aleppo, sono sempre a coppia: il secondo è di chi è corso di istinto in soccorso, ed è stato centrato dal secondo barile. E se anche ti tirano fuori dalle macerie, nessuno, qui, ha più niente per curarti. Sono rimasti due ospedali. Anzi – uno: l’altro è stato centrato mentre scrivevo. “E se anche ti curano, torni sotto gli elicotteri”, mi dice una bambina. Il suo braccio sinistro è tutto schegge e cicatrici. Non fa in tempo a mostrarmi quello destro che esplode un mortaio, in fondo alla strada, e corre via.
Perché aspetti e muori, ad Aleppo. Nient’altro.
E niente è più feroce del primo bombardamento. Quando qualcuno, lì sotto, è ancora vivo, e senti le voci, le urla, tra la polvere, mentre ancora non distingui nulla, saa’idni! saaa’idni!, implorano, aiuto!, aiuto!, e come questa donna, adesso, siamo a Soukkari, davanti alle urla dei suoi due nipoti, 17 e 18 anni, e i parenti che la trattengono, lei che cerca di svincolarsi, e cade, si rialza, urla, saa’idini! saa’idni!, ed è il momento più atroce, i fratelli, i padri gli amici, tutti che li trattengono, e loro che cercano di svincolarsi, disperati, che si precipitano sulle macerie, così, a mani nude, e subito, un altro elicottero che arriva, puntuale, volteggia, sadico, mentre tutti corrono, ancora, e non si capisce più dove, ora, tutti che si svincolano, che cadono, e si rialzano, tra le urla, il frastuono delle pale, la polvere il sangue – l’esplosione.
Perché muori, ad Aleppo. Nient’altro.
La città è divisa in due: metà sotto il controllo dei ribelli, metà sotto il controllo del regime. E a settembre nella metà est, nella metà dei ribelli, un nuovo regime, quello di al-Qaeda, ha sostituito il vecchio. Ma oggi neppure ha più senso parlare di un regime, qui, si tratti dei ribelli o di Assad: perché Aleppo, semplicemente, è terra di nessuno. Preda di bande criminali. I checkpoint sono sostanzialmente scomparsi: i ribelli sono tutti al fronte, asserragliati nella battaglia. Dopo essersi dedicati più a saccheggi e estorsioni che al governo della città, e soprattutto, dopo essersi trucidati in scontri interni, spianando così la strada alla controffensiva di Assad, sono ora impegnati a tagliare le vie di rifornimento con Damasco, oltre che in un’operazione diversiva a sud-ovest, in provincia di Latakia. I nostri analisti seguono gli sviluppi militari passo passo, mappa alla mano, chi avanza, chi arretra: ora dopo ora: ma chiunque avanzi, chiunque arretri, in realtà nessuno governa più niente, qui – è vita allo stato brado. Nessuno controlla più nessuno.
Non si conquistano che macerie.
L’unico segno visibile di autorità è all’ingresso del Karaj al-Hajez, più comunemente noto come “il viale della morte” – perché è il punto di passaggio tra le due metà di Aleppo: ed è sotto il tiro costante dei cecchini di Assad. Per chi vive a est, è fondamentale. Per tanti, tantissimi, la sola fonte di reddito è il salario di dipendenti statali. Da ritirare a ovest. O il commercio di frutta, carne verdura, perché a ovest i prezzi sono più alti: e vendi un chilo lì per ricomprarne due qui. Ma soprattutto, a ovest non sei sotto bombardamento. E hai gli aiuti umanitari. Gli sfollati sono tutti là. E quindi è qui, al Karaj al-Hajez, l’unico segno visibile di autorità. Gli islamisti di al-Qaeda prima hanno vietato il trasporto di cibo. Ora hanno costruito un muro.
Non discutono più di politica, i siriani. La guerra, ormai combattuta essenzialmente da stranieri, jihadisti da una parte, Hezbollah e iraniani e mercenari sparsi dall’altra, sembra non interessarli più. Non ti parlano più di “aree liberate”. Ora è solo: Aleppo Est e Aleppo Ovest.
“L’Esercito Libero avanza, avanza, sembra stia per vincere – e all’improvviso, non arrivano più armi. E il regime passa al contrattacco, allora. Avanza, avanza: sembra stia per vincere – e all’improvviso, all’Esercito Libero arrivano nuove armi. Ed è così da mesi”, riassume Alaa Alloush, uno degli ultimi attivisti ancora qui. Ancora vivi. “Siete tutti lì a discutere dell’opportunità di un intervento esterno. Ma l’intervento esterno, qui, è già in corso. Abbiamo piuttosto bisogno di un intervento interno: che la Siria sia restituita a noi siriani”.
Perché l’unica priorità, qui, è sopravvivere. Elicotteri, aerei, aerei, elicotteri: non c’è tregua. E a sera, non ti rimane che rannicchiarti in un angolo: terrorizzato. Su Aleppo Today, la televisione locale, il bollettino dei morti scorre come i titoli di coda, in basso, costante, mentre alla finestra, nel buio, ogni dieci, venti, trenta minuti, lo spettro di Aleppo ricompare nel lampo di un’esplosione. Continuo a guardare nervosa l’ora. Ad aspettare l’alba: ma sono l’unica, è un’abitudine di un’altra vita. Perché la sola differenza tra la notte e il giorno, qui, è che di notte neppure puoi correre via. La notte la guerra, ad Aleppo, si fa assassinio. Non si combatte: si muore e basta. A caso.
Perché bombardano, qui, bombardano, bombardano. Bombardano. Nient’altro.