L’homo sapiens è un animale narrativo ?
Negli anni Ottanta una teoria nota come “narrativismo” si diffonde in molte discipline, dall‘antropologia alla linguistica, dalla filosofia alla critica letteraria, fino alla sociologia, passando per la psicologia e le neuro-scienze. Si parte dall’idea che la tendenza a ordinare gli eventi sparsi in una sequenza temporale coerente e carica di significato – in altre parole: una storia che abbia un senso – è alla base dell’esperienza umana. Noi siamo esseri narrativi. La nostra memoria e il nostro sé si basano entrambi su un processo di narrativizzazione, sulla rielaborazione di frammenti in una storia raccontabile a noi stessi e agli altri. Persino la costruzione della realtà, sostengono i più hardcore, è un fenomeno narrativo. Ovviamente, non si trattava di un‘idea completamente nuova. Le basi di quest’approccio erano state poste decenni prima da antropologi come Clifford Geertz, che identificava nella cultura, e dunque nell’esperienza umana «le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi», e filosofi come Paul Ricœur: «Io sono ciò che mi racconto», per fare soltanto due esempi. Eppure l‘inizio del narrativismo vero e proprio, un po’ totalizzante, si può ricondurre alla pubblicazione di quattordici saggi nel volume On Narrative, curato da William J. T. Mitchell, studioso di letteratura influenzato dal decostruzionismo di Jacques Derrida.
( Il pezzo che segue è tratto in anteprima da Scrivo, l’annuale digitale di Studio sui libri e quello che verranno. Sarà disponibile da domani, 24 luglio )
L’homo sapiens è un animale narrativo ? Proviamo a ragionare, con il minor numero di spoiler di Austerlitz, sul rapporto tra memoria, fiction e costruzione del sé. Anticipazione da “Scrivo”, il nostro annuale digitale sui libri che esce domani.
Il pezzo che segue è tratto in anteprima da Scrivo, l’annuale digitale di Studio sui libri e quello che verranno. Sarà disponibile da domani, 24 luglio. Sarà appunto solo in formato digitale, di fatto il primo numero di Studio di sempre che esce senza il supporto cartaceo. Come procurarselo? Per chi ha un iPad la cosa migliore è scaricare la nostra applicazione e acquistarlo lì (per i nostri abbonati è ovviamente gratuito). Per chi non possiede il tablet Apple e/o non potesse scaricare la nostra app (vivamente consigliata), la rivista sarà in vendita su PortReview.it. Avvertenza: è un esperimento, con un senso logico che vi raccontiamo da domani. Contiamo sul vostro supporto, come sempre. Grazie e, intanto, buona anteprima.
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“Il sé è una storia perpetuamente riscritta (…) alla fine noi diventiamo le narrazioni autobiografiche secondo cui raccontiamo le nostre vite” – Jerome Bruner
Il 28 marzo del 1941 Virginia Woolf riempì di pietre le tasche del suo cappotto e s’immerse nel fiume Ouse, poco lontano dalla sua casa di Rodmell, nel Sussex. Nella lettera d’addio indirizzata al marito Leonard, la terza scritta dall’autrice, che da tempo aveva tendenze suicide, raccontava: «Sento di stare nuovamente impazzendo. Sento di non potere sopportare un altro di quei momenti difficili. E questa volta non guarirò. Ho cominciato a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Dunque, sto facendo quella che mi pare la cosa migliore». Oltre che dalle voci che avvertiva nella sua testa, e forse non indipendentemente da esse, Woolf, che oggi probabilmente sarebbe classificata come maniaco depressiva, si sentiva perseguitata da qualcosa che non riusciva ad afferrare: se stessa, o, meglio, il suo sé. La frammentazione del sé, l‘idea che l‘io cosciente sia qualcosa di elusivo, che le percezioni sensoriali siano in realtà sconnesse, episodiche e talvolta cucite tra loro con una piccola dose di autoinganno capace di fare emergere un qualcosa di definito da un marasma di pensieri inconsistenti, era alla base della sua poetica. Come in Mrs Dalloway, dove le prospettive dei diversi personaggi si sovrappongono, rivelando un’identità individuale effimera, frammentata.
Nel 1981 Roger Wolcott Sperry, un neuro-biologo del Caltech, ha vinto il premio Nobel per la Medicina grazie alle sue ricerche sui due emisferi del cervello umano. Osservando pazienti che avevano subìto danni cerebrali tali da rendere impossibile la comunicazione tra gli emisferi, Sperry aveva notato che sovente questi sviluppavano due personalità, talvolta in conflitto aperto tra loro. C’era anche un tizio il cui emisfero sinistro odiava, e parecchio, quello destro. Conclusione: queste persone non avevano una mente, ne avevano due. Analizzando successivamente i cervelli delle persone “normali”, dove la comunicazione tra i due emisferi non era recisa, lo scienziato era giunto alla conclusione che, in realtà, la situazione non era poi così diversa: ragioniamo tutti quanti con due teste separate, che la pensano in modo diverso, riflettono in modo diverso, desiderano cose diverse. Solo che, in condizioni normali, a un certo punto si mettono d’accordo tra loro, dialogando, come due persone che litigano e a un certo punto si dicono: ok, parliamone.
Sperry ha dimostrato scientificamente quello che Woolf aveva intuito: la nostra testa è un posto terribilmente incasinato, composto da particelle disgiunte, e il sé nasce dall’illusione di potere cucire insieme ciò che in realtà è sconnesso.
Come fa notare Jonah Lehrer nel saggio Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni 2008), Sperry aveva dimostrato scientificamente quello che Virginia Woolf aveva intuito più di mezzo secolo prima: la nostra testa è un posto terribilmente incasinato, composto da innumerevoli particelle disgiunte, e il sé – inteso come coscienza coerente, consapevolezza di essere sempre lo stesso individuo in momenti diversi – nasce dall’illusione di potere cucire insieme ciò che in realtà è sconnesso,sparpagliato.
Quello della frammentazione del sé è un argomento che ha interessato, con sfumature diverse, non solo la neurologia e la critica letteraria, ma anche la filosofia, l’antropologia e la psicoanalisi. Quello che più interessa qui, però, è come Virginia Woolf sia stata maestra non soltanto nel mettere a nudo la natura squisitamente discontinua della percezione umana – di ciò che immagazzinano i cinque sensi, senza soluzione di continuità – ma anche, per paradosso, nel comprendere come da essa nasca un sé coerente. Proprio perché aveva capito quanto sconnessi siano i pezzi in origine, aveva compreso anche l‘importanza di metterli insieme.
A proposito: come dimostrato da Sperry, mettere insieme i pezzetti è qualcosa che facciamo tutti quanti. Anche noi partiamo da frammenti caotici, e in qualche modo proviamo a cucirli in una memoria coerente, in un‘identità costante nel tempo. Solo che lo facciamo con più naturalezza, in modo meno consapevole, e probabilmente con un maggior successo finale, rispetto a Virginia Woolf (incidentalmente: lei questa cosa ha saputo raccontarla molto meglio di quanto non sarebbe in grado di fare la stragrande maggioranza di noi comuni mortali). Proprio grazie alla sua condizione di malata, grazie a quel sé più sconnesso del normale, Woolf ha saputo dimostrare quanto la mente umana fosse «un bizzarro conglomerato d’incongruità», per utilizzare parole sue. E proprio perché aveva capito quanto artificiosa e illusoria fosse la costruzione di un sé coerente, ha compreso l’importanza di questo processo che è alla base del funzionamento delle persone sane, meno spezzettate di lei. Nel suo lavoro di scrittrice ha ripercorso – in modo ancora più artificioso, difficoltoso e di conseguenza infinitamente più consapevole – il processo che ogni giorno mettiamo in atto nei nostri cervelli.
A dire il vero, questo non dovrebbe essere un saggio su Virginia Woolf e la costruzione del sé. Dovrebbe essere una riflessione su W.G. Sebald, la costruzione della memoria (che, in fondo, non è una cosa poi così lontana dalla costruzione del sé) e tutto il dibattito che ci è girato intorno.
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“Siamo tutti romanzieri provetti. Cerchiamo di fare convergere tutto il nostro materiale in una storia. E quella storia è la nostra autobiografia” – Dan Dennett
Negli anni Ottanta una teoria nota come “narrativismo” si diffonde in molte discipline, dall‘antropologia alla linguistica, dalla filosofia alla critica letteraria, fino alla sociologia, passando per la psicologia e le neuro-scienze. Si parte dall’idea che la tendenza a ordinare gli eventi sparsi in una sequenza temporale coerente e carica di significato – in altre parole: una storia che abbia un senso – è alla base dell’esperienza umana. Noi siamo esseri narrativi. La nostra memoria e il nostro sé si basano entrambi su un processo di narrativizzazione, sulla rielaborazione di frammenti in una storia raccontabile a noi stessi e agli altri. Persino la costruzione della realtà, sostengono i più hardcore, è un fenomeno narrativo. Ovviamente, non si trattava di un‘idea completamente nuova. Le basi di quest’approccio erano state poste decenni prima da antropologi come Clifford Geertz, che identificava nella cultura, e dunque nell’esperienza umana «le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi», e filosofi come Paul Ricœur: «Io sono ciò che mi racconto», per fare soltanto due esempi. Eppure l‘inizio del narrativismo vero e proprio, un po’ totalizzante, si può ricondurre alla pubblicazione di quattordici saggi nel volume On Narrative, curato da William J. T. Mitchell, studioso di letteratura influenzato dal decostruzionismo di Jacques Derrida.
Tra i guru di questo nuovo credo, Jerome Bruner, psicologo cognitivista della Nyu. Bruner era convinto che la narrativa fosse una delle primarie necessità umane. Sosteneva che, per nostra stessa natura, noi sapiens «organizziamo la nostra esperienza e la nostra memoria principalmente in forme narrative», ovvero «storie, scuse, miti, ragioni per fare o non fare, eccetera». Secondo Bruner, volenti o nolenti, coscienti o meno, per forza di cose costruiamo la nostra identità e riorganizziamo le nostre memorie secondo criteri narrativi. Non solo: l’idea stessa che ci facciamo della realtà avviene secondo «una necessità narrativa», prende forma dall’esigenza di dare un contorno coerente a ciò che ci circonda, più che da verifiche empiriche (di questo parla il suo saggio The Narrative Construction of Reality, del 1991).
L’elaborazione di una memoria coerente altro non è che un processo di creazione di trama: «Le nostre memorie non sono come fiction. Sono fiction»
La conclusione di Bruner e degli altri puristi è che l’esperienza umana al di là della narrativa (o della narrazione) è virtualmente impossibile, o se non altro secondaria. Se la coscienza e il rapporto con la realtà sono narrativi, se ne potrebbe dedurre portando il ragionamento all‘estremo, allora tutto il resto è delirio psicotico, o quasi. Un sé che non riesce a tenere i pezzi insieme, le voci nella testa di Virginia Woolf. Posizioni come quelle di Bruner, tuttavia, nascono da un‘osservazione assai meno radicale, e forse più interessante: la memoria umana ha principalmente due forme. Da un lato la memoria episodica: flash sparsi, un suono, un odore, un colore, aneddoti brevissimi e isolati. Dall‘altro lato la memoria narrativa: le storie, più o meno coerenti, che ci raccontiamo su noi stessi e sugli altri. È la differenza che corre tra i ricordi, vaghissimi e quasi sempre senza connotazioni temporali, che abbiamo della nostra prima infanzia – il profumo della mamma, il colore delle tende, un sapore indefinito – e i fatti che ricordiamo, nel senso comune del termine, dopo l‘età della ragione. Una memoria coerente e diacronica.
La memoria narrativa consiste per lo più in un’operazione di selezione, ordinamento e cucitura di memorie episodiche, assemblate tra loro in modo tale da avere un senso e una coerenza narrativa. La costruzione della memoria (nel senso più comune, e cioè narrativo) è dunque prima di tutto una operazione di ricostruzione, una composizione di elementi sconnessi che avviene a posteriori, attraverso l’attribuzione di un senso anche a cose che, magari, un senso non ce l’hanno. Soprattutto, è un’operazione che richiede una discreta dose di fantasia, un colmare gli spazi vuoti con creazioni della nostra mente, attribuendo rapporti di causa-effetto senza basi empiriche (non mi ha richiamato perché quello che gli ho detto l‘ha fatto arrabbiare), incasellando i protagonisti in ruoli o archetipi (la vittima, il carnefice, eccetera), e in alcuni casi raccontando a noi stessi vere e proprie balle (mi ha lasciato perché sono troppo intelligente per lui). Seguendo questo ragionamento, l’elaborazione mnemonica coerente altro non è che un processo di creazione di trama: «Le nostre memorie non sono come fiction. Esse sono fiction», scriveva Jonah Lehrer nel sopracitato Proust era un neuroscienziato. Ne consegue che il lavoro delcervello umano è lo stesso messo in atto, più scientemente, dagli scrittori: costruire una storia. Siamo tutti romanzieri provetti, come dice il filosofo Dan Dennett, altro narrativista convinto.
Il problema in tutto questo è che molti degli scrittori più interessanti, specie quelli che hanno scandagliato il tema della memoria, non procedono in modo narrativo.
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“Il tempo, disse Austerlitz, è fra tutte le nostre invenzioni senz‘altro la più artificiosa. Basta già un certo grado d’infelicità personale per tagliarci fuori da qualsiasi passato e da qualsiasi futuro.” – W. G. Sebald
Gloria Origgi è una filosofa milanese trapiantata da decenni a Parigi, è ricercatrice all’Institut Nicod dell’Ecole Normale Supérieure e insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Nel 2005 ha pubblicato un paper intitolato “Narrative memory, episodic memory and W. G. Sebald’s idea of memory” in cui ha provato a smontare le posizioni di Bruner e compagnia a partire dai lavori dello scrittore tedesco scomparso nel 2001, e in particolare dal romanzo Austerlitz, uscito postumo e pubblicato in Italia da Adelphi nel 2002. Riprendendo alcune tesi avanzate dal suo collega britannico Galen Strawson in una delle critiche più feroci al narrativismo (Against Narrativity, 2004) Origgi sostiene che le opere di Sebald sono al contempo una conferma che la memoria è sì un processo di ricostruzione e una dimostrazione che questa ricostruzione non debba per forza essere di carattere narrativo. Al telefono con Studio, spiega che Sebald è «l’autore episodico definitivo». Del resto, prosegue, «quasi tutti gli scrittori che trovo più interessanti, come Proust per esempio, avevano una mente episodica».
Austerlitz – cercheremo di metterci quanti meno spoiler possibili, ma qualcuno ce ne sarà – è un romanzo interamente incentrato sulla memoria, o meglio sulla ricostruzione della memoria. Jacques Austerlitz, che fino alla tarda adolescenza nonha saputo di chiamarsi Austerlitz, né di condividere il cognome di Fred Astaire (nato Frederick Austerlitz, aveva scelto di de-ebraicizzare la sua immagine) è un uomo senza passato, che vive un‘esistenza quasi priva di riferimenti temporali: «mi sono ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosiddetti eventi temporali», dice a un certo punto. Studioso di storia dell’architettura con una certa predilezione per le stazioni, sa di non essere chi è ma non si sforza d’indagare, fino a quando non sente alla radio le storie di alcuni bambini ebrei del Continente che furono accolti in Inghilterra come orfani per sfuggire allo sterminio nazista. Poi, in una stazione, l’epifania, flash di ricordi, la madre che lo saluta, e da lì parte la ricerca delle origini e della sua storia, delle memorie rimosse. Altri flash: i viali alberati di Praga, i giardini, i genitori avvolti da quell’odore del teatro, l‘azzurro pallido d’un paio di scarpine di scena. Opera di fiction che lo stesso Sebald stentava a definire romanzo, Austerlitz non è divisa in capitoli, e neppure in paragrafi: 315 pagine di testo intervallato soltanto da fotografie, prive di didascalie o di riferimenti espliciti nel testo ma che col testo interagiscono. Anche in quest‘opera di ricostruzione certosina di una storia, di un‘identità, di una memoria, la dimensione dello spazio prevale costantemente su quella del tempo.
Non è la memoria episodica di un bambino ancora incapace di cucire i frammenti, bensì la memoria episodica di un adulto maturo che quei frammenti li mette insieme a modo suo.
«È una memoria al cento per cento episodica», commenta Origgi. Contemporaneamente, è una memoria stratificata, messa assieme tassello per tassello, ricostruita a posteriori. Non è la memoria episodica di un bambino ancora incapace di cucire i frammenti, bensì la memoria episodica di un adulto maturo che vuole capire chi è – e che, così facendo, quei frammenti li mette insieme a modo suo. Una dimostrazione che «non è affatto vero che per capire bisogna narrativizzare», sostiene la filosofa. Ciò che critica del narrativismo, e che secondo lei Sebald avrebbe dimostrato una volta per tutte, non è tanto l‘idea che la memoria, così come la intendiamo comunemente, sia una creazione composita. Quanto piuttosto che questa composizione debba per forza passare per l’attribuzione di senso: «L’esperienza non ha un senso», prosegue, «e se si pensa di dovergliene attribuire necessariamente uno si finisce per ragionare in modo teleologico. Che poi è precisamente quel che fa il narrativismo, che è pericoloso proprio perché teleologico e, dunque, giustificatorio».
Quanto a me, c‘è un passaggio di Austerlitz che mi ha molto colpito. Quando il protagonista, che prima di ricostruire la propria identità soffriva, prevedibilmente, di attacchi di panico, ha da poco individuato la sua storia, e questo non gli dà alcun sollievo: «il raziocinio non riusciva a spuntarla contro quella sensazione di ripudio e annientamento che da sempre avevo represso e che ora sgorgava prepotentemente nel mio animo». La consapevolezza, il mettere insieme i tasselli, fa stare peggio.C‘è una storia, ma non c‘è alcun senso da attribuirle. Mi domando, in effetti, se davvero questa mancata attribuzione di senso sia un rimando al rifiuto della «necessità narrativa» di cui scriveva Bruner e della tentazione teleologica accennata da Origgi; o se piuttosto non dipenda dall’esatto opposto. Se cioè, proprio come Virginia Woolf, mettendo a nudo l’illusorietà del sé, ha lasciato intendere l‘importanza di costruircene uno, così Sebald, attraverso la natura squisitamente episodica, spaziale, del suo racconto, per paradosso non abbia finito per dimostrare quanto una parte di noi tenda, o se non altro aneli, a pensare in modo narrativo. E mi domando, senza sapermi dare una risposta, quanto Austerlitz sia il ritratto di una mente episodica, e non invece la cronaca di un tentativo di narrativizzazione fallito.