Ne hai sentito parlare per decenni, l’hai visto citato e l’hai citato tu stesso infinite volte: eppure non l’avevi mai potuto sfogliare. Viaggio in Italia di Ghirri e compagni è stato per anni un’inafferrabile araba fenice. E come un’araba fenice risorge adesso dalle sue ceneri (leggi: riproduzione in facsimile), ripubblicato da Quodlibet a 40 anni dalla prima edizione. Finalmente ce l’hai in mano e lo puoi sfogliare per compiere il tuo personale viaggio nel Viaggio. La prima cosa che colpisce è (re)incontrare un pezzo di storia di organizzazione culturale italiana che avevi dimenticato insieme alla stagione dei cineforum. Leggi che originariamente tutta l’operazione nacque sotto l’egida dell’ARCI Media e di alcune sue emanazioni pugliesi e ti viene nostalgia a pensare a come allora la cultura sapeva costruirsi dal basso perché esistevano queste cinghie di trasmissione che davano forma a idee invece che produrre “eventi”. E poi ti commuovi poche pagine in là, dopo il fondamentale saggio di Arturo Carlo Quintavalle (ma quello l’avevi letto), quando compare una breve presentazione dei fotografi che si conclude con la comunicazione del loro indirizzo e del loro numero di telefono. Già, perché nonostante si tratti di artisti dal talento cristallino, non sono star circondate dal mistero, ma lavoratori della cultura che hanno bisogno di committenze. Sarai ingenuo, ma provi commozione nel leggere quelle informazioni gettate al pubblico con fiducia e senza nessuna preoccupazione di privacy, indizio di un mondo che è esistito anche se si fa fatica a ricordarlo tale.

Poi inizi a guardare le fotografie e quasi tutte le conosci, ovviamente, ma messe così in fila, compatte, rivelano una sorprendente coerenza di progetto, come fossero state scattate da un solo fotografo. E per la prima volta fai un pensiero su quello che questo libro ha significato per tutti quanti sono venuti dopo.

Torni indietro con la memoria a venti anni fa, quando giravi i paesi ex-sovietici con Marco Belpoliti per realizzare La strada di Levi. E ti ricordi di un giorno in Ucraina quando Sofia, la giovane interprete, stanca della nostra costante richiesta di vedere vecchi kombinat, kolkoz in rovina, casamenti di periferie socialiste, sbottò: “Ma perché volete vedere solo le cose del passato che vanno in rovina? Noi stiamo costruendo un paese nuovo!”. Ridemmo, scherzammo, girammo intorno alla questione. Non ce la sentivamo di dirle che il suo “paese nuovo” l’avevamo già visto, perché era proprio da lì che venivamo: dall’Occidente che si palesava a ogni angolo come il nuovo modello di sviluppo. E che a noi quel “nuovo” sembrava già vecchio fin dalle fondamenta. Ecco, quello che pensi adesso è che Viaggio in Italia era un reportage in anticipo di decenni su quello che stava accadendo al nostro, di paese. Fu la geniale idea, alimentata da una sensibilità inedita per la nostra cultura, di andare a cercare le tracce del passato prima che passato lo diventasse davvero. Eppure era già tutto lì, nei segni del nostro paesaggio, solo che non ci aveva mai pensato nessuno, quantomeno in quel modo non ideologico e senza sociologia, ma come pura esperienza del vedere. Dicendo “passato”, naturalmente, non si parla di vestigia del tempo andato, prossimo o remoto, ma di uno zeitgeist, di qualcosa di invisibile che pure solo le immagini sanno documentare. È il passaggio tra due pezzi di storia quasi equivalenti per durata: dal dopoguerra a tutti gli anni ’70; e tra gli anni ’80 e adesso. Una sorta di ombelico spazio-temporale in cui, usando uno sguardo “vuoto” e laterale, si poteva perfettamente cogliere la fine di un mondo e la sua trasformazione in qualcos’altro. E così ecco le piazze deserte, i campi di calcio amatoriale sperduti nel nulla, la gente ripresa di schiena, i cavalcavia di cemento, gli interni disabitati. È svuotando lo sguardo dal cumulo dei segni e dei messaggi che puoi leggere l’affacciarsi di uno spaesamento dal quale ancora non ci siamo ripresi come popolo: la disarmonia del rapporto tra noi e i luoghi in cui viviamo, nata proprio in quell’epoca, anche se ogni tanto – come nella famosa foto di Ghirri dei due gitanti che si tengono per mano – affiora il senso di una speranza.
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Capisci anche quanto quel progetto fosse chiaro e determinato, osservando come le fotografie sono raggruppate per capitoli, e non per contributi individuali. La narrazione si articola così: “A perdita d’occhio”, “Lungomare”, “Margini”, “Del Luogo” (sic), “Capolinea”, “Centrocittà”, “Sulla soglia”, “Nessuno in particolare”, “Si chiude al tramonto”, “L’O di Giotto”. Ogni titolo di capitolo potrebbe essere buono come tema per un libro, addirittura per un manifesto programmatico. Inizia, con Viaggio in Italia, la salubre pratica di raccontare gli interstizi, invece che i grandi panorami, quelli che danno il “senso generale” di un luogo. È finita l’era delle ideologie positive (il ’77 è appena passato; e l’hanno, l’abbiamo vissuto tutti…), guardare non significa più “capire” o “documentare”, ma intensificare la forza della visione su un dettaglio. Queste fotografie applicano la lente di un microscopio alla realtà e quello che si vede in un microscopio è assolutamente vero (è uno strumento della scienza…) ma è anche uno spazio di totale immaginazione, nel suo rendere forma astratta un fenomeno fisico. Una disposizione che diventa programmatica in uno scatto realizzato nel ravennate da Guido Guidi: c’è una casupola nel nulla, chiusa o abbandonata, fotografata dal lato lungo, dietro cui si intuisce una pianura brulla e insignificante. Ma la desolazione si ribalta in qualcos’altro quando poni l’attenzione su una scritta che qualcuno ha incastonato nel muro (con convinzione mista a ironia, immagino) e che dice: “Villa dei sogni”. Ecco, questa è diventata l’Italia: una sgangherata parodia del suo glorioso passato dentro la quale, però, come diceva Gianni Celati a proposito delle case geometrili in Mondonuovo, il film che girai con lui nel 2002, “è ancora possibile avere una visione”.
Guido Guidi

Già, Celati. Nel volume c’è anche il suo reportage (così lo indica la copertina) che si intitola Verso la foce, da cui nacque poi, espandendo il nucleo originario, il libro omonimo. Lo compulsi per vedere differenze con quello che avevi letto tanti anni fa quando uscì per Feltrinelli. Ti rendi conto che in quest’ultimo c’è una “Notizia” a precedere i racconti, dove Celati descrive questi paesaggi come “l’attraversamento d’una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni”. Eccoci, siamo noi. E verifichi che nel testo la parte che riguarda il paese di Anita (si chiama così perché vi morì la moglie di Garibaldi) sia sostanzialmente identica. Lo fai perché ti ricordi che proprio ad Anita c’eri andato con Celati per la scena finale di Mondonuovo, e di come in quella sequenza lui dica di essere passato di lì vent’anni prima e scopra che in verità nulla è cambiato. Perché Anita è appunto uno di quei luoghi dove “nuovo” e “vecchio” perdono di senso, dove con una frase fatta verrebbe da dire che “il tempo si è fermato”, ma non è vero, qui il tempo scorre, ma scorre in circolo, senza progresso ma anche senza epocali inquietudini. Quindi Anita, nonostante l’assoluta umiltà del posto, argomenta Celati, è un luogo in cui “si sta bene”. E pensi che questa idea di “stare bene” è quella che ti ha sempre dato la lettura dei suoi libri, e in qualche modo è l’effetto che ti fanno anche queste fotografie: nonostante siano quanto di più lontano ti puoi immaginare dalla descrizione di un momento di felicità, ti “fanno stare bene”, come quando ti capita di trovare qualcosa che non stavi cercando: l’epifania di una verità. E torni alle ultime frasi della “Notizia”: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare a una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi”.

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