Abbiamo visto “ Vizio di Forma “ diretto da Paul Thomas Anderson.
Si può coniugare la letteratura del grande Chandler con quella di Bukowski ? Raccontare con il noir un’America vicina al baratro, una società crudele, e inserire il classico umorismo del vecchio zozzone Bukowski, il tutto messo davanti ad uno specchio deformante ? Rivaleggiare con il grande Altman de Il lungo Addio ( appunto Chandler ) e strizzare l’occhio al migliore Cinema dei fratelli Coen ( Il grande Lebowski ) ? Ebbene Thomas Anderson è riuscito nell’impresa, realizzando un altro grande film, fuori dagli schemi in una molteplicità psichedelica che se fossimo negli anni sessanta si potrebbe scrivere di andare a vedere il film in acido lisergico. Ma i rimandi cinematografici di questo maestro originale, perfezionista, cinefilo fino al midollo – che come l’amico Tarantino non ha studiato in una Università di Cinema, ma ha imparato a destreggiarlo con maestria vedendo migliaia di film e acquisendo una conoscenza enciclopedica del pianeta filmico – sono anche altri come il Martin Scorsese di Tutto in una notte, il Welles di Rapporto Confidenziale ma anche in una specie di B-movie alla Roger Corman, e via discorrendo. Realizzando il film con un suo tocco personale e creativo, come se ci avesse fatto entrare in un museo del Film.
L’azzardo dell’operazione – in cui appaiono e scompaiono figure approssimative e improbabili, come in un mondo rovesciato e drogato, si spalmano in una terra solitaria, vuota e di nessuno – riesce alla perfezione proprio dove in molti altri registi sarebbero scivolati sull’improvvido, sull’impresentabile e sul fallimentare. Ma Anderson è una garanzia ( ricordiamo suoi film come il capolavoro Magnolia o Il Petroliere ), e se fosse possibile farlo lo collocheremmo in una classifica di grandi registi di questo inizio del secolo.
Il film è tratto dal romanzo di Thomas Pynchon ( pubblicato da Einaudi, per Stile libero nel 2011 ), ritenuto il più semplice dei romanzi di questo scrittore americano marginale ma di culto; l’epigrafe presente sul romanzo ( di cui la locandina è frutto ) è stata disegnata ispirandosi a un famoso schizzo di graffiti radicali, scarabocchiati durante le proteste del Maggio ‘68 a Parigi, Sous les pavés, la plage ! E non poteva essere altrimenti, in quanto la storia è ambientata nel 1970 e rappresenta l’anima di quel periodo, un tempo che per alcuni era di non ritorno, con un’insanabile frattura tra hippy, freaks, musicisti, tossici, renitenti alla leva e personaggi orridi del consumismo, falsi profeti, politici dai dubbi valori. Era il tempo dei Nixon, dei Charles Manson, del tenente William Calley e della sua strage a My Lai. E in questo contesto, ma in una terra solitaria e desolata, senza remissione dei peccati, lontana dalle marce contro la guerra del Vietnam o per i diritti civili, si muove l’investigatore privato Doc Sportello ( un sempre bravo Joaquin Phoenix ), un mezzo hippy, stordito dalle troppe canne e in fondo un sognatore dai sani principi ( Un figlio generazionale di Philippe Marlow ), vive in una casa che è poco più di una baracca, ha un ufficio ancora meno probabile ed è ancora innamorato di Shasta Fey, una donna che lo ha lasciato da tempo perchè un vero spirito libero dell’epoca. Doc ciondola sulla spiaggia di Gordita Beach, si annusa i piedi puzzolenti, cammina quasi sempre con i sandali e si lava poco; se ne sta sbracato da solo, o in compagnia di qualche amico ancora più improbabile di lui socialmente, a casa o in qualche bar ( come i personaggi di Bukowki ). Ricompare nella sua vita Shasta ( Katherine Waterston ), con le sue gambe fantastiche e una minigonna dei tempi, ma solo per affidargli un incarico che si rileverà complicato e pericoloso. Il suo ultimo amante, il palazzinaro Wolfmann ( un bravissimo e sempre mal sfruttato dal Cinema Eric Roberts, destinato oramai a ruoli marginali e di cattivo ) è stato ricoverato in modo coatto dalla moglie e dal suo amante per godersi i soldi dell’uomo. Come nel migliore noir americano degli anni trenta, Doc non inizia nemmeno a indagare che già è coinvolto e accusato dall’amico-nemico, il capitano Bigfoot ( Josh Brolin ) – un duro figlio di puttana però che ha sempre in bocca una salsiccia o una banana al cioccolato e si fa trattare dalla moglie come un bambino in punizione – di omicidio ( e qui, ma anche in altri passaggi, ci ricorda Chinatown di Polanski ), ma viene subito liberato dall’improbabile e forse losco amico-avvocato ( Benicio Del Toro ). Nell’indagine allucinata e labirintica, ricca di sotto storie e di piccoli incredibili personaggi, compaiono un senatore corrotto, un dentista cocainomane ed erotomane che ha un enorme ufficio per evadere le tasse, una ricca ragazza strafatta, un padre di famiglia ( Owen Wilson ), confidente della polizia, che si fa dichiarare morto e si nasconde in una setta religiosa per non fare più il delatore, la sua dolce famiglia che non crede nella sua morte, una vice procuratrice ( Reese Witherspoon ) che ha una relazione saltuaria con Doc e solo per scopare, un ex carcerato che deve avere soldi da un criminale, una misteriosa barca che forse serve ai trafficanti, una montagna di droga che transita a casa di Doc, un agente corrotto e assassino, il suo assistente nazista. E poi, una casa di piaceri asiatici a prezzo fisso, la villa con piscina di Wolfmann con la di lui moglie in costume da bagno, il biondo losco amante e una cameriera messicana puttanona e via discorrendo… Naturalmente il finale, come da prassi, è agrodolce, da un lato Doc fa ricongiungere la famigliola rinunciando ad una bella cifra ma allo stesso tempo l’utopia degli anni sessanta, l’ultima possibilità del sogno americano, si frantuma davanti alla natura umana e ai suoi cinici fallimenti. Sta finendo il tempo dei figli dei fiori e delle rivolte, la marihuana da coltivare in giardino il tutto viene soppiantato dai cartelli internazionali della cocaina, compaiono dei nuovi milionari ancora più carogne dei precedenti e con meno morale se fosse possibile.