Abbiamo visto “ We want sex “ ( Made in Dagenham ) regia di Nigel Cole.
Il Regno Unito ha una lunga tradizione di cinema realistico sociale, sin dagli Anni Trenta. Non si può poi non segnalare negli Anni Cinquanta l’importante corrente cinematografica del Free Cinema Inglese, con registi del calibro di Lindsay Anderson ( “ If “ ), Tony Richardson ( “ Gioventù, amore e rabbia “ ), Karel Reisz ( “ Sabato sera, domenica mattina “ ), Joseph Losey ( “ Il servo “ ), John Schlesinger ( “ Billy il bugiardo “ ), Richard Lester ( “ Non tutti ce l’hanno “ ) e la scrittrice e regista italiana Lorenza Mazzetti ( suo il documentario “ Together “ ). Negli ultimi vent’anni il cinema del Regno Unito ci ha regalato tanti ritratti leggeri e potenti, allo stesso tempo, della classe operaia. Una classe operaia fuor di retorica, cosciente e mai veramente sconfitta, anche se non ideologizzata nel senso stretto del termine. Ritratti di personaggi concreti, belli, tosti, simpatici e imprescindibili – come diceva Bertold Brecht – ma anche dolenti, spappolati e distrutti dalle politiche prima dalla Lady di Ferro, Margaret Thatcher, poi da quel geniale Medioevo che viene chiamato Globalizzazione. Film splendidi come “ Riff Raff – meglio perderli che trovarli “ ( 1991 ) e “ Piovono pietre “ ( 1993 ) entrambi diretti da Ken Loach; o “ Grazie, signora Thatcher “ ( 1996 ) di Mark Herman; e tra i molti altri possiamo aggiungere anche film fuori schema come “ Full Monthy “ ( 1997 ) di Peter Cattaneo o “ Trainspotting “ ( 1996 ) di Danny Boyle.
Giunge in questi giorni nelle sale italiane – dopo essere stato presentato al Festival di Cannes e proiettato fuori concorso al Festival Internazionale di Roma – “ We want sex “ ( titolo originale: Made in Dagenham ), tratto da una storia vera e che ha visto nel lontano 1968, 187 “ brave ragazze “ lottare e vincere per un diritto che ancora oggi in Italia e non solo qui non è ancora riconosciuto: la parità salariale tra uomini e donne. Un film che però non ha quasi nulla in comune con tutti i film precedenti anche citati, privo di reale trasgressione e di “ rottura “, sembra quasi che una storia vera e dura sia stata lavata, stirata e colorata. Potremmo aggiungere, priva di reale critica sociale e di denuncia di una società votata al benessere e al piacere senza conservare la gioia e la coscienza. Il tono da commedia e il ritmo ironico rende tutto casuale, placido e bonario alla fin fine, sia nella descrizione dei rappresentanti sindacali “ rammolliti “ e senza coraggio ( ma degne persone se pensiamo a gente come Bonanni e Angeletti ), sia in quella dei leader della sinistra ( in questo caso al governo ) che risultano molli e privi di una idea di sinistra che sia una; sia nei dirigenti della fabbrica molto sorpresi da tutto e molto british; sia negli operai maschi che passano il tempo a lavorare, a bere birra e a inseguire sogni piccolo borghesi ( tutto possibile, ma non nei termini mostrati ). Sembra quasi che il regista si sia adoperato più ad una ricostruzione di quegli anni – visi, abiti, scenografie – che non al tempo sociale.
In tempi che sembrano ancora più lontani ( gli Anni Sessanta ) ma per nulla mitici, anzi modesti e periferici con la Storia, nella città di Dagenham, nell’Essex, ci sono 187 donne – tra 55mila operai maschi – che lavorano alla Ford. Lavorano in un capannone fatiscente in cui piove dentro e fa anche molto caldo; dove i ritmi e la produzione sono affidati alle donne senza alcuna razionalizzazione. Queste “ brave ragazze “ sono addette alla cucitura dei sedili per auto, producono e sembra che non abbiano alcuna coscienza di classe. Vengono pagate quasi la metà degli uomini e non se ne lamentano ma quando l’Azienda decide di togliere loro la qualifica professionale e classificarle come “ non qualificate ”, le operaie quasi per caso ma con una coerenze particolare iniziano uno sciopero ad oltranza che sconvolgerà un po’ tutto, i sindacati, la fabbrica – operai e dirigenti – le famiglie e le donne stesse. Protagonista suo malgrado è Rita O’Grady ( una convincente e brava Sally Hawkins ), una giovane e semplice lavoratrice, sposata con un brav’uomo e con due figli adolescenti; diventa la rappresentante sindacale per mancanza di volontarie e si rivelerà una donna caparbia, coraggiosa fino all’estremo e inconsapevole dei rischi a cui potrebbe andare incontro. Inizia una battaglia per la parità dei diritti economici ma diventa quasi da subito anche una lotta contro lo strapotere maschile che in tutte le classi sociali relega la donna in posizione subalterna e sempre seconda. E come in una ‘ favola ‘ moderna riesce – anche grazie alla ministra Barbara Castle, detta “ la rossa “, e non solo per il coloro dei suoi capelli – a mettere le basi per la parità economica tra uomini e donne. Una legge che verrà emanata due anni dopo, come viene scritto sulle immagini finali del film.
Il film è diretto con garbo e con leggerezza dal regista di cinema e televisione Nigel Cole ( per il cinema ha diretto solo cinque film, quelli da menzionare sono “ L’erba di Grace “ – 2000 – e “ Calendar Girls “ – 2003 – ), tuttavia non ha lo spessore di registi come Loach o Boyle e quindi racconta una storia importante e dura in modo leggero, quasi restando alla superficie dei fatti, e con alcuni personaggi scivola sui cliché e gli stereotipi, come con la mogliettina del capo della fabbrica, i due consiglieri della ministra e anche con il primo ministro.
E’ da segnalare tutto il cast che possiamo definire ‘ perfetto ‘ e con una prova d’attori robusta e fondamentale per la riuscita del film.