Il punto d’intersezione tra Artaud e i Tarahumara – che glorificano l’idea del teatro come rito, del linguaggio come atto sacro – è un poema di Alfonso Reyes, Yerbas del Tarahumara, scritto nel 1929, tradotto in Francia da Valery Larbaud. Artaud fa di quel poema il primo passo della sua escursione mistica, una specie di mappa che forgia il Messico immaginato. Figura capitale della cultura latinoamericana del secolo scorso, poco tradotto in Italia (il suo Goethe è edito da Garzanti nel 1961; Quodlibet ha pubblicato nel 2018 La regione più trasparente dell’aria: saggi di cultura ispanoamericana), nel 1929 Alfonso Reyes è ambasciatore messicano in Argentina, dove frequenta Victoria Ocampo e José Ortega y Gasset, pubblica Borges – suo ammiratore –, Macedonio Fernandez, Ricardo Güiraldes. Figlio di un alto generale dell’esercito, che guidò un golpe, nel 1913, ai danni del presidente Francisco Madero, visse per un decennio in Spagna, visitò l’Italia, fu in contatto con le grandi personalità dell’epoca. Nominato numerose volte al Nobel – nel 1949, tra l’altro, da Gabriela Mistral – fu ambasciatore in Brasile, animatore culturale, omaggiato dalle università di Princeton e Berkeley con la laurea ad onore. Morì nel 1959, autore di un’opera impressionante, creativa e critica. Personalità affatto diversa da Artaud, Reyes avvicina i Tarahumara con curiosità antropologica: Artaud trova tra loro una rivelazione esistenziale prima che estetica, conoscitiva. Entrambi scorgono in quell’arcana civiltà un veleno, che corrode e corrobora.
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Erbe dei Tarahumara
I Tarahumara sono scesi
segno di anno malato
di scarso raccolto in montagna.
Nudi, abbronzati
duri e dalla pelle lucida, maculata,
anneriti dal vento e dal sole, animano
le vie di Chihuahua,
cauti e sospettosi,
con tutte le radici della paura contratte
come pantere lente.
Nudi e scuri
impavidi cittadini delle nevi.
Cattivo anno in montagna
quando il cupo disgelo delle cime
dilaga tra i villaggi
degli animali umani, tra le mandrie.
I missionari li hanno fatti cattolici
agnelli dal cuore di leone.
Senza pane e senza vino
celebrano la funzione cristiana
con birra e pinoli,
polvere di tutti i sapori.
Bevono birra di mais e peyote
erba di prodigi e di presagi
sinfonia esatta
che trasforma i rumori in colori;
vasta ebbrezza metafisica
li gratifica nel cammino terreno
infine il dolore comune
della razza umana.
Eroi nella maratona del mondo
mangiano carne acida di cervo
omaggiano il primo nel trionfo
il giorno in cui è scosceso
oltre la muraglia dei cinque sensi.
A volte, traggono oro da miniere occulte
rompono zolle tutto il giorno
seduti nella via
tra l’invidia colta dei bianchi.
Oggi portano erbe alla mandria
le erbe salutari che mutano il tempo
yerbaniz, citronella, simonillo,
che curano le viscere aggrovigliate
e il male che la gente chiama “bile”;
e l’erba del cervo, del chuchupaste
e l’erba dell’indio, che ristora il sangue;
e l’ocotillo che sana le ferite
erba per la febbre di palude
erba di vipera che cura il raffreddore;
collari di occhi di cervo
efficaci per ogni sorta di sortilegio;
sangue per suturare le gengive
e curare la narice e i denti molli.
(Il nostro Francisco Hernández
Plinio messicano del 1500
ha studiato più di milleduecento piante magiche
della farmacopea india.
Senza essere un botanico
don Felipe Segundo
riusciva a spendere settantamila ducati
benché quell’erbario eccezionale
si sia perso tra incuria e polvere!
Padre Moxó ci assicura
che non è stata colpa del fuoco
che nel XVII secolo
ha incenerito l’Escorial).
Con la muta pazienza della formica
gli indios radunano per terra
l’erba, in fasci,
straordinari nella loro scienza naturale.
Alfonso Reyes