Pubblichiamo il contributo sul tema dell’infanzia legati alla XIII edizione di Torino spiritualità (21-25 settembre 2017). Roberto Gilodi commenta Walter Benjamin (W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, tr. it. I. Amaduzzi, Raffaello Cortina, Milano 2012).
«Scervellarsi pedantescamente per realizzare prodotti — siano essi immagini, giocattoli o libri — adatti ai bambini è folle. Fin dall’Illuminismo questa è una delle fissazioni più ammuffite dei pedagoghi. Totalmente infatuati per la psicologia, non si accorgono che il mondo è pieno di cose che sono oggetto di interesse e di cimento per i bambini; e si tratta delle più azzeccate. I bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle sartorie e nelle falegnamerie. Negli scarti di lavorazione riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro, a loro soli. Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a quello grande. E bisognerebbe avere negli occhi le regole di questo piccolo mondo oggettuale quando si voglia creare qualcosa di appositamente pensato per i bambini e non si preferisca lasciare che sia la propria attività, con tutto quanto vi è in essa di funzionale e di accessorio, a trovarsi da sola la strada verso di loro.»
La razionalità strumentale è l’uso della ragione per raggiungere un obiettivo, per esempio quello di realizzare un’opera o conoscere le caratteristiche di un fenomeno, individuando il percorso intellettuale più idoneo. Così operano i metodi delle scienze esatte, così agisce il fare del tecnico, dell’artigiano, dello sportivo, così pensa chi ha fiducia nella capacità umana di dominare la natura, di conoscerne la verità, di sapersene avvantaggiare. E così pensano coloro, e sono la maggioranza, che nella vita individuano scopi, cause ed effetti indagabili dall’intelligenza umana, mossi dalla convinzione che tale esercizio cognitivo e la sua traduzione pratica migliorino la vita di chi vi si dedica.
Esiste però un altro modo di affrontare il mondo che è quello di chi non ama darsi un obiettivo e, per quanto curioso di conoscere, preferisce non avere mete da raggiungere e lasciarsi piuttosto sorprendere dalla casualità degli incontri e dalla varietà imprevedibile delle forme, dei colori e dei suoni con cui il mondo gli si presenta. Il suo è un conoscere disinteressato, o meglio, non mosso da un interesse specifico.
Per Walter Benjamin, come già prima di lui per Baudelaire, la figura che incarna questo atteggiamento è quella del flâneur, colui che gira per la metropoli senza una meta fissa ma osservando con grande attenzione ogni dettaglio del mondo che incontra: volti, palazzi, oggetti, monumenti, scene di vita sociale. Benjamin amava questo tipo di osservazione errante, libera da costrizioni funzionali perché permetteva il gioco delle associazioni ma soprattutto consentiva a ciò che non ha valore, al residuale, agli scarti di sprigionare un’inattesa ed improvvisa scintilla di verità sul significato del proprio tempo storico in rapporto all’eternità dei significati ideali.
Questa curiosità nomade che ama la sorpresa, l’imprevedibile e la meraviglia è precisamente ciò che Benjamin osserva nei bambini. La loro curiosità si sottrae alle regole e ogni tentativo di prevederla costruendo oggetti ‘adatti’ a loro è destinata a fallire.
I bambini amano correre senza una meta, la loro flânerie mentale e fisica rivendica la gratuità del suo errare. Con gli scarti di lavorazione essi costruiscono mondi alternativi, improvvisano relazioni e connessioni che non trovano giustificazioni razionali ma hanno una genesi misteriosa, che rinvia a qualcosa di originario o trascendente.
Come sapeva Leopardi, gli eccessi della razionalità cosciente che pretende di dominare la natura e il mondo producono infelicità e distruzione.