Se ti trovi su una nave che affonda, i tuoi pensieri riguarderanno navi che affondano. Così scriveva George Orwell in un articolo del 1948, Gli scrittori e il leviatano, a proposito del rapporto fra letteratura, politica, arte e ideologia, e la nave a cui si riferiva era l’Europa degli anni Trenta e Quaranta, vale a dire la Germania di Hitler, la Russia di Stalin, l’Italia di Mussolini e la Spagna di Franco, con cui la sua opera aveva dovuto fare i conti – “una specie di pamphlettista”, si definì una volta. Poco più di un decennio prima, nel ciclone del Terzo Reich, il preside dell’Università di Bonn revocava la laurea honoris causa assegnata a Thomas Mann nel 1919, adducendo che Mann aveva preso parte a “manifestazioni di associazioni internazionali, per lo più influenzate da componenti ebraiche”. La risposta di Mann, vero e proprio pamphlet antifascista – “Hanno l’incredibile spudoratezza di spacciarsi per Germania!” esclama sdegnato –, passerà alla Storia come uno dei grandi gesti civili del Novecento.
Il ruolo dello scrittore è stato spesso associato all’immagine di sentinella democratica o guida morale di un paese, di una cultura, di un’ideologia. Ancora oggi, anni dopo il crollo del Muro di Berlino e nel disincanto dalle ideologie e dalla letteratura impegnata, gli scrittori vengono interpellati su qualsiasi argomento, dalla politica allo sport, dal gossip alla disoccupazione, non tanto per le loro opere quanto per la loro bibliografia, ossia per quei due o tre titoli da accompagnare alla qualifica di scrittore e intellettuale, nei casi peggiori di opinionista. Già nel 1937 la Left Review esasperava Orwell con questionari del tipo: è favorevole o contrario al governo legittimo e al popolo della Spagna repubblicana? è favorevole o contrario a Franco e al fascismo? E lui rispondeva: “Volete piantarla, per favore, di mandarmi questa stronzata? È la seconda o terza volta che la ricevo. Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden o Spender…” Di certo, “finocchietto” o meno, uno scrittore engagé come Orwell era in grado di dire la sua sulla Spagna repubblicana e sullo stalinismo, però nelle opere, da Omaggio alla Catalogna a La fattoria degli animali, che né la Left Review né il Partito comunista britannico avevano voglia di leggere.
“Quando uno scrittore s’impegna in politica” scrive ancora Orwell in Gli scrittori e il leviatano, “dovrebbe farlo come cittadino e come essere umano, ma non come scrittore”. E tuttavia è proprio in quanto scrittori – in quanto intellettuali, o “guru e bonzi alla Robert Frost”, come temeva Saul Bellow – che le “firme” vengono chiamate in causa. Perché? Per quale motivo uno scrittore dovrebbe essere più lucido di uno scienzato o di un idraulico, politicamente? Dopotutto per ogni Mann e Orwell spuntano fuori altrettanti Hamsun e Céline, riusciti o meno, destinati all’oblio o alla posterità, alle note a pié di pagina o al catalogo della Pléiade. La letteratura straripa di folli, di mostri fragili o anche di uomini occasionalmente cinici, come il Pirandello che plaude all’assassinio di Matteotti o il Pessoa che pubblica l’articolo O Interregno, Defesa e Justificação da Ditadura Militar em Portugal. Lo scrittore difatti è un uomo come gli altri e talvolta peggiore degli altri, per ingenuità, per ambizione, per pazzia o per debolezza, e in quanto tale – in quanto uomo – vive le Meduse del proprio tempo, l’orrore e il brulicare dei tentacoli della Storia e delle ideologie, restandone spesso stregato o corrotto, se non indifferente. In fin dei conti il sostegno pubblico di Pirandello a Mussolini e la sua tempestiva adesione al fascismo sono infinitamente più colpevoli – proprio perché gesti intellettuali, non provocatori o estetici – della presa di Fiume e della “poetica dittatura” di d’Annunzio. Nel settembre del 1924, un mese dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti e nel pieno di una difficile crisi di governo, i giornali fascisti accolsero il telegramma di Pirandello come un intervento civile, patriottico, responsabile, fascista. “L’arte pirandelliana non ha nulla a che fare col fascismo, ma Pirandello sì” concluderà anni più tardi Sciascia.
Nel Novecento un gesto rivelatore del conflitto fra arte e politica – di più: fra arte e potere – è stato il suicidio di Yukio Mishima. O meglio, non il suicidio, bensì le azioni che precedono il suicidio, con Mishima e i seguaci della Società dello Scudo che entrano nel ministero della Difesa giapponese e prendono in ostaggio il capo delle forze armate, il generale Masuda Kanetoshi, imbavagliandolo e legandolo a una sedia, pretendendo un’adunata dell’esercito. Simbolicamente, si tratta di un gesto immenso, unico: l’artista che lega a una sedia l’uomo di potere e ne prende le veci, arringando una folla di soldati. È un po’ come se Pasolini e Moravia avessero rinchiuso Andreotti e Moro in un casolare di Ostia o in un attico dei Parioli e chiamato a raccolta giornali e televisioni, studenti e poliziotti, figli di papà e figli del popolo. Peccato che l’arringa di Mishima, un pistolotto sull’onore del Giappone e sulla Maestà imperiale, non ottenga gli effetti sperati: i soldati non lo ascoltano, lo deridono, lo insultano, se ne vanno. Per tutta risposta, Mishima torna dal generale e senza liberarlo si dà la morte per sventramento, secondo il rituale dei samurai. Uno dei suoi seguaci gli mozzerà la testa.
Storicamente, gli abusi del potere sull’arte rendono comprensibili e addirittura dovuti gesti anche più eclatanti di quello di Mishima. Per Stalin, ad esempio, gli scrittori erano “ingegneri dell’anima umana”, e tuttavia lui e il Partito non perdevano mai occasione di umiliarli pubblicamente e privatamente. Durante un congresso dell’Unione degli Scrittori Sovietici, Isaak Babel’, intellettuale osteggiato dall’intellighenzia russa perché ebreo e non “allineato”, accennò alla necessità del silenzio in quel particolare momento storico; di lì a pochi anni fu arrestato per spionaggio, processato e fucilato. Meno tragicamente, lo scrittore “proletario e realista” Aleksandr Avdeenko fu criticato per non aver elogiato abbastanza Stalin in un discorso pubblico: per redimersi dovette dichiarare che la prima parola pronunciata da suo figlio – e diceva sul serio – non sarebbe stata “mamma” o “papà”, bensì Stalin.
“Tu, sole splendente delle nazioni, sole intramontabile dei nostri giorni” declamava invece Aleksej Tolstoj, sempre in omaggio al Piccolo Padre dei Popoli, e chissà cosa avrebbe scritto il fiero Lev del suo goffo e servile nipotino, più simile a un Borís Drubetskòj da due soldi che a un principe Andrej o a un Pierre Bezuchov. D’altro canto lo stesso Stalin credeva poco a quelle lusinghe, come non credeva alla qualità letteraria del realismo socialista. Uno dei maggiori biografi staliniani, Robert Conquest, osserva che gli scrittori paradossalmente da lui più apprezzati erano i meno allineati con l’intellighenzia, vale a dire Šolochov, Erenburg e soprattutto Bulgakov, allora conosciuto per il dramma I giorni del Turbin, cui Stalin aveva assistito svariate volte, e bollato dai critici come “borghese”, “mistico” e via dicendo. Il rapporto fra Stalin e Bulgakov è ancora oggi uno degli esempi più significativi dell’incontro-scontro fra arte e potere, della loro difficile convivenza. Quando la stampa stronca L’isola purpurea definendolo una “pasquinata contro la rivoluzione”, Bulgakov, esausto e disperato, domanda formalmente al governo di poter lasciare la Russia, emigrare all’estero – “Sono pensabile io nell’Urss?” scrive, con immenso coraggio. Dopo esserne stato informato Stalin decide di telefonargli, chiedendogli di punto in bianco se voglia davvero andarsene. “È tanto stufo di noi?” lo incalza. Bulgakov è stupefatto non solo dal tono della chiamata ma dalla chiamata stessa; nell’Urss ricevere una telefonata da Stalin equivale a farsi telefonare da Dio o dal Diavolo, da Woland. Preso alla sprovvista, risponde patriotticamente di aver pensato a lungo se uno scrittore russo possa vivere fuori dalla propria patria, e di credere di no. Stalin concorda, naturalmente, suggerendogli di proporsi per un posto al Teatro d’arte. “A me sembra che le diranno di sì” assicura. Di lì a poco, grazie all’intercessione di Stalin, Bulgakov può quindi vivere nell’Urss – ha un posto fisso, una posizione, è un privilegiato – ma non pubblicare, non essere un artista puro, giacché, come riconosce lui stesso nella lettera al governo, “ogni scrittore satirico attenta al regime sovietico”. In seguito, ancora osteggiato dalla critica e dalla censura, chiederà nuovamente di andarsene, senza successo. Eppure non romperà mai né con il partito né con Stalin, se non nelle opere postume, in privato, librandosi nel volo di Margherita e nel manoscritto del Maestro. Il suo ultimo dramma offerto al Teatro d’arte, peraltro anch’esso censurato, è un omaggio alla rivoluzione, Batum, un’opera propagandistica, da rappresentare il giorno del compleanno di Stalin, un inchino dell’arte al potere. E ovviamente oggi sarebbe facile condannare gli “inchini” come Batum; facile e ingiusto, vile. Lo scrive bene Heinrich Böll, nel 1974, rifiutandosi di ribattere a una lettera aperta di Vladimir Maksimov, scrittore sovietico e cristiano ortodosso: “Io non do lezioni a nessuno in Unione Sovietica, a nessuno che sia impotente, e contro il quale venga aizzata l’ira popolare.” Nessuno può dare lezioni, dunque, nessuno, non con il senno del poi o dell’altrove, non settant’anni dopo o dall’estero. Bulgakov era uno degli artisti più coraggiosi dell’Urss, ma se durante la telefonata con Stalin lo avesse mandato al diavolo sbattendogli il telefono in faccia, sarebbe scomparso per sempre dalla Storia e dalla letteratura.
Uno scrittore la cui opera è stata innalzata, stravolta e infine quasi dimenticata dalla Storia è il francese Henri Barbusse. Nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale, e Barbusse decide di andare in trincea da volontario, subito, nonostante i suoi quarant’anni e alcuni problemi ai polmoni. Dopo qualche mese riesce a raggiungere la prima linea, unendosi a un reggimento di fanteria: vi combatterà per due anni. Nel 1916 pubblica Le Feu, romanzo “antimilitarista”, acclamato dalla critica e dal pubblico come la prima valida opera letteraria sulla Grande Guerra, e premiato con il Goncourt (l’anno seguente il Gide del Journal ne loderà con riserve alcuni capitoli, disprezzandone degli altri). Di lì a poco, grazie a Le Feu e al Goncourt, Barbusse diventa quindi uno degli intellettuali più in vista della gauche francese, un comunista e un pacifista, iscritto al partito e “amico personale” prima di Lenin e poi di Stalin. Queste amicizie gli saranno fatali, mettendo fine alla sua opera e trasformandolo presto in un uomo di potere, uno scrittore d’apparato. Il suo ultimo libro, prima del postumo Lenin e la sua famiglia, si intitola Stalin, un mondo nuovo visto attraverso un uomo, e le sue oltre trecento pagine sono disseminate di feroci attacchi a Trockij, tacciato di vigliaccheria e mancanza di convinzione marxista, e di lodi sperticate a Stalin, uomo della provvidenza, onesto e luminoso, semplice, lavoratore, eroico, umile, “autore di opere importanti nella letteratura marxista” e così via. “Stalin ci ha salvato” dichiara Barbusse. “Stalin ci salverà.” E a proposito della guerra ormai imminente, si dice convinto che consentirà alla rivoluzione sociale di “diffondersi fra i solchi delle trincee, fra i palazzi delle città”.
Non puoi fare una frittata senza rompere le uova, recita il proverbio amato e ripetuto da Stalin e dai dirigenti sovietici – e rovesciato da Hannah Arendt nel dogma non puoi rompere le uova senza fare una frittata, “come se a furia di rompere uova su uova dovesse automaticamente prodursi la frittata desiderata” –, e in questo caso Barbusse, un tempo indefesso pacifista, lo riprende senza accorgersene: ben vengano le guerre (le uova rotte), se servono alla Rivoluzione (la frittata). Un suo rivale, lo scrittore romeno Panait Istrati, censurato in patria e osteggiato e calunniato proprio da Barbusse e dall’intellighenzia sovietica, ribatteva: “Le uova rotte le vedo, ma dov’è la frittata?” E per liquidare l’affaire Barbusse aggiungeva, rivolto al segretario della OGPU: “Oggi mi rendo conto di poterle essere utile soltanto a una condizione: non scrivere come Barbusse.”
Anche nella seconda metà del Novecento arte e ideologia sono spesso andate di pari passo, specialmente in Italia. Per una generazione di artisti e intellettuali sopravvissuta a due guerre e cresciuta nel mito di Majakovskij e di Gramsci, era prevedibile che le discussioni sulla politica e sulla società fossero vive, fervide e talvolta autenticamente artistiche, “sentite” – si pensi all’articolo di Vittorini, Le vie degli ex comunisti, seguito dalla risposta piccata e ironica di Roderigo da Castiglia, alias Togliatti, dal titolo Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato. Purtroppo era altresì inevitabile che tale impegno degenerasse in una sorta di delirio pseudo intellettuale, in particolare sui giornali e nelle riviste. Qualche esempio: su Vie Nuove, riferendosi a La Mortaccia, Pasolini affermava di voler “usare l’Inferno dantesco per dare un giudizio, storicamente oggettivo, e una diagnosi, marxisticamente esatta, della nostra società”; quanto alla critica letteraria, basti accennare al polverone di pro e contro suscitato da La Storia di Elsa Morante, con articoli intitolati: “La Morante, un’espressione della piccola borghesia” o “La Storia: un mediocre romanzo borghese, da criticare da un punto di vista marxista e proletario”. Pure qui, come per Batum, è fin troppo facile condannare posteriormente l’approccio marxista di Pasolini o il lessico da sezione del PCI delle pagine culturali; erano tempi diversi, e chissà cosa avremmo scritto noi al posto loro. Altra cosa è invece osservare come alcune opere siano state trascurate per via delle imprudenze o del coraggio dei loro autori. Nel 1956, per dirne una, deluso dai “fatti” di Ungheria, Domenico Rea si distaccò pubblicamente dal partito comunista. “Abbandonare il PCI” scrisse a Arnoldo Mondadori, dopo le prime accuse di tradimento e l’abbandono del quotidiano Paese Sera, “può significare la fine di un uomo.” E infatti di lì a poco Una vampata di rossore, il suo primo e intenso romanzo, frutto di anni di lavoro e riscritture, venne accolto in modo freddo dalla critica, diversamente dai suoi libri precedenti – tranne rare eccezioni, i recensori parlarono di “inconsistenza psicologica inedita nell’opera di Rea”, di “falso romanzo”, eccetera. Difficile credere che tali critiche siano state dettate da motivi estetici o strutturali e non dallo strappo di Rea dal PCI, da una misera vendetta politica.
Negli ultimi anni uno degli scrittori italiani più impegnati politicamente è stato Antonio Tabucchi. Anche prima della seconda Repubblica, il racconto Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino? fu citato – con Una storia semplice di Sciascia – al processo per l’omicidio di Calabresi, diventando un caso politico oltre che letterario. E tuttavia sarà solo con Sostiene Pereira, pubblicato nel 1994 e subito elevato a simbolo della sinistra italiana, che Tabucchi venne considerato quasi unanimemente uno scrittore “civile”. L’equazione era semplice: il Portogallo di Salazar stava a Pereira come l’Italia di Berlusconi stava a Tabucchi – e Tabucchi non fece nulla per confutare questa idea, anzi. D’altra parte anche uno scrittore e lettore del rango di Enrique Vila-Matas, di certo non accusabile di faziosità o di antiberlusconismo militante, in Dalla città nervosa ha scritto che la conversione di Pereira è politica e esistenziale, è una “presa di posizione etica, estetica e psicologica”, e il fatto che Tabucchi sia italiano non è un caso. Tralasciando il dibattito su Pereira – sul Corriere Franco Cordelli lo considerava invece un traditore, il simbolo della falsa coscienza e della disonestà intellettuale della sinistra italiana –, è interessante soffermarsi sull’impatto del successo di un libro per così dire “impegnato” nell’opera di Tabucchi. Ben presto l’autore di Sostiene Pereira diventa di fatto uno degli intellettuali più presenti e combattivi sulla scena politica europea, fra interviste, articoli, esili portoghesi, querele e via di seguito. Nel contempo però la sua opera narrativa ne risente; Tabucchi pubblica e scrive meno, e in fin dei conti L’oca al passo, notizie dal buio che stiamo attraversando non vale un solo rigo de Il gioco del rovescio o di Piccoli equivoci senza importanza. In effetti, dopo il 1994, a Tabucchi sembra essere accaduto ciò che Cioran lamentava per Borges, in una lettera a Fernando Savater: la consacrazione. “La malasorte di essere riconosciuto si è abbattuta su di lui” scrive Cioran. “Meritava di meglio. Meritava di rimanere nell’ombra, nell’impercettibile, di restare altrettanto inafferrabile e impopolare quanto la nuance. Lì, era a casa propria. La consacrazione è la peggior punizione – per uno scrittore in generale, e in modo particolare per uno scrittore del suo tipo.” Ciò che vale per Borges, vale a maggior misura per un cultore di Pessoa come Tabucchi, e cioè per uno scrittore notturno, discreto, di ombre e di fughe più che di presa di coscienza. E invece Tabucchi credeva molto nel proprio ruolo di intellettuale, e in fondo a ragione, per una sfida al disincanto ideologico degli anni Novanta, al crollo delle ideologie e della letteratura civile. “Nessuno scrittore e/o intellettuale italiano oggi vuole essere comunista” osserva ironicamente ne La gastrite di Platone, “anche perché quasi tutti lo sono stati in passato.” E ancora: “Ogni epoca ha il suo stile e i suoi simboli che scandiscono l’avanzare della civiltà: a suo tempo olio di ricino, indi stelle a cinque punte e via dicendo. Oggi l’epoca trash esige la poubelle.”
La poubelle, appunto. Perché nei giorni nostri il rischio non è più quello di compromettersi con il potere e con la Storia, bensì di usare la qualifica di “intellettuale” come un collare sfilabile a piacimento, come un ornamento del proprio nome o un passepartout opinionistico, aggiungendosi a volte alla spazzatura citata da Tabucchi o alle “stronzate” spedite a Orwell. Ormai lo scrittore occidentale può commentare e sottoscrivere qualsiasi cosa, proprio in quanto scrittore. Di conseguenza si moltiplicano le interviste, le chiacchiere, il gossip, le rubriche del cuore e via di seguito, trasformando le opere – o meglio: l’essere riconosciuti come “autori”, e cioè l’aver semplicemente pubblicato qualche libro – in un pretesto per darsi alla sociologia spicciola o all’autopromozione. Margaret Atwood, scrittrice incerta se definirsi una “fottuta femminista” o meno, in Negoziando con le ombre confessa di tentare sempre di svignarsela dai dibattiti sul ruolo dello scrittore nella società; “non si è mai a corto di persone in grado di stabilire che cosa faresti bene a fare” spiega, “e non si tratta mai di ciò che sei bravo a fare”, ovvero, nel suo caso, scrivere romanzi. Per evitare di finire nel cestino dell’attualità o del gossip, lo scrittore dovrebbe dunque pesare le proprie parole e la propria firma, non concedersi, ritrarsi, far parlare le proprie opere? Se Platone propone di sbattere fuori i poeti dal suo Stato ideale, non è meglio accontentarlo e tacere, disinteressandosi della società e consacrandosi all’arte, alla letteratura e all’ozio? E tuttavia le navi affondano, per riprendere la metafora iniziale di Orwell, tanto a Treblinka quanto a Beirut o a Sarajevo, e di fronte alle guerre e agli orrori della Storia gli scrittori hanno gli stessi diritti e doveri di chiunque altro – il diritto e il dovere di indignarsi, di condannare, di riflettere e di capire, anche a costo di sbagliare e essere a loro volta condannati dalla Storia e dalla posterità, ma in qualità di uomini e non di artisti. La poubelle postuma è sempre in agguato, certo, però se è vero che politica e letteratura sono due cose distinte e non conciliabili, è anche vero che lo scrittore, “impegnato” o meno che sia, deve sopravvivere a entrambe – suo malgrado.
Questo brano è un estratto (anzi, uno strappo, come lo definisce l’autore) del saggio Vomitando il Novecento, disponibile su e-book. Ringraziamo l’autore.